Peperinus
Accoccolato sull'altissima
rupe di peperino che strapiomba nel torrente Vezza, Vitorchiano (285
m s.l.m.) è stato uno dei tanti borghi estruschi della provincia
viterbese, nell'alto Lazio. Tutt'intorno, si scorgono la sagome del
Monte Cimino (1.053 m), un tempo un vulcano, dalla cui eruzione- nel
corso dei millenni- si sono cementati materiali lavici che hanno dato
origine al tufo saldato, da cui è ricavato il peperino, la
notissima pietra locale così chiamata fin dall'antichità; i latini infatti
lo conoscevano come lapis peperinus, derivato di piper (cioè
pepe), per la presenza di particelle di biotite di colore nere simili a
grani di pepe. Sono queste particelle di vetro e calcio decomposte a
creare una sorta di 'cemento' nel materiale, tale da renderlo resistente
ma al contempo facile da lavorare. Il suo colore classico è il grigio
chiaro (lavagrigia) ma nella zona è presente anche quello rosa, di
qualità migliore, più apprezzabile, più dura e consistente, chiamato
lavarosa.
Questa pietra locale è
stata la fortuna degli abitanti fin dalla remota antichità: con essa sono
stati realizzati altari, tombe, abitazioni, sarcofagi,
sculture e statue, attività che continua ancora oggi. I Romani la
impiegarono per costruire edifici cultuali e civili.
Il fascino attuale di
Vitorchiano risiede -oltre che nella sua spettacolare posizione (che non è
molto differente da quella di
Bomarzo), al suo centro storico in cui
troneggia proprio il peperino con cui nel medioevo vennero realizzati i
principali edifici, che ne conservano ancora il sapore d'altri tempi.
Snodandosi tra le viuzze e le piazzette, si scorgono degli affacci
(terrazze) sul paesaggio agreste circostante. Si incontra sovente il
famoso S.P.Q.R. di romana memoria, o di iscrizioni di devozione alla
capitale, e ciò è dovuto al fatto che Vitorchiano si guadagnò
l'appellitivo di 'fidelis' (fedele), per essersi sempre messa dalla parte
di Roma.
Bellissima la Fontana
del Fuso (in p.zza Roma), del XIII secolo, in cui pare di scorgere lo
zampino dei
Maestri Comacini.
Il peperino è tipico
soltanto di queste zone ma viene esportato in diverse parti del mondo,
dall'America al Giappone, passando per il Medio Oriente e arrivando fino
all'Isola di Pasqua (Rapa Nui, che appartiene al
Cile). Pare infatti che i Maori- l'esigua tribù indigena che vive
sull'isola - abbiano girato il mondo per trovare una pietra utile al
restauro dei loro preziosi
Moai
(le misteriose e gigantesche sculture litiche di cui abbiamo accennato
in altra sezione), trovandola proprio a Vitorchiano. Per dimostrare la
funzionalità del peperino, ne hanno costruito uno sul territorio di
Vitorchiano.
Che c'è dunque di più
bello che andare a trovare questo gigante di pietra, trovandomi alcuni
giorni in zona?
Il Moai di Vitorchiano
Lo abbiamo cercato
nella piazza del paese, dove doveva essere, in quanto la sua collocazione
originaria era quella. Ma lì non c'è più; è stato 'trasferito' all'inizio
dell'abitato, provenendo da Grotte S. Stefano, in uno spiazzo da cui
guarda dritto Vitorchiano, dall'altra parte della forra. Secondo alcuni,
vigila sul borgo e i suoi abitanti, secondo altri è una scultura sacra che
porta prosperità al luogo che osserva, a patto che non venga mai spostato.
Se viene mosso dal punto in cui viene scolpito, provoca grandi sciagure...
Lo spostamento- come
verremo a sapere in un secondo momento- ha destato grandi polemiche tra
molti abitanti di Vitorchiano, ipotizzando anche che ciò fosse un reato
bello e buono(3). Tutto era cominciato con il 'prestito' del Moai in
Sardegna, per una mostra. Ma il tempo passava e della scultura nulla si
sapeva; nel frattempo, nella piazza iniziavano strani movimenti, che
secondo alcune cronache furono 'scempi'. Alla fine, il Moai nel centro
della piazza non venne più rimesso e, al suo posto, venne collocata una
fontana del 1700. Sul lastricato che la circonda si può ancora vedere
l'immagine del Moai e la dedica.
L'idea di realizzare un
Moai del tutto simile a quelli dell'Isola di Rapa Nui risale alla fine
degli anni '80 del secolo scorso (esattamente nel 1987). La
trasmissione condotta da Mino d'Amato "Alla Ricerca dell'Arca",
aveva consentito uno straordinario gemellaggio culturale tra
Vitorchiano e l'isola di Rapa Nui. Se nel primo a far da sfondo è
l'ombra di un vulcano spento, il Cimino, cosi nella seconda c'è pure un
vulcano, il Rano-Raraku; a Vitorchiano, ci fu una grandiosa
civiltà, quella Etrusca, e sull'Isola di Pasqua quella pre-incaica,
entrambe affascinanti e misteriose. Quella civiltà ha lasciato sull'isola
statue colossali enigmatiche, chiamate Moai, che però si stavano
deteriorando da tempo e giacevano in uno stato di vergognoso degrado, semi
spezzate o abbattute. Era necessario richiamare l'attenzione del mondo!
Realizzarne uno sarebbe stato un grande richiamo e siccome la delegazione
pasquense incaricata di trovare la pietra idonea, la individuò solo ed
eslusivamente nella cava della famiglia Anselmi, di Viterbo, si predispose
il tutto per il gemellaggio, con l'aiuto della Televisione di Stato.
Gli Anselmi,
titolari della più antica ed illustre industria per l' estrazione, la
lavorazione e la commercializzazione a livello mondiale di peperino, per
un certo periodo ospitarono con grande cordialità la famiglia di Juan
Atan Paoa, ultimo discendente di Ororoina (alla XIV^
generazione)(2). Per tale motivo, Juan ha fatto loro dono di una lastra
ovale di peperino incisa con caratteri Rongo-Rongo, la scrittura
indigena, informandoli che nessuno di loro sarà mai ospite qualunque a
Rapa Nui ma sempre accolto come un fratello di pietra. Sull'isola
c'è un unico villaggio. chiamato Hanga Roa, nel quale vivono circa 1.600
persone, comprese le missioni.
La realizzazione del Moai
venne seguita per tutto il tempo dalla televisione (4 settimane) e dalle
testate giornalistiche; il monolite estratto dalla cava pesava 400 q e fin
da subito i Maori intonarono canti propiziatori affinchè i lavori si
svolgessero senza intoppi. I loro utensili erano volutamente analoghi a
quelli dei loro antenati pasquensi, come le asce di pietra. A poco a poco
l'enorme nume tutelare prendava forma e quando venne il momento di
issarlo, ci fu uno sforzo congiunto tra i Maori e gli operai della ditta
Anselmi. Dovette essere molto suggestiva la cerimonia sacra, il Kuranto,
che seguì la conclusione dell'opera. Costumi polinesiani, gonnellini di
paglia, tanga di piume, corpi dipinti di terra bianca e rossa, danze e
canti intorno al Moai appena compiuto e ancora nella cava. Grande gioia,
grande festa, grande spettacolo!
Il Moai era riuscito
perfettamente: lo stesso sorriso enigmatico, lo stesso sguardo ignoto, la
posizione di eterna attesa. Mentre l'ukulele accompagnava il
cerimoniale pasto degli indigeni nei pressi di un forno sotterraneo, si
cominciò ad organizzare il trasporto del colosso nella piazza di
Vitorchiano, tramite mezzi meccanici muniti di gru-semoventi. Cosa che gli
antichi Maori non devono aver fatto a Rapa Nui!
Al Moai mancava però
ancora un dettaglio importantissimo: il Pukao, ossia il
copricapo in peperino rosa, che anche le statue originali possiedono
immancabilmente. Si discute ancora sul significato di questo strano
'cappello', che secondo alcuni simboleggia i capelli rossi misteriosamente
diffusi tra la popolazione indigena.
A quel punto, i Maori
hanno intonato dei canti struggenti, sacri, relazionati al loro mitico
capostipite, Hotu-Matua, arrivato dal mare da oriente.