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TEMATICHE: Due passi nell'Italia nascosta Simbologia e Cultura Orientale UTILITY: Ricerca veloce titoli per argomento SERVIZI:
| (terza parte- di MIchele Trapani)
[prima parte
e seconda parte]
gli Egiziani gli diedero il nome di “spada”.
Con
questo terzo ed ultimo lavoro su Mozia cercheremo di completare quanto é stato
finora detto sulle simbologie care ai Fenici. Presentemente
abbiamo voluto essere fedeli ad uno dei detti più popolari tramandatici
(probabilmente) dall’antica Saggezza: "Non c'é due senza tre". Ora,
se questo proverbio ha una valenza positiva nella vita quotidiana, non meno
efficace si dimostra nella scienza di Hermes. A
tal proposito Theophrastus Bombastus Von Hohenheim , meglio noto come "Paracelso"
(1493 -1541), rivolgendosi a coloro che precedendolo esclusero il Sale come
terzo principio, ebbe a proferire: "Credevano
che il Mercurio e il Solfo fossero i principi di tutti i metalli e non si sono
neppure sognati di menzionare il terzo." (“Il Tesoro dei Tesori”) “Sappiate
quindi che tutti e sette i metalli nascono da una materia triplice, cioè dal
Mercurio, dal Solfo e dal Sale, però diversi e con colori particolari. Ermete,
perciò, ha detto non male che tutti e sette i metalli nascono e sono composti
da tre sostanze e analogamente le tinture e la Pietra dei Filosofi.” (“De
Natura Rerum”) Di
primo acchito al lettore quasi certamente sarà sembrato che nelle
argomentazioni iniziali siamo voluti andare a ruota libera ed inevitabilmente
lontani dalle tematiche che ci proponiamo di sviluppare in questa sede; eppure
in tutta franchezza assicuriamo che non è questo il nostro caso. Ebbene,
stando alle testimonianze degli antichi storici, tra i quali Erodoto (484
- 425 a.C.) e Diodoro Siculo (80-20 a.C.),
i Fenici erano assai dediti al commercio per mare. Tra
i preziosi beni che erano soliti mercanteggiare (tra i quali spezie, metalli,
stoffe, ecc.) figurava anche il preziosissimo sale di cui essi erano, oltre che
abili dispensatori, anche i produttori. Furono
proprio i Fenici, infatti, i primi a notare che il territorio di Mozia e
dintorni presentava (e presenta tutt’oggi) acque basse, calde e con
un’elevata concentrazione salina, condizioni queste ideali per l’estrazione
del cloruro di sodio. Nessuno
si sorprenderà dunque se affermiamo che molto probabilmente la fondazione delle
vicine saline di Trapani risale appunto all’epoca dei nostri antenati
inventori della porpora. [1] Il
sale veniva utilizzato, oltre che come indispensabile apporto alimentare, anche
per la conservazione del cibo. E’
qui da osservare che da secoli gli Egizi utilizzavano il cloruro di sodio (o, a
voler essere precisi, il “Natron” [2] ) per la mummificazione dei morti. Il
corpo del defunto, grazie all’azione disidratante del sale, poteva meglio
conservarsi nel tempo. Andremo
un po’ più in là di queste argomentazioni di ordine prettamente funzionale
svelando l’esoterismo celato nella pratica. Secondo
la concezione Egizia era proprio grazie all’apporto vivificante del sale che
l’anima del defunto (così come il corpo) poteva conservarsi nel tempo, ma
soprattutto (in una seconda istanza) rinascere a nuova vita. La
resurrezione del corpo e dello spirito era in qualche modo legata
indissolubilmente al sale. Si vede bene che (secondo gli Egizi) il corpo di
morte da molti disprezzato, che all’apparenza non ha nulla di seducente e che
spesso presenta un odore nauseabondo, contiene in se qualcosa di estremamente
prezioso. A
questo punto della nostra esposizione apparirà chiaro perché il sale veniva un
tempo chiamato anche “oro bianco” e ciò non solo per sottolinearne la
purezza (da sempre giustamente incarnata dal colore “bianco”), ma anche per
associarlo ad Horo, ossia all’anima morta (Osiride) e poi risorta la quale, a
buon diritto, poteva esclamare: ”Ero
morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte
e dell'Ades” (Apocalisse 1,18) Nel
prosieguo parleremo ancora del nostro terzo principio e della sua ineluttabile
necessità. La maschera dal sorriso sardonico Or dunque ci avventuriamo
ancora una volta sulle secrete vie del museo Whitaker, sito nella nostra amata
isola, per occuparci di uno dei reperti più curiosi e senz’altro appariscenti
preposti alla sagace attenzione del visitatore.
Trattasi
di una maschera ritrovata nel tophet di Mozia e realizzata in terracotta rossa
rappresentante un volto dai tratti sinistri e controversi che si risolvono in un
sorriso che può definirsi “diabolico”. In
particolare la bocca, che presenta una concavità verso l’alto, è deformata
nel rappresentare una risata, mentre il disegno degli occhi è concavo verso il
basso… quest’ultimi sembrano cioè versare salate lacrime. Parrebbe
dunque esserci nel nostro personaggio una netta opposizione tra sentimenti
l’uno in contrasto con l’altro. Giubilo e tristezza, gaiezza e malinconia,
godimento e pianto. Altro
particolare… il viso presenta delle rughe assai marcate. In
tutta evidenza l’uomo della maschera fa mostra di un’età affatto
avanzata… trattasi assai verosimilmente di un “vegliardo”. Ora
alcuni studiosi si sono figurati i Fenici come un popolo dedito ai sacrifici
umani (ed in particolare dei propri primogeniti maschi). A testimonianza di ciò
nel tophet di Mozia sono state ritrovate diverse urne cinerarie.
I
fanciulli, stando anche all'attestazione di Diodoro Siculo, venivano arsi vivi
in onore del dio Baal Hammon; le ceneri dei corpi martoriati dal fuoco
purificatore erano poi raccolte in appositi vasi. Si ritiene dunque che questa
maschera prendesse in eredità l'espressione di gioia/dolore del carnefice
nell'atto dell'esecrabile infanticidio. Questi
bambini furono uccisi realmente, oppure i corpi ritrovati sono quelli di
fanciulli morti per cause naturali? Non
staremo qui a discutere sul problema che al momento sembrerebbe non presentare
una soluzione convincente e definitiva, ma preferiamo occuparci della questione
da un punto di vista prettamente simbolico. Riassumendo
abbiamo dunque un vegliardo che uccide dei bambini innocenti... la situazione
richiama alla mente un mito assai celebre, ossia quello del vecchio Saturno (o
Crono) nel quale al “Dio del Tempo” venne profetizzato che uno dei suoi
figli lo avrebbe spodestato. Decide allora di divorare tutti i lattanti
insensibilmente, cioè tutti quei “figli di Tanith” che nascono dal cielo
(luogo da cui proviene il soffio vitale), eccezion fatta per Giove che, appunto,
gli succederà. [Goya - “Saturno che divora
uno dei suoi figli” - Museo
del Prado, Madrid] Rea
infatti, moglie del “dio cronocratore”, ad un certo punto decide di
ingannare il marito dandogli da mangiare, al posto di Zeus infante, una roccia
abilmente camuffata ed avvolta in fasce. Il
seguito del mito ci viene precisato dal distico del dodicesimo emblema dell'
Atalanta Fugiens (1617) opera del medico alchimista Michele Maier: "La
pietra che, divorata da Saturno al posto del figlio Giove fu da lui vomitata, e
posta sull'Elicona quale monumento ai mortali." Nel
discorso relativo al nostro emblema il medico tedesco ci fornisce prontamente
una spiegazione del mito di cui ci stiamo occupando: “I
Filosofi esperti dichiarano che Saturno è il primo a presentarsi nella loro
Opera […] il color nero è quindi Saturno, disvelatore di verità, che divora
una pietra al posto di Giove […] questa pietra è poi vomitata da Saturno,
quando sbianca […] la bianchezza è in realtà nascosta sotto il nero e la si
estrae dal suo ventre cioè dallo stomaco di Saturno.”
Ma
torniamo alla nostra maschera per un’ulteriore interessante osservazione… a
nostro modo di vedere sia la vecchiaia che i sentimenti contrapposti espressi
dal reperto in oggetto si accordano altrettanto sorprendentemente con una
testimonianza tratta da uno scolio della "Repubblica" di Platone che
riportiamo di seguito così come l'abbiamo trovata: <<
Gli abitanti della Sardegna (ma presumibilmente anche quelli di Cartagine e
Mozia) nel momento in cui i loro genitori hanno raggiunto la vecchiaia (e a quel
punto i figli riconoscono che i loro padri hanno ormai vissuto un tempo
abbastanza lungo) li conducono al luogo in cui hanno in animo di seppellirli; e
una volta sul posto, durante l’escavazione delle fosse i vegliardi si pongono
a sedere col sorriso a fior di labbra, pur consapevoli di trovarsi ad un istante
dalla morte; allora ognuno di questi giovani brandendo un randello mena colpi al
proprio padre e lo sospinge verso le fosse […] i vegliardi, compiacendosi
dell’operazione dei propri figli, giungevano alla morte con apparente
manifestazione di gioia, ed emettevano l’ultimo sospiro col sorriso e nella
letizia. >> [3] In
quest'ultimo estratto invece che un infanticidio abbiamo in tutta evidenza un
parricidio. Naturalmente
(e ci teniamo a chiarirlo bene), siamo dell'avviso che questo episodio, così
come la precedente strage di innocenti, non vada interpretato alla lettera, ma
in maniera assolutamente allegorica. Avremo modo di riparlare e di sviluppare
questa nuova condizione nel prossimo paragrafo. La Sfinge Alata I
reperti di cui intendiamo ora discutere non sono certamente meno curiosi e
terribili dei precedenti. Alcune
arule con delle Sfingi alate, site anch’esse nel museo isolano, hanno
calamitato il nostro interesse durante la nostra ultima visita risalente a quasi
due anni fa. Queste
minacciose figure presentano la testa ed il volto di donna, il corpo (ossia il
petto, le zampe e la coda) di leone, e le ali d'uccello. Su ciò che può
significare la presenza di queste Sfingi ci informa prontamente il nostro
Plutarco. Attingiamo
dunque, ancora una volta, dalla sua mirabile opera, ossia il "De Iside et
Osiride": “Questa
(loro Scienza) è quasi del tutto mascherata da miti e ragionamenti che lasciano
intravedere soltanto un’oscura apparenza della realtà: ed è senz’altro per
indicare questa caratteristica della loro Filosofia che davanti ai templi i
sacerdoti collocavano le Sfingi, a significare cioè che la loro teologia è
intessuta si Sapienza enigmatica.” Ovviamente
le considerazioni di Plutarco si riferiscono in particolare agli Egizi ma, a
nostro avviso, sono tranquillamente estendibili al popolo dei Fenici. Inoltre
quella "Sapienza Enigmatica", di cui parla il nostro antico Autore,
mascherata e dissimulata da miti e ragionamenti giustifica ampiamente (se mai c'é
ne fosse bisogno) il metodo interpretativo sin qui adottato. Cercheremo
conferma di ciò nelle parole dell'alchimista Limojon De Sainct Disdier: "(I
Filosofi manifestano) sotto forma di immagini ed allegorie i più importanti
segreti agli Studiosi che hanno il vantaggio di vedere chiaramente le verità
Filosofiche, attraverso i veli enigmatici di cui sanno coprirle i Saggi."
[4] Lo
stesso Autore più avanti ribadisce: "I
Filosofi non hanno un sistema più sicuro, per celare la loro Scienza a quelli
che ne sono indegni e per manifestarla ai Saggi, che quello di esporre mediante
allegorie i punti essenziali della loro arte..." La
figura della Sfinge invece designa, di per se stessa, la così detta
"Pietra dei Filosofi", ovvero quella sostanza che, come asserisce lo
stesso Limojon, "è l'oggetto della Filosofia considerata allo stato della
sua prima preparazione, in cui essa è vera e propria Pietra, giacché è
solida, dura, pesante, fragile, friabile: essa è un corpo poiché fonde al
fuoco, come un metallo, è tuttavia spirito in quanto è perfettamente
volatile..." [4] Affidandoci
alla testimonianza del nostro alchimista possiamo ben dire che la Pietra dei
Filosofi (o Sfinge) é nello stesso tempo "corpo" ma anche
"spirito volatile", é una materia fissa o solforosa e
contemporaneamente una sostanza volatile o mercuriale. In
particolare la sua tenace stabilità viene evidenziata dalle porzioni leonine
della figura, mentre la sua caratteristica aerea é invece simboleggiata dalle
due ali. L’arcano
frontespizio del "Mistero delle Cattedrali", opera dell'altrettanto
misterioso Adepto Fulcanelli, reca la figura dell'essere mostruoso in oggetto e
l'iscrizione: "La
Sfinge protegge e domina la Scienza". In
effetti la Sfinge protegge la Scienza da chi ne é indegno, in quanto la
risoluzione degli enigmi ch'essa propone é riservata solamente ad un numero
esiguo di prescelti. Inoltre
la Sfinge domina l'Arte di Ermes poiché é lei a costituire l'unica vera
preoccupazione dell'alchimista, l'unico soggetto verso cui il Saggio rivolge
interamente le sue faticose attenzioni. Per
brevità di discorso non ci occuperemo dettagliatamente del mito greco
riguardante l'essere mostruoso in argomento [5] se non per segnalare che Edipo,
ossia colui che riesce a risolvere il celebre enigma della Sfinge, si rende
protagonista dell'uccisione di suo padre, episodio che poi verrà ripreso dalla
moderna psicanalisi. Michele
Maier [6] provvede a fornirci una spiegazione della vicenda: "Edipo
é accusato di parricidio e incesto... i due più raccapriccianti crimini che si
possano immaginare... tuttavia ciò non fu scritto come una storia o un esempio
edificante, ma inventato e presentato allegoricamente dai Filosofi per svelare i
segreti della loro dottrina. Entrambi
i crimini riportati si incontrano nell'Opera; infatti il primo agente, o padre,
è rovesciato e abbattuto dal suo effetto, o figlio; quest'effetto medesimo poi
s'unisce alla causa seconda fino a divenir una cosa sola con essa..." Come dunque abbiamo visto
prima nell’estratto dalla "Repubblica" di Platone, il figlio uccide
il padre o, per meglio dire, il mercurio filosofico, unico insostituibile
Artigiano dell’Opera, uccide la materia antica e grezza affinché il vegliardo
di ieri diventi il giovane uomo di domani, letteralmente una creatura rinnovata
poiché, come è scritto:
“Le
cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove.” (Corinzi 5,17) Donna con maialino Il
nostro Plutarco tra le varie cose ci informa del fatto che i sacerdoti Egizi
consideravano il maiale animale impuro, "questo soprattutto perché il
maiale, così pare, si accoppia di preferenza quando la Luna é calante... si
racconta anche una storia, che spiega perché essi sacrifichino il maiale una
sola volta durante il plenilunio: Tifone, mentre inseguiva un maiale alla luce
del plenilunio, trovò la bara di legno nella quale giaceva il corpo di Osiride,
e la fece a pezzi." [7] Nella
statuetta che ci accingiamo ad esaminare il perfido porcellino che, come abbiamo
visto è connesso, per il suo determinante contributo, allo smembramento del dio
del Sole, La
figura è stata realizzata in terra cotta rossa… la
fanciulla, dal volto apparentemente ricolmo di gioia fiduciosa, è riccamente
vestita da un’ampia toga che le ricopre bene ogni parte del suo corpo.
Presenta inoltre un copricapo tondeggiante simile ad un turbante regale con un
pesante velo che le ricade sulle spalle. L’immagine
a nostro avviso ricorda molto
da vicino le tante rappresentazioni della Vergine Maria da sempre così care ai
fedeli della cristianità, tranne ovviamente per un particolare fondamentale;
alludiamo cioè a quel porcellino che la nostra Dama tiene strettamente al
petto. Giacché
Plutarco, nell’estratto visto poc'anzi, accenna al sacrificio del maiale
durante il plenilunio a tal proposito possiamo riferire che tale usanza era
comune ai misteri Eleusini. Ad Eleusi, infatti, nel mese di bendromione si
svolgevano i così detti Halade Mystai, espressione che significa letteralmente
“andate al mare iniziati”. In
questa cerimonia iniziatica, nelle prime ore del mattino, i candidati andavano
verso il mare con dei porcellini che lavavano e poi sacrificavano, questo perché
gli antichi ritenevano che il sangue di suino fosse molto apprezzato dagli dei
degli inferi. Dopo
l’immolazione i corpi senza vita dei maiali venivano seppelliti in buche
profonde. Codesto
macabro atto di devozione si compiva nel terzo giorno dei misteri, indi per cui
il verro sacrificato veniva appellato, non a caso, “maiale del terzo
giorno”, questo perché il numero tre è un richiamo alle tre reiterazioni
occorrenti per la purificazione della materia impudica e ferina simboleggiata
dalla bestiola. Cercheremo
ora di chiarire quale sia l’entità della materia di cui stiamo discorrendo. A
tal proposito segnaliamo che la statuetta richiama alla mente un’allegoria
proposta dal Maier nella sua già citata opera dedicata ai “Nuovi Emblemi
Chimici sui Segreti della Natura”. Si
tratta, più precisamente, del quinto emblema il cui distico recita: “Poni un
rospo sul seno della donna perché lo allatti, e muoia la donna, e sia gonfio di
latte il rospo” [8] A
questo punto dell’esposizione non sarà certamente troppo difficoltoso
tracciare un parallelo tra le due allegorie a confronto; nei due casi delineati
infatti abbiamo una vergine che tiene in grembo un animale tenebroso. In
particolare da una parte v’è il maiale e dall’altra il rospo… i due
esseri bruti pur essendo animali diversi, hanno invero alcune caratteristiche
affatto comuni. Sono
ambedue ripugnanti e sudici, particolarmente notturni, amanti dell’acqua morta
e stagnante, della fanghiglia umida e melmosa. Inoltre entrambi fuggono la luce
del Sole verso quella profonda
oscurità che gli alchimisti tradizionalmente accostano al metallo più greve
esistente in Natura, ossia il volgare piombo. Nell’allegoria
del Maier la donna allatta il rospo… il candido fluido è un chiaro
riferimento al “latte della vergine” (lac virginis) dei Filosofi che altro
non è che il “Mercurio dei Saggi”, sostanza logicamente associata al latte
per la sua bianchezza nivea. Or
dunque il velenoso rospo della metafora si nutre del latte sino a sazietà così
come il “Solfo dei Filosofi” si nutre del liquido mercuriale. Naturalmente
l’Alchimista, unico vero demiurgo dell’Opera microcosmica, ha una visione
che va oltre l’apparenza sgraziata e ripugnante del nostro rospo. L’Artista
sa infatti che codesto soggetto contiene in se qualcosa di estremamente buono e
nutre la segreta speranza che la sua orrida creatura possa un giorno trasmutarsi
in un giovane bellissimo e glorioso come accade alla belva protagonista della
famosa favola di Charles Perrault de “La Bella e la Bestia”. In
caso di riuscita il fortunato Operatore in caratteri rigorosamente d’Oro potrà
a buon diritto scrivere sul suo personale libro di fiabe ermetiche il lieto
finale tanto desiderato: “E
vissero tutti felici e contenti”. Chirone il centauro Ci è parso quanto mai appropriato concludere il nostro lavoro sui Fenici con una rappresentazione assai degna di lode nonché meritevole di tutta la nostra meditata attenzione. Trattasi di una splendida arula, ottimamente conservata, recante una figura antropomorfa dai tratti che stimiamo familiari. Viene
qui rappresentato un essere favoloso, invero assai importante nella mitologia
greca, che fa bella mostra di una testa e busto d’uomo e di un corpo (dagli
inguini in giù) di cavallo. Questa creatura veniva appellata centauro. Il
torace del nostro personaggio sovrannaturale appare ben sviluppato a
testimonianza della sua forza certamente non comune, le zampe sono pesantemente
ed irrimediabilmente accasciate al terreno, il volto dalla folta barba senile
(che evidenzia la sua grande esperienza ed immensa saggezza) offre allo
spettatore un’espressione poco piacevole… contorta da un dolore lancinante. Riconosciamo
senza difficoltà alcuna il buon centauro Chirone. Secondo
la mitologia Chirone era ritenuto l’uomo più Sapiente del suo tempo, versato
grandemente a tutte le Arti più utili e nobili al Mondo, come la Medicina,
l’Astronomia e la Musica, tanto che fu a giusto titolo maestro e precettore
dei più grandi Eroi tramandatici dall’antichità favolistica. Tra
questi allevò Enea, Ercole, Castore, Polluce, Peleo, Esculapio, Cefalo, Ulisse,
Teseo, Achille, Giasone e molti altri valorosi protagonisti delle allegorie
ermetiche. Il
mito racconta che Ercole trafisse accidentalmente Chirone con una freccia
bagnata dal sangue velenoso dell'Idra di Lerna. Il
saggio Centauro venne condannato ad una perenne agonia, infatti, giacché
immortale, non poteva perire e, nello stesso tempo, la grave ferita non si
sarebbe mai più rimarginata. E’
per l’appunto questo patimento, questo immenso dolore che, secondo noi, viene
rappresentato nell’arula in oggetto. Zeus
infine, ascoltando le suppliche dell’infermo, decise di porre termine alla sua
esistenza… Chirone venne dunque ammesso in cielo a costituire la costellazione
del Sagittario. Or
dunque questo centauro, sommo Sapiente sia qui in basso sulla terra che in alto
nei cieli lattei dello zodiaco, con i suoi dardi d’acciaio magico, cos’altro
può rappresentare se non la Sapienza stessa? Chi meglio di lui può
personificare la divina Scienza di Ermes? Di
questa Arte Sacra, meglio conosciuta come Alchimia, abbiamo ritrovato sulla
nostra isola molteplici e preziose tracce. Tuttavia,
nonostante la sorpresa iniziale che ci si potrebbe figurare, a nostro parere era
del tutto logico attendersi presso l’antico popolo dei Fenici testimonianze di
questo genere. Questo
perché l’uomo dei tempi andati, oggi erroneamente considerato alla stregua di
un barbaro, viveva a più stretto contatto con quelle forze che costituiscono la
sua stessa origine, viveva cioè nel pieno e costante rapporto con la nostra
unica e divina Madre, con quella Natura sola ed umile dispensatrice d’ogni
bene. Giammai
nel passato la Nostra Dama è stata così ripudiata e misconosciuta come, ahimè,
accade oggi. L'uomo moderno infatti, nell'epoca attuale, si è votato a quella
forma di dissimulata idolatria che va sotto il nome "progresso". Detto
simulacro con i suoi falsi miraggi di salvezza attrae a se una gran quantità di
ciechi proseliti ignari del destino che ci attende. Per
la nostra specie non v'é alcuna possibilità di redenzione al di fuori delle
anguste vie della Natura e dalle Sue leggi eterne.
I
monumenti dei Fenici, dunque, costituiscono un invito alla riflessione affinché
l'uomo si senta allettato ad un salutare ritorno alla semplicità del Creato. Questi
reperti sono Opere realizzate con la nuda roccia, con quelle pietre adatte ad
essere usate quali "Testa d'Angolo" e che il buon costruttore non potrà
scartare, poiché… Le
sempiterne Pietre; Come
stabile Fondamento; Attraversano
l'apparenti muri del Tempo; Incuranti
dell'urla mortali; Figliole
e diletto della Natura; Arridon
all'Oblio senza paura; Dimore
inestimabili di Luce dormiente; Rinserrata
tra le fauci dun astuto Serpente; Ma
li messaggeri Astri spadroneggian possesso; L'Universo
é dell'Uomo puro riflesso. (Autore: Michele Trapani trapani19_6@hotmail.com)
NOTE: 1:
si tratta di una materia colorante di un bel rosso
lucente usata per tingere stoffe che gli antichi ricavavano dalla secrezione di
un mollusco marino 2:
Per meglio comprendere, nel caso specifico, qual é il sale di cui stiamo
trattando chiameremo in causa Gino Testi il quale, nel suo dotto dizionario
della chimica antiquaria, alla voce “natron” così s’esprime: “(cloruro
di) sodio o carbonato di sodio, ottenuto per evaporazione delle acque di certi
laghi dell’Egitto, nitro”. 3:
SCHOL. ad Plat. Resp.
I, 337 A - traduzione di Mario Perra - tratto dalla pagina Web
http://www.dirittoestoria.it/tradizione/SILKI.htm 4:
"Il Trionfo Ermetico" - 1689 5:
per amor di cronaca riferiamo che la rappresentazione greca della sfinge (figlia
di Tifone ed Echidna) é pressoché identica a questa fenicia ammirata nel museo
Whitaker. 6 :
Atalanta fugiens, op. cit. - Emblema XXXIX 7 :
De Iside… op. cit. - caput 8, v.354 8
: "Appone mulieri super mammas bufonem, ut ablactet eum, & moriatur
mulier, sitque bufo grossus de lacte" - Atalanta fugiens, op. cit. -
Emblema V
http://www.arkeomania.com/lamascheraghignante.html http://www.arkeomania.com/ibambiniarsivivi.html http://hdelboy.club.fr/atalante_v.html Per
l'intera ricerca:
-
Cornelio Agrippa, La Filosofia Occulta o la Magia, Ed. Mediterranee -
Fulcanelli, Il Mistero delle Cattedrali, Ed. Mediterranee -
Mark Hedsel, L’iniziato, Mondadori -
R.Alleau, Aspetti dell'alchimia tradizionale, Atanòr
-http://web.tiscali.it/no-redirect-tiscali/fondazionewhitaker/Mozia/mozia.htm - http://www.csssstrinakria.org/notizie.htm - http://www.grifasi-sicilia.com/trinacria.htm - http://www.zen-it.com/ermes/studi/segni2.htm
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