La
misteriosa isola di Motya è una delle cose
più belle ed affascinanti che mai ci sia capitato di vedere… visitare
questo luogo è come fare un tuffo nell’immenso oceano del passato;
inabissarsi nelle profondità della terra laddove la luce difficilmente
può penetrare.
Un antro nel quale respirano le nostre radici più intime, alla mercé
di un tempo andato eppure sempre disposto a disvelare i suoi segreti.
Motya è, nella sua interezza, un’eccezionale reperto archeologico, l’unico
centro della Sicilia pervenuto integralmente nel suo aspetto punico. I Fenici
scelsero l’isola come loro colonia sia perché (come attesta Tucidide)
in questa zona il tragitto tra la Sicilia e Cartagine, allora fiorente
alleata, é più breve, sia perché l’avamposto presenta delle difese
naturali assai ostiche per chi non ha conoscenza dei fondali. Le acque
sono infatti poco profonde ed il pericolo di incagliarsi, per chi voglia
approdare sull’isola, è assai forte… solo chi conosce il canale d’ingresso
ai suoi lidi può sperare di raggiungere l’approdo.
Questo quadro ci suggerisce un curioso parallelo…
per raggiungere la "terra promessa" (Motya), laddove è
custodita la Misteriosa Pietra, esiste un solo sicuro canale d’accesso…
possiamo sperare di percorrerlo , superando le innumerevoli difficoltà
dell’umano esistere (gli scogli), grazie alle testimonianze di chi ha
già percorso con successo la via prima di noi.
Questo é il motivo per cui i Fenici utilizzavano imbarcazioni piccole,
leggere e veloci, di cui abbiamo un eccezionale testimonianza a Marsala
(Museo Archeologico " Baglio
Anselmi"). Infatti il nostro corpo
fisico, al pari delle piccole navi puniche, deve essere agile e sano,
libero da inutili zavorre che opprimono l’anima.
Solo così gli umili "servitori" possono penetrare i segreti
del Mondo.
Pochissime sono le opere pervenuteci dal passato che possono essere
utili a tale indagine storico/simbolica.
Pur tuttavia sappiamo che i rapporti tra l’Egitto e il mondo siriaco
- palestinese sono di antichissima data.
Le intense relazioni tra Egitto e Fenicia sono
riscontrabili nella produzione artistica, con frequente adozione di
iconografie e simbologie religiose di chiara origine egizia.
A causa di queste premesse ci siamo sentiti liberi di
adottare, come riferimento principe per le nostre riflessioni, quella che
è considerata la più importante fonte greca che l’antichità ci ha
tramandato sulla religione dell’antico Egitto.
Ci riferiamo ovviamente al "De Iside et
Osiride" di Plutarco.
Un’antica leggenda narra che il Re
Erice era riuscito a rubare i buoi ad Ercole, dopo di che
nascose detti animali in un oscuro antro.
Il nostro eroe riuscì a ritrovarli grazie alle indicazioni di una
fanciulla di nome Motya.
Eracle(o Ercole), mosso da indicibile gratitudine, fondò una città
che recava per nome quello della giovane donna.
I tori ritrovati erano gli stessi che prima erano appartenuti a Gerione,
che notoriamente erano di colore rosso e che Ercole, a detta di Seneca,
condusse seco "dalle terre d’Occidente a quelle d’Oriente".
Il rosso è evidenziato anche dal nome del popolo dei fenici (phoinix
significa "rosso porpora") a cui apparteneva detta
pulzella.
Questa bellissima storia trova un notevole accordo con
l’Arte
Ermetica, difatti i buoi inizialmente si trovano
rinchiusi in una caverna oscura, simbolo della nerezza filosofica.
Il savio Ercole li ricerca in ogni dove e li ritrova grazie alle
indicazioni di una donna il cui nome, in lingua fenicia, significa "filanda"
quasi a rievocare il mito di Arianna e del prezioso filo donato a Teseo.
Questa donna altri non è che la famosa "Stella Polare"
che mostra eternamente la via da percorrere ai Magi d’Oriente.
Ironia della sorte nel Museo Whitaker, sito nell’isoletta,
abbiamo riscontrato un buon numero di reperti raffiguranti dei tori
ma la ragione di ciò non va ricercata nella leggenda vista pocanzi,
bensì in un altro bue stavolta caro agli antichi Egizi.
Ci stiamo riferendo al sacro Apis.
Ora per meglio capire cosa si debba intendere per tale animale leggiamo
cosa ne riferisce a tal proposito Plutarco:
"A Menfi, poi, viene allevato e custodito il bue Apis che è l’immagine
dell’anima di Osiride, e si suppone che anche il suo corpo si trovi li;
il nome della città significherebbe… <<tomba di Osiride>>".
E poi più avanti: "Apis è l’immagine vivente di Osiride e
la sua nascita avviene quando dalla luna cade un raggio di luce fecondante
e va a colpire una mucca in calore.
E’ per questo che Apis, col suo mantello misto di chiaro, di grigio e
di nero, somiglia molto ai vari aspetti della luna… così la potenza di
Osiride viene collegata alla luna: a lui poi si unisce Iside… gli
egiziani chiamano quindi la luna <<Madre del Cosmo>>, e le
attribuiscono una natura androgina…"
Per avere poi ulteriore chiarimento si potrà leggere il celeberrimo
passo della Tavola
Smeraldina :"Suo
Padre è il Sole Sua Madre la Luna".
Ordunque, Ercole riconquista i buoi dal manto rosso dopo che questi si
erano venuti a trovare in una caverna priva di luce simboleggiante le
tenebre o "notte oscura dell’anima"… la materia è stata
portata a maturazione sino al culmine dell’Astro ermetico per
eccellenza.
Questo processo di fissazione viene descritto allegoricamente da
uno dei reperti pervenutoci in uno stato di conservazione accettabile, nel
quale i protagonisti dello scenario sono ancora ben distinguibili.
Due potenti leoni, con forza e determinazione, combattono di concerto
contro un toro;
la figura non lascia dubbi su quello che sarà l’esito di questo
scontro, difatti il capo dell’animale al centro della rappresentazione
si trova schiacciato contro il terreno e presto lo sarà anche il resto
delle sue membra.
In tutto questo alcuna meraviglia; come potrebbe infatti il pesante
Toro competere con il nostro Re della foresta filosofica?
Abbiamo visto prima cosa pensavano gli egizi (almeno a detta di
Plutarco) nei riguardi del bue Apis; spendiamo dunque qualche parola sul
leone.
Nel "De Iside et Osiride" a proposito di questo animale viene
riferito un curioso dialogo tra Horos ed il Padre.
Quest’ultimo domanda: quale animale fosse più utile per chi va in
battaglia. E Horos rispose: <<Il cavallo>>.
Stupefatto gli chiese perché mai avesse scelto il cavallo e non il
leone.
Horos rispose: <<Il leone è utile solo a chi ha bisogno d’aiuto,
mentre con il cavallo si può tagliare la strada al nemico in fuga e
distruggerlo completamente>>".
Probabilmente Horos non ha bisogno dell’aiuto del leone poiché egli
basta a se stesso, nel senso che Horos, per natura, temperamento e
discendenza regale può essere considerato alla stessa stregua di un
"leone".
Dunque, riassumendo il tutto, abbiamo un’ allegoria rappresentante il
Mercurio
e lo Zolfo
degli alchimisti. Il primo viene raffigurato dal bue
sacro ad Iside, cosa che ci viene confermata
dalle corna di questo animale evidenzianti un crescente lunare.
Lo Zolfo, invero, ha per degna rappresentanza i due
leoni, a causa della loro nobiltà e
temperamento caldo.
Il toro viene letteralmente "atterrato" e tutto questo per
indicare che si ha una progressiva fissazione del soggetto.
Ci si potrebbe chiedere come mai i leoni
siano due… Perché il prodotto di questa operazione è propriamente un
"doppio Re" altrimenti detto Rebis.
Comunque sia, poco più oltre (rispetto alla precedente citazione),
Plutarco si premura d’aggiungere: "Horos… alzò le mani sulla
Madre e le strappò dalla testa la corona regale".
Il Giovane Di Motya
Facciamo adesso qualche passo a ritroso all’interno del Museo Witaker.
La prima scultura che si pone allo sguardo del visitatore è anche, a
nostro modesto parere, una delle più belle ed interessanti.
Trattasi di una statua marmorea denominata " il
Giovane di Motya"… possiamo ammirare
un giovane dal volto glabro con lo sguardo fiero e sicuro.
Il corpo virile e stabile è ricoperto da una veste che lascia
trasparire la possente struttura muscolare… quest’abito è stato
scolpito con incomparabile maestria tanto che se ne ha una notevole
sensazione di leggerezza che lascia l’attento osservatore senza fiato.
La gamba destra, che si trova leggermente avanzata rispetto al resto del
corpo, è scoperta; la mano sinistra è ripiegata sul fianco, la destra
invece si allunga nell’atteggiamento di trattenere un’arma (un
giavellotto?) o uno scettro.
Sul capo portava sicuramente un elmo che gli studiosi indicano di
bronzo o di altro metallo prezioso.
Questo reperto è assolutamente unico nel suo genere e queste poche
parole impacciate non gli rendono assolutamente giustizia.
La statua in questione risalirebbe al IV secolo a.c. secondo le fonti
più accreditate.
Nel 1781 Court De Gebelin, nella sua opera "Monde
Primitif", offrì al pubblico la prima descrizione scritta
del gioco del Tarocco.
Ora, nell’ VIII tomo dell’opera citata, quest’autore asserisce
che il tarocco sarebbe l’unico libro sopravvissuto appartenente alle
biblioteche egizie.
In conseguenza di ciò, nonostante alcuni creduli, venne considerato
uomo chimerico o, nel migliore dei casi, dotato di eccessiva fantasia.
Vediamo cosa ne scrive a tal proposito O.Wirth nella sua opera
sui tarocchi:
"Court De Gebelin afferma del tutto gratuitamente che l’origine
dei tarocchi è egiziana… questo significa andare troppo in fretta… l’archeologia
non ha scoperto la minima traccia che possa rappresentare le vestigia di
tarocchi egiziani, gnostici o almeno alchimistici greco arabi."
Spero non ce ne vogliano a male gli estimatori del Wirth, ma in tutta
sincerità non ci sentiamo di passare sotto silenzio la notevole
rassomiglianza che sussiste tra il giovane di Motya ed il misterioso
protagonista della settima lamina (Le Chariot ).
Secondo Gebelin, il trionfatore sul carro non sarebbe altri che
Osiride
in trionfo, al ritorno dalla sua spedizione nelle Indie.
L’elemento più caratteristico della statua in oggetto è senz’altro
la veste; vediamo cosa scrive Plutarco a proposito dell’abbigliamento di
Iside e di Osiride:
"Le vesti di Iside sono di colore variegato: il suo abito
infatti è quello della materia, la quale si evolve in tutte le forme e a
tutte le forme si presta, luce e oscurità, giorno e notte, fuoco e acqua,
vita e morte, principio e fine.
La veste di Osiride, invece, non è ne sfumata, ne screziata: il suo
colore è uno solo, quello della luce."
Essendo la veste di Iside talvolta rappresentata cupa ed impenetrabile,
di un nero più nero della nerezza stessa (quindi privo di luce), si
potrebbe arguire, senza timore d’incorrere in errore, che la veste di
Osiride doveva essere di un colore contrapposto a quella della sua sposa.
Questa potrebbe essere la ragione per cui il giovane di Motya porta un’abito
semitrasparente che potremmo dire di un unico colore: "fatto di
luce".
Altrove lo stesso Plutarco asserisce che in alcuni casi Osiride viene
rappresentato "con un abito rosso fiamma, in ossequio alla concezione
secondo la quale il Sole rappresenta la sostanza visibile del bene".
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