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INDIA SUD – UN GIORNO AL TEMPIO DI CHIDAMBARAM (la
TRIMURTI e altre simbologie) (Testo
e immagini di
Massimo Taddei) Chidambaram non è una grande città . Anche se mantiene le caratteristiche della vita urbana indiana, si respira la vicinanza alla vita rurale. Ci sono ancora abbastanza mucche in strada, scimmie e carri di buoi con canne da zucchero, nonostante la presenza di mezzi a motore. Avevo saputo che in lingua tamili il tempio è detto Koyil e che quando si dice solo Koyil tutti i tamili intendono Chidambaram. Così arriviamo in città circa alle 17 e l’autista mi chiede se vogliamo andare all’albergo e io rispondo solo Koyil. Tutti i templi effettuano una sosta di chiusura dalle 12,30 alle 14,30 o 16; il caldo da queste parti detta un po’ le regole di vita. Ai lati della strada che porta ad uno dei quattro ingressi cardinali,le solite bancarelle che vendono cosette utili alla frequentazione del tempio . Copie di oggetti rituali, frutta e piante da offrire alla divinità ,spezie, anacardi da mangiare. L’ingresso, questa piramide colorata, intarsiata di scene che narrano le storie antiche hindu è detto Gopuram ( città della mucca). Questa davanti a noi raggiunge i 60 metri ma non è la più alta. Prima di camminare verso l’entrata ci fermiamo ad un banchetto per una inevitabile sosta , il masala chai. Latte bollito, tè bollito, spezie, tutto ribollito insieme e servito. Indispensabile, corroborante, genera una notevole energia che ti permette di superare quello stato di dolce apatia a cui altrimenti ti lasceresti andare a scapito della qualità della visita . Alcuni ne bevono un paio ( io incluso) . Lasciamo le scarpe. Insieme a noi affluisce al tempio la gente del posto . I templi del Sud sono città. Hanno varie cinte murarie che, in maniera concentrica, comprendono spazi vari dedicati ad attività diverse : commerci, cibo, sala delle danze, del teatro, della conoscenza ( scuola), giardini, templi di varie divinità, produzione di tilak ( pasta di sandalo) , altre sostanze utili ai riti; una volta anche il Soma. In un tempio ci siamo imbattuti nella produzione di spremuta di una pianta stupefacente, che veniva poi offerta a bere a Shiva. Già,
Shiva, uno dei tre dei che
compongono la trimurti indiana.
Si passa sotto tre portoni
consecutivi; questo tempio ha solo
tre file di cinta
murarie. I lati degli
ingressi sono come tutto il resto:
scolpiti, intarsiati di scene che
raccontano la letteratura hindu.
Giunti alla vista della parte centrale servono alcuni minuti
prima di assorbire l’insieme, anche se parziale, delle bellezze che si
presentano all’occhio. Si intravedono gli
altri gopuram
in lontananza , mentre più
a portata di mano sono
la sala delle mille colonne, la vasca delle abluzioni ( per
fortuna detta kulam , nome che si ricorda bene) e il complesso di cupole
che compone la parte centrale dell' area templare. Questo
luogo rituale risale a tempi immemorabili. L' attuale sistemazione risale
solo a circa
mille anni fa: la
dinastia Chola lo volle così
monumentale come lo si può vedere
oggi. Intorno all’anno mille
d.c. nel sud dell’india si contavano un migliaio
di templi di
questa dimensione e qualità artistico -architettonica . Tuttora un
centinaio sono ben apprezzabili. Durante quello che
io chiamo il
rinascimento indiano, fra il 500 e il 1500 d.C. ,
periodo in cui
l’ Induismo
riprese
la centralità religiosa nel subcontinente, nel
sud si verificò un
interessante fenomeno. I Re delle varie dinastie amministratrici ambivano
ad essere definiti rajarishi , ad
unire cioè i valori della
casta kchatryia ( raja, nobili, guerrieri) a quelli
della casta brahmana ( spiritualisti, intellettuali, preti,
asceti) . I rishi, nella tradizione,
sono coloro che hanno intuito la conoscenza
( veda) attraverso la introspezione;
sono i padri dell' enorme e
antichissimo corpus di scritture
indiane. I re vollero vivere il tempio e fondere la grandezza della potenza
regale a quella sacerdotale. Rajaraja
I , intorno all’anno mille,
dinastia Chola, governò da Tanjavur , fece costruire
il tempio di Tanjavur in 6 anni ( !!! ) e nella sua vita amministrativa
di 24 anni- il
suo periodo
regnante - ne portò a
termine 52. Tutto ruota e ruotava intorno al tempio. C’è un proverbio in India che recita : "Non vivere lontano dal tempio, vivresti lontano dalla conoscenza". Questo di Chidambaram non è il più grande ma forse uno dei più significativi come simbologia, mistica, come Tradizione . Ma assolutamente non l’unico da queste parti! Giace su un’area di 14 ettari, adesso utilizzato neanche per un terzo; veniva gestito e amministrato da 2999 famiglie di brahmani, che ereditariamente si tramandavano compiti, metodi, riti, mantra, tecniche, festival, calendari etc… Il loro cognome, diciamo, era in tutto il Tamil, Diktcha (iniziato) . Il tremillesimo era Shiva stesso. Adesso sono circa 300 le famiglie Diktcha che compongono la comunità, il condominio del Koyil. Facciamo appena in tempo a farci benedire dall’elefante nel cortile di ingresso, che ci viene incontro il mio amico Ganesh Diktcha, brahmana, sempre un po’ di fretta e ci ricorda che abbiamo solo un' oretta per dare un’occhiata in giro, anche salendo sui tetti, poi alle 18,30 circa, saremo con lui impegnati nella puja del tramonto. Qui le cerimonie giornaliere sono tre : alle nove e mezza; alle sei del pomeriggio e alle 21 . Altre cerimonie e festival non si contano. Occhiali spessi,molto magro, con il cordino dalla spalla alla vita tipico della casta brahmana , il doti bianco (unico pezzo di stoffa avvolto alle gambe), ci conduce subito sui tetti . Passiamo- avvicinandosi al centro del tempio -dai corridoi che fanno da lato alla parte centrale . Larghi e alti per consentire grandi processioni, pieni di sculture e simbologie. Divinità, personaggi di storie antiche, animali mitici, decori naturali fra cui il fiore del banano. Domando a Ganesh il perché di un tronco di banano verde con i frutti affisso ad alcune volte. Si dice che annulli la anidride carbonica che si crea nell’affollamento e la trasformi in ossigeno. Niente è pura decorazione. Chidambaram significa il cielo permeato di saggezza, consapevolezza (Cit in sanscrito è consapevolezza, Sat è la immortalità, Ananda è la beatitudine – sarebbero le tre molecole che compongono la sostanza divina di cui anche l’uomo farebbe parte, la famosa Satcitananda) . Saliamo sui tetti, si toccano le cupole sotto le quali si trovano le statue delle divinità che vengono ritualmente adorate. La cupola centrale è un esempio di rara bellezza. Fu ricoperta di lamelle di oro da re Jatavarman Sundara della dinastia Pandya ( 1251-1272).
La cupola copre la Citsabha ( la sala della conoscenza) , la sede di Nataraja. Si cammina in lungo e in largo sui tetti e il tramonto rende l’ambiente circostante - con il rosso dei mattoni e l’oro della cupola - simile al colore arancio delle vesti dei sadu . Si scende nel cortile antistante il sancta santorum. Chiamiamolo col suo nome, il gharbagrya ( casa del seme – luogo della divinità). Ogni tempietto o tempione ha un gharbagrya e all’interno di un complesso di questo genere ce ne saranno una trentina. Qui, al centro del cortile di fronte a Nataraja, ci sono una ventina di brahmana intorno al fuoco, che stanno cantando mantra , preparando l’ambiente per la puja che sta per essere fatta . Qui si dice che anche i santi Vyagrapada e Patanjali abbiano fatto ascesi al fine di ottenere la visione di Shiva e che la ottennero. Shiva si manifestò nella sua forma Nataraja ( signore della danza ) . Già, dimenticavo, il Koyil è dedicato a Shiva Nataraja, cui abbiamo dedicato una sezione apposita. Abbiamo già visto al museo dei bronzi di Madras, un' enorme collezione di bronzi degli anni 900-1100 fra cui emerge in efficacia simbolica Nataraja. Sono fatti con la tecnica a cera persa ed è tuttora oggi la stessa; produce oggetti impressionantemente uguali a quelli di mille anni fa e la si può osservare comunemente nei villaggi, tecnica veramente semplice. Ganesh
Diktcha ci invita sull’altare,
vicinissimi al bronzo di Nataraja,
ci invita a toglierci la parte superiore delle vesti(prescrizione per soli
uomini ) e ci fa avvicinare al Dio
insieme a molti altri hindu che consegnano le offerte, le quali saranno rese
indietro dopo il rito. Il rumore delle campane,dei tamburi e delle trombe
si fa più robusto e aritmico.
Presi singolarmente, questi suoni
sembrano asintonici, nel loro insieme danno
l' immagine crescente del suono della danza di Shiva fatta
di infiniti elementi. Adesso Ganesh
deve lasciarci e unirsi ai
suoi colleghi brahmana. Si
sta preparando la puja Sarà di
nuovo con noi dopo e
domani mattina. Ci apprestiamo nello spazio di fronte alle
scale che portano all’altare di
Nataraja. I
brahmana lavorano alacremente. La
gente si accalca ma è un giorno
comune, la densità è del tutto
accettabile e l’ambiente rilassante. I fuochi ornamentali
abbondano. Dietro di noi arriva
la danzatrice del tempio. Costume
meraviglioso, trucco splendido. Le devadasi ( servitrici del
dio, alla lettera) sono una
casta molto tenuta in
considerazione. Eseguono coreografie composte dalle 108 posizioni
che sono scolpite qui a Chidambaram.
Non devono essere belle ma
geometricamente esatte. Danzano senza
musica, i gesti non obbediscono al suono
oppure anche al suono, ma rimangono intatte. La danzatrice guarda solo Nataraja, danza in fronte a lui (ove
noi le abbiamo fatto posto) per una decina di minuti
e se ne va. Una volta erano anche
le prostitute del tempio. Credo anche adesso da qualche parte; le
tradizioni in India sono lente a farsi uccidere. Il governo indiano
ha vietato per legge tale attività nel
1978. Comunque chi ha in
casa una devadasi è
sistemato. A Madurai, prima
di iniziare la danza, vorrà l' immagine di
Nataraja davanti a sé. Ella danzerà solo per lui. Inizia
il rito. Rumore notevole. I brahmana disegnano
nell’aria davanti
al dio la lettera OM
( il suono della
creazione, la forma sonora del divino, del brahman),
usando i simboli dei
cinque elementi: Fuoco, Acqua, Etere, Aria, Terra. Odore di
burro fuso ( ghi)
in giro, con il quale la
divinità viene lavata. La gente, a certi gesti, risponde con altri gesti, soprattutto mani giunte sopra la testa; poi il fuoco viene fatto girare fra la gente che lo tocca portandosi poi le mani sopra e oltre la testa. Lo stesso con l’acqua che viene anche bevuta . Una mezz’ora attraente. Rito: la parola sembra che derivi dal sanscrito rtam, da cui deriverebbero anche retto, diritto, ritorno, routin, ruota, ritmo. Rtam è l’ordine universale, la legge naturale. Rtu è il nome delle stagioni. Il rito - ci dice Ganesh - è la necessità degli uomini che percepiscono solo il manifesto, la loro materialità di riunirsi all’ immanifesto. Una necessità difficile da reprimere. E’ la lettura dei Veda sotto forma di simbolo in movimento. Come se l’uomo provasse piacere nel partecipare ad un atto in terra che equivale a quello dei cieli. Equivalenza fra micro e macrocosmo. Alla esattezza del rito fanno piuttosto attenzione; il rito ha a che fare con l' esattezza. Ganesh ci disse: "Il rito è la lettura dei veda sotto forma di gesti. Il fuoco lo recita per te , il fumo lo porta agli dei" veda sotto forma di gesti. Il fuoco lo recita per te , il fumo lo porta agli dei" "Il rito è la lettura dei veda sotto forma di gesti. Il fuoco lo recita per te , il fumo lo porta agli dei" ( Agni è detto colui che porta l’uomo agli dei) . Per la religione hindu, il peccato ha più una connotazione di errore. Il peccato è un allontanarsi dall’ordine (rtam) verso lo scopo, il fine utilitaristico, diremmo noi. Pertanto anche il rito deve mantenere corresponsione. Esiste un termine sanscrito interessante che chiosa bene questo concetto. E’ shilpa. Shilpa si direbbe l' unità di misura di corresponsione del simbolo alla sua funzione. Quanto l’opera materiale dell’architetto, scultore, artista, artigiano, musicista etc. coglie le forme immanifeste, archetipe, divine che noi non vediamo ma percepiamo. Non l’immagine prodotta manualmente ma il suo, come dire, archetipo trascendente. Se la materia è tempo lo scultore deve rappresentare il mito. Non il dito ma la luna che egli indica deve essere ritratta dallo shilpa (scultore) . L’opera è sempre la mimesi di un paradigma apparentemente invisibile. La bellezza di omologia fra l’opera umana e Dio. Il simbolo agisce e in India più che altrove troviamo le vestigia viventi di una tradizione che su di esso aveva basata la propria funzionalità religiosa . Qui si trova anche il confine fra artista ed egocentrico. La scultura e l’architettura quindi, la musica e la danza assumono in questa veste una funzione non solo decorativa, per niente solo decorativa, ma veicolo di liberazione dell’uomo dai legami della limitatezza materiale, lo eleva all’immateriale. Ciò se il tasso di shilpa è alto. Niente di estetico è neutro. Shilpa, abbiamo detto, significa anche scultura, lo shilpa shastra è il manuale della scultura, delle sculture nel tempio. La
scultura in India rappresenta gli
innumerevoli aspetti del
divino in fattezza
simil-antropomorfa. Rare sono le raffigurazioni di
sovrani dignitari o anche di
mistici. Frutto
di visione
interiore realizzata secondo precise
norme, in accordo ai
numerosi shastra,
l’immagine è veicolo di
intuizione dello stato sacro sotteso
a quello profano dell’
immanifesto nel manifesto. L’immagine
oltre l’immagine si chiama
Coomaraswamy. Bellezza celestiale,
iconometrica, non realistica;
le proporzioni della figura
rispondono all’uso
dell’unità di misura tala , un palmo. Le figure femminili
devono avere
“ vita stretta e mammelle alte e tonde, come giare,
e vicine le
une alle altre tanto
che nemmeno una fibra di loto possa passarvi in mezzo” . Il ventre l’
ombelico profondo e
triplice piega, presente
anche nel collo, simile a una conchiglia. Cosce tornite, snelle e flessuose come la
proboscide di un giovane elefante
o il tronco di un
albero, la pelle ha
lo splendore opalescente della luna,
i peli serici e i
capelli folti
e lunghi del colore del manto del
corvo, blu-nero, lo chiamano. Nel
volto ovale, labbra vermiglie e carnose si
schiudono sui
denti di perla e
sopracciglia simili all’arco del
dio Kama, si
inarcano su occhi allungati
che incorniciano iridi blu
come il loto o neri
come un cerbiatto. Nella
figura maschile si condividono
alcune regole di bellezza di quella femminile come il
collo , la vita o
gli occhi di cerbiatto, i capelli di
corvo e
i denti
di perla ma ad essere simile alla proboscide
di elefante deve essere il braccio.
Non c’è interesse all’anatomia realistica
ma solo alla energia vitale
che la statuaria comunica, il suo prana
. La flessione del corpo
a tribhanga , una sorta di S giocata su uno
spostamento dell’anca più o meno
accentuato, ne sottolinea il rasa (gusto) erotico e eternamente
dinamico. Ogni
divinità ha i suoi segni
caratteristici ( simboli), akshana,
oggetti, che regge nelle svariate mani, simboli dell'
Uno e
molteplice e
della molteplicità infinita di poteri, forme
e gusti. Indossa simbolici ornamenti. Ogni
divinità ha il suo veicolo vahmana
( il modo in cui
agisce…) e la sua paredra/moglie
( la propria energia – il potente e la potenza )
e figli, che sono altre
forze-simbolo attinenti
alla caratteristica principale del dio
rappresentato.Il suo aspetto può essere shanta ( pacifico), rudra (
irato,doloroso) , o rappresentante i
vari rasa
( gusti) che l’iconometria degli
shastra prevede e vuole comunicare.
Le statue di
pietra o
di lega di metalli, o di
legno , sono dette
i Veda degli occhi. L’esempio
più incisivo è rappresentato
dalla cosiddetta TRIMURTI
. Chidambaram è un
luogo ove stando davanti
a Nataraja, a dieci metri da lui,
onorato da brahmana di tradizione shivaita, con il tilak sulla
fronte, rosso, orizzontale e pieno
di ceneri, ti volti
a sinistra a cinque metri da
te c’è l’altare a Vishnu , Vishnu a Vaikunta,
onorato da brahmana vishnuiti con tilak bianco sulla fronte
, fatto di due righe parallele
verticali , i due piedi di
Vishnu , il cui solo
contatto genera
illuminazione. Ci voltiamo appena finita la puja e facciamo una visita a
Visnhu sdraiato, disteso su un serpente
chiamato Ananta (infinito) il
quale, lo ombrella con le sue sette teste e,
si dice, lo decanta con le sue infinite
bocche e da infinito tempo cercano
di comprendere con le parole
le qualità di Vishnu
senza riuscirci. Due parole sulla Trimurti: i tre dei presenti più
o meno ovunque nei templi della intera India
che siano di
stile nagara, dravida come questo o
vasara ( classificazioni pressoché inventate ).
A
Chidambaran, Shiva è famoso anche
nella sua versione Pitchatanam (mendicante) quando, presentandosi
nella povertà assoluta, faceva svenire le donne del luogo per il suo
fascino. Il suo
veicolo è il toro Nandi , il simbolo della materialità più
vicina alla terra. Ha due figli: Ganesh (Gana-Isha, signore della
materia, che ha come simbolo un topolino e trova sempre la via di uscita dalle
situazioni quotidiane, molto adorato in India) e Kartikkeya (dio
della guerra, simbolo il pavone, la vanità, la madre di
tutte le guerre, piccole o grandi). Sua moglie
nelle sue varie forme e nomi è Kali,
Durga, Chamundi, Bhairavi etc…la potenza del potente, la sua energia. Immagine di Khali a Helebeedu) E’ facile riconoscere la figura di Brahma nelle sculture, altorilievi delle pareti interne o esterne dei templi. Ha quattro teste, è il dio della creazione. All’atto della espansione di Vishnu, il dio unico , da ogni poro della respirazione di Vishnu a Vaikunta ( senza ansie) nasce un universo che ha un Brahma creatore . Secondo i Purana, egli si sveglia, vede attonito il buio e si chiede “ Chi sono,da dove vengo, dove vado? ". E sente un suono nell’infinito che fa “ tapas” , che significa ascesi. Si pone in posizione di ascesi sul quel fiore di loto da cui è nato e comincia a creare l’universo. L’universo è basato sull’ascesi. (Brh = radice di espandere) . E’ il dio della conoscenza. I quattro simboli che regge nelle mani sono:
Lo
storico greco Strabone racconta
che lungo il fiume Saraswati gli hindu avevano abbandonato
migliaia di città. Vishnu (Vsh-espandere).Il tutto, il brahman universale, che tutto pervade e di cui tutto e tutti fanno parte . Tiene nelle mani
Abbiamo
visitato al calar del sole
la parte centrale del tempio. Uscendo ci regalano il prasada, i dolci benedetti fatti al tempio. Non avevamo fame grazie al masala chai, li mangiamo ci sentiamo pieni pensando di non cenare. Contrariamente alle previsioni la cena non è descrivibile, ci siamo abbuffati . In India non si dimagrisce neanche con la scomodità di mangiare con la sola mano destra. Conoscete la storia narrata dall’abate Dubois? L’Abbey
Dubois è un gesuita vissuto in Karnataka,
a Mangalore fra il 1860 e
il 1900 e colà morto . Fra
l’altro suo confratello
di basilica è stato Padre Moscheni
di Bergamo,
che ha affrescato la cattedrale di Mangalore
in maniera eccelsa . L’Abbey Dubois,
francese, ha descritto in vari
libri meticolosamente, in maniera
splendida per l’ indologo,
la vita dell’uomo hindu di qualsiasi
casta, nei super dettagli. Narra- raccontando
di come ci si
comporta al gabinetto - che una
volta un uomo di casta semplice gli
si avvicinò sussurrandogli
all’orecchio : “ Padre, dicono di
voi inglesi (ndr: la parola
inglese in
India significa straniero) che tagliate gli alberi per fare la carta che
usate per la pulizia del posteriore durante le funzioni private e che
lo fate con la mano destra. Ma non
se la prenda, il popolino è portato
alle dicerie contro di
voi, io so che nessun uomo
sarebbe capace di tali
bassezze". A
tavola si usa la destra, la sinistra dietro la schiena, le forchette e coltello
in guerra, la tavola sarebbe luogo di pace e
lentezza. Al mattino siamo di nuovo in forma e alle nove riusciamo ad esseri lì. Il tempo di un masala chai ed entriamo. Ganesh ci aspetta e non ha le incombenze del rito, stamattina, per cui può dedicarsi un paio di ore a noi. Si sale in cima al gopuram est ( mi sembra), il più alto . Ci sono scale agevoli interne anche se con qualche pipistrello e i suoi escrementi . Ovviamente siamo scalzi, siamo all’interno del tempio. Dall’alto la prima percezione è che questo possa essere solo il prodotto di una società di dimensioni enormi e di una opulenza esagerata. Oramai abbandonata anche dagli accademici la teoria della invasione ariana, qui è palese che tale teoria non regga. La sensazione è di una grande civiltà autoctona. Un ideale filosofico organizzato socialmente, centrato e riassunto dal tempio. Più conosco l’India e più scopro che ogni singolo chilometro quadrato del territorio era coinvolto in sculture sacre, fino nelle foreste più remote si trovano pezzi interi di granito usati come cava in loco per la trasformazione in narrazione di pietra. Meraviglioso esempio il pannello di Mahamallapuram. Niente è lasciato al caso della creatività dell’estroso individualista. Ci sono regole e geometrie sacrali dappertutto. A partire dall’atto della fondazione (garbhadana) .
Alcuni
garbhagrya hanno delle piramidi
sopra di sé; è meglio
chiamarli con il loro
nome, shikara
Lo shikara è detto anche vimana. Lo shikara è tipico del nord, è uno dei tipi di vimana che si trovano in giro; qui al sud chiamiamo vimana quello sopra il deul e gopuram quello di ingresso. Nell’induismo l’accesso alla parte più interna, ove ha sede l' immagine della divinità è cosa individuale, personale, come accedere all’interno di se stessi. Unicità dell’accesso. Esterni e interni intarsiati, scolpiti , narrati. I materiali usati sono la pietra , mattoni, bronzi e il cosidetto plaster , una miscela di sabbie, conchiglie, che noi chiameremmo stucco. Dall’alto si gode la vista della progettazione, della quantità di sale e templi disseminati organicamente sui 14 ettari di suolo sacro. Opera di uno sthapati (architetto direttore ) di mille anni fa. Si scende si passeggia lentamente godendosi altre visite. Si accede al cortile del tempio di Parvati (la montagna, moglie di Shiva che risiede sul Kailasha. Uno dei nomi di Shiva è Kailashanata, signore della montagna e a lui è dedicato un meraviglioso tempio a Kanchi. Qui, oltre a tutto il resto, è piuttosto emozionante vedere da vicino con la luce del giorno le 108 posizioni di danza scolpite sui lati del cortile delle danze. La prossima volta organizzerò la danza in questo luogo se Ganesh me lo permetterà. L’arte in India è una forma di yoga (radice yug = congiungere, come to yoke= giogo ), potrebbe avere un certo potere curativo. Solo il bello è utile. Si racconta di scuole di medicina che usavano narrare le storie del Mahabharata e del Ramayana come terapia. Pettinare i neuroni . Il
soffitto del tempio di Parvati è
completamente pitturato di
narrazioni dai Purana di
tradizione Shivaita; alcune parti
risalgono al 1200 e
mantengono i colori originali,
naturali. La sala delle 1000 colonne, detta Rajasabha, la sala del
re, è chiusa per pericolosità.
Da fuori la si vede bene: è a
fianco al kulam, che
adesso comincia a ricevere visitatori. Non
si può accedere al deul se
non ci
si è lavati al mattino.
Nell’induismo le prescrizioni di
abluzione sono al tramonto
e all’alba, insieme alla preghiera gayatri. Al cambio delle luci,
quando ombra e luce si fondono.
Questi momenti sono
detti sandhya . Dopo una lunga passeggiata e visite ai
templi di varie divinità legate a
Shiva, torniamo a salutare Nataraja
prima di lasciare il tempio. I tamburi suonano.
La casta che costruisce i tamburi
in Tamil si chiama paryam (da qui il famoso nome). Ganesh
ci lascia qui e torna al
suo lavoro, ci dice che siamo stati
fortunati a venire in
questo periodo: c’è in corso il festival e durante
il festival milioni
di dei siedono
nel cielo
di Chidambaram. Noi lo salutiamo e
ci permettiamo di fargli un'
offerta: i brahmana vivono di
offerte da parte delle altre caste.Stiamo uscendo; attraversiamo i
corridoi pieni di
colonne; capisco come il Prof. Malamoud possa essersi
riferito a tutto
questo con il
termine “ la danza
delle pietre”, sembra proprio che ci
sia lo zampino di Visvakarman (l’architetto
degli dei, alla lettera colui
che fa tutto). Insieme a noi
esce la processione
o meglio, la divinità
che viene portata a spalla,
installata su grandi bambù, da portatori che
uniscono le tecniche di spinta a passi rituali
e mostrano delle scavature nei muscoli
delle spalle. Nel nostro gruppo
c’è anche Febin, un
ragazzo piemontese di origine
indiana che con sua madre ha fatto il viaggio sud alla riscoperta delle
grandiosità della sua terra di
origine. Gli indiani ovviamente lo
prendono sempre
per uno
di loro ma lui non parla una
parola, fra l’altro, delle migliaia di
lingue e dialetti dell’India. Non ci facciamo da parte con velocità di
fronte ai carri che passano e un
sadu ci
guarda con commiserazione, poi guarda Febin e
in tamili
lo rimprovera con un vero
spassoso brontolio che trasmette
il senso
del discorso : “ Va
bene, loro bianchi che non
capiscono niente… ma tu almeno insegnagli qualcosa…”. Una
risata generale. Ci fermiamo al
banchetto del masala chai e... vai un
altro. Compriamo la frutta; adesso andiamo
a Gangakondacholapuram . Lì il tempio è dotato di un ottimo giardino
con piante e ombra. Si farà il
pic-nic. Autore: Massimo Taddei yana@geniodelbosco.it Letture
consigliate di riferimento:
Sezioni correlate in questo sito: www.duepassinelmistero.com Avvertenze/Disclaimer
maggio 2007
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