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La
Festa di Sant’Antonio Abate e il Nume Arboreo
Altro interessante tema legato al santo è quello del patronato sugli animali. In realtà questa caratteristica è data al Santo solo dalla tradizione popolare e non è presente nella agiografia dell’Anacoreta, anzi, dalle fonti classiche sembrerebbe trasparire un odio del Santo verso gli animali spesso confusi con il demonio. Un esempio potrebbe essere il seguente passo, mentre era in eremitaggio in una grotta nel deserto, “…vi irruppero demoni che avevano assunto diverse forme di bestie feroci e di rettili, e il posto si riempì subito di fantasmi di leoni, di orsi, di leopardi, di tori, di serpenti…” che cacciò imperterrito. Atanasio poi ripropone la “distanza” tra animali e Anacoreta quando, narrando un episodio della vita del santo, “…alcuni animali feroci, avvicinandosi a bere, provocarono danno di frequente al seminato e al terreno coltivato. Allora egli ne afferrò pian piano uno dei tre e disse…perché mi portate danno, mentre io non ve ne faccio?Andatevene via e nel nome del Signore non avvicinatevi mai più…”. Ecco che però la tradizione popolare fa trasformare il santo in protettore degli animali in un ricordo legato, come vedremo, ad antichi culti pagani autoctoni. Solo successivamente, a causa del forte radicamento nella tradizione popolare di tali usi e credenze, il tema sarà assorbito anche dalla religione ufficiale, come testimonierebbe la Benedictio equorum aliorumve animalium del rito Romano. In realtà, come già accennato, le tracce di questa credenza sono molto antiche, le troviamo già nel Boccaccio quando, nel suo Decamerone, fa dire a Fra’ Cipolla “Acciò che il beato santo Antonio vi si guardia de’ buoi e degli asini e de’ porci e delle pecore vostre…”. Ma ancora una volta sono gli stornelli e i canti popolari a riproporci l’antico tema del Santo protettore delle bestie domestiche “…e se hai una gallina l’anno prossimo ne avrai una sessantina, e se hai un porcellino per l’anno prossimo un mucchietto, e se tieni jna pecorella, per l’anno prossimo un mucchio…”[1] Non si può dimenticare poi l’usanza di affiggere, sull’ingresso delle stalle o dei dormitori degli animali, immagini e santini raffiguranti il santo raffigurato circondato da animali e con il fuoco in mano. A queste forme fortemente “cristiane” si associano poi le formule magico apotropaiche per guarire gli animali, come nel caso di un antico rituale che parla di collocare su un piatto due chiavi incrociate, una maschio e una femmina, e di ripetere per tre volte “sante crismale medichè lu cape, sante Siste mèdiche Gesù Criste, Sant’Antuone mèdiche buone, mèdiche quella vena, che tanta guerre mena”. Se Antonio è protettore degli animali ed è spesso raffigurato circondato da essi, particolare importanza assume, nell’iconografia, il maialino, tanto da dare addirittura un epiteto all’Anaconeta conosciuto anche come Sant’Antuono“de lu purcelle”. Da sempre il maiale è legato al mondo del numinoso e al diavolo, in alcune tradizioni popolari era proprio il demonio poi convertito dal Santo. In realtà però, nel mondo contadino rurale, il maiale era un animale preziosissimo nell’economia popolare. Egli era spesso ingrassato proprio lasciandolo libero di circolare e nutrirsi delle ghiande dei boschi, forse da qui il ricordo del maialino comprato proprio in onore del santo. Sicuramente il rito doveva comunque avere una valenza sacrale notevole se addirittura scomoda il noto inquisitore Martin del Rio che dice “coloro che castrano i porci li affidano a S.Antonio, e se i porci donati a S. Antonio sono offesi da quavuno, costui non resta impunito”. E’ nella Antonianae Historiae del 1534 che troviamo per la prima volta un riferimento al porco. L’episodio narra che mentre il santo si trova a Barcellona viene raggiunto da una scrofa che aveva tra le fauci un piccolo porcellino zoppo e malato. Deposto davanti al santo in atto di preghiera, quasi a chieder la grazia per l’animaletto, l’animale viene guarito dal Santo con un segno della croce che, grazie a questo prodigio, converte tutta la città. Da allora egli viene raffigurato con ai piedi un maialino. Questo episodio è ancora ricordato nella tradizione popolare che vuole nel giorno di festa del Santo siano uccisi dei maiali ed offerti ai questuanti “in
molti comuni usano comprare un porcello a cui appendono un campanellino. La
bestiola vaga liberamente nel paese, dorme dove gli pare e piace,
senza pericolo che alcuno faccia neanche in pensiero il peccato di
rubarlo; e tutti di buon grado danno da mangiare al porco di Sant’Antonio”. Il giorno di festa poi, il porcello veniva venduto all’asta e il ricavato poi serviva per finanziare la festa e in parte per acquistare il porco dell’anno seguente. Il maialino dell’anaconeta però, come nel caso dei pani ha, nella tradizione popolare, una valenza terapeutico-sacrale. Così le carni del porcellino di Sant’Antonio erano distribuite tra i fedeli e si credeva fossero medicamentose, un esempio, dunque, di cannibalizzazione del divino, un rituale da sempre presente nelle civiltà antiche e che riporta agli atavici culti del dio vegetazionale che deve morire per poi risorgere, un tema molto caro ad un altro periodo di festa, il Carnevale, che proprio con le festività di Sant’Antonio viene ufficialmente “aperto”. Rituali
sicuramente molto antichi se a Creta, durante la celebrazione della morte della
divinità, si sbranava a morsi un toro vivo, mentre in Grecia, durante i rituali
dionisiaci si usava cibarsi di un capretto. Le
ragioni di tali pasti sono semplicissime: il selvaggio mangiando la carne di un
uomo o, in questo caso di un animale, crede di acquistarne le qualità
caratteristiche, non soltanto fisiche ma anche morali. Se, come in questo caso,
si tratta di un essere divino o direttamente a lui collegato, l’uomo antico
pensa di assorbire, con la sostanza materiale, una parte di divinità. Pertanto
il bere vino nei riti di una divinità della vite, come Dioniso, o il cibarsi di
animali sacri al dio non è una
gozzoviglia ma un sacramento solenne.
La tradizione del 16 Gennaio vuole che, per festeggiare il santo anacoreta si debbano accendere sulle colline o nelle piazze dei paesi, enormi falò, i cosiddetti fuochi di gioia. Così in diversi paesi del Sud Italia alla questua alimentare precedentemente descritta si associa quella della “legna di Sant’Antonio” usata proprio per il falò rituale. Anche questo aspetto della festa di Antonio affonda però le sue radici in un atavico passato ed in particolare in quelle “feste del fuoco” tipiche del mondo pagano. Le spiegazioni che può esser data a questo tipo di rituali sono essenzialmente due, da una parte si è pensato che tali riti si basassero su una magia imitativa o “simpatica” del ciclo solare, dall’altra che avessero solo una funzione purificatrice. L’idea della rappresentazione in terra del ciclo solare deriverebbe da una serie di usanze come il far ruzzolare una ruota infuocata giù per una collina, e può esser ben applicata anche alle torce, in quest’ottica il correre per i campi con fiaccole accese è semplicemente un modo per diffondere la luce nelle campagne. Nel
momento in cui l’Inverno si fa più duro ecco che l’uomo tenta di
esorcizzarlo riportando la “luce” sulla terra. Secondo l’idea primitiva di
magia simpatica o imitativa, così come fuochi
scaldano gli uomini, allo stesso modo il
Sole deve tornare a riscaldare la terra. L’altra idea è quella della purificazione, forse sviluppatasi in un periodo posteriore, e legata all’aspetto distruttivo dell’elemento stesso, concetto facilmente espresso dal bruciare l’effigie un fantomatico fantoccio che rappresenterebbe proprio lo spirito arboreo. Questo deve morire tra le fiamme perchè la luce e il calore sono necessari ai vegetali per crescere: in altre parole il dio dei boschi brucia nel sole assicurando così all’intera vegetazione calore e luce. Ancora una volta ecco così che con un’operazione sincretica, il Cristianesimo si appropria di antiche tradizioni pagane e così il Santo diventa anche colui che padroneggia il fuoco, come ben suggerito dalle comuni raffigurazioni iconografiche che vogliono il santo rappresentato sempre con la fiamma viva nel palmo del Santo. Nella tradizione popolare, poi, il tema del fuoco è collegata ad un’altra caratteristica del Santo, quella di poter guarire gli ammalati di ignis sacre o “fuoco di Sant’Antonio”. Interessanti testimonianze in merito sono portate dal Pitrè che descrive numerose preghiere e scongiuri siciliani per ottenere la guarigione. “Sant’Antoniu
autu a putenti, Mmau aviti lu focu ardenti, comu jistivu pilivanti e punenti,
comu ammanzistivu li porci di Tubia, ccussì ammanzisti li cristiani a vogghia
mia”[2]
Se dunque una prima valenza dell’elemento igneo può essere quella terapeutico-sacrale legata alla malattia, macrocosmicamente questa “guarigione umana” viene trasposta a quella dei campi, la fiamma diventa così il fuoco rigeneratore della tradizione pagana e dunque ciò che rimane del fuoco del santo, le ceneri, devono esser raccolte per poi spargerle nei campi e assicurare loro fertilità in un rituale dunque che riporta prepotentemente a quelle credenze pagane agro-pastorali. (Continua-
Andrea Romanazzi "La
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