Il
castello della Manta si erge sulle colline che dolcemente degradano dal
Monviso verso la pianura torinese, in una cornice di boschi secolari,
frutteti e vigneti strappati al clima pedemontano caratterizzato da
rigidi inverni e giornate soleggiate, con cieli azzurro turchese lontani
dalle nebbie che a volte avvolgono la Valpadana.
Il
maniero è intimamente legato, nella sua storia, alle vicende della
dinastia dei marchesi di Saluzzo, feudatari
di un marchesato indipendente, al confine con la Francia, alleato del
Delfinato, che vedrà la sua apoteosi intorno al XIV e XV secolo, per
poi passare sotto i Savoia col Trattato di Lione nel 1601.
Attualmente
il castello è gestito dal Fondo per l’Ambiente Italiano che ne ha
saputo cogliere a pieno le valenze turistiche, impegnandosi nella
conservazione del monumento, nella divulgazione della sua importante
storia e rendendolo visitabile in ogni sua parte.
Il
maniero è costituito da un nucleo più antico databile intorno al XIII
secolo, con un mastio rettangolare poggiato direttamente sulla roccia e
da una torre circolare svettante su tutto il complesso.
Tutt’intorno
una serie di merletti di forma ghibellina, ormai inglobati nella
struttura muraria dei successivi ampliamenti, lascia intravedere quella
che doveva essere la forma originale, forse circondata da un fossato
difensivo.
Dopo
una breve serie di alterne vicende dovuti a passaggi di proprietà tra
nobili locali e conseguenti modifiche del suo aspetto, il castello
ritorna stabilmente nelle mani della dinastia dei Saluzzo, vera artefice
della sua trasformazione da fortilizio a dimora gentilizia, e sede di
una raffinata corte attenta alle mode europee.
In
tal senso emerge la figura di Tommaso III di Saluzzo, che fatto
prigioniero da Ludovico d’Acaja, dopo la battaglia di Monasterolo ed
incarcerato prima a Savigliano e poi a Torino, nel periodo della
reclusione compone un romanzo cavalleresco dal titolo “Le
Chevalier Errant”, di cui una copia manoscritta si trova presso la
Biblioteca Nazionale di Parigi, e una seconda, gravemente danneggiata,
nella Biblioteca Nazionale di Torino.
Il
romanzo, iniziato nel 1394, presenta una forma compositiva mista tra
versi e prosa, è diviso in tre parti e narra la storia di un cavaliere
alla ricerca dell’amore, della gloria e della ricchezza, ma lasciata
la sua Saluzzo in cerca di fortuna, si scontra con una realtà ben
diversa, trovandosi a lottare per il trionfo della giustizia e del bene
sul male. A questo punto il suo cammino si trasforma in una ricerca
della virtù secondo i canoni tipici della letteratura cortese e
cavalleresca, nel solco della tradizione già riscontrabile nei romanzi
del Graal della seconda generazione, per così dire cristianizzata, che
si conclude con le opere di Sir Thomas Malory. Nel Le
Chevalier Errant non appare il
tema della queste du Graal, bensì
una successione di incontri e situazioni dal carattere simbolico e
soteriologico, fino a sfiorare l’esoterismo. Sono presenti i temi
della “corte d’Amore”, del “regno della Fortuna” e della
“casa della Conoscenza”, accompagnati da preziose miniature
disegnate sul codice parigino, particolarmente interessante quella che
si riferisce al salone del castello di “Madame Fortuna” dove sono
riuniti nove eroi con armature e relative insegne. Si tratta di eroi
dell’era pagana come Ettore, Alessandro Magno e Giulio Cesare; di
personaggi dell’antico testamento quali Giosuè, re Davide e Giuda
Maccabeo, ed infine di re cristiani come re Artù, Carlo Magno e
Goffredo di Buglione.
Nel
1416 Tommaso III, morendo, lascia il castello in eredità al figliastro
Valerano detto il Burdo, suo figlio illegittimo ma animato da grandi
propositi per rilanciare le sorti del marchesato in un contesto di più
ampio respiro europeo. In tal senso lo stesso Valerano trasforma
l’antica fortezza in una dimora dal carattere signorile e mondano nei
primi decenni del Quattrocento. È così che nasce la “sala
Baronale” del castello (nella foto sotto, vista dall'esterno),
decorata secondo i canoni stilistici del Gotico Internazionale, con gli
affreschi raffiguranti i sette eroi e le sette eroine, con gli stessi
personaggi storici descritti nel Le
Chevalier Errant, ognuno dei
quali viene associato alla dinastia dei Saluzzo, in rigorosa successione
cronologia e specularmente accoppiati alle loro mogli, personificate
dalle più celebri amazzoni.
A
parte il valore artistico del ciclo di affreschi, riconosciuto
universalmente tanto da essere citato su tutti i libri di storia
dell’arte usati nei licei italiani, appaiono dei grandi temi tipici
della tradizione esoterica.
Un
primo aspetto a dir poco curioso riguarda i rapporti numerologici
ricorrenti tra il romanzo e gli affreschi, infatti lungo l’intero
corso dei versi del Le Chevalier Errant
compaiono dei numeri che sommati portano al 1395, anno della stesura
definiva dell’opera.
Curiosamente
anche nel salone baronale, dove sono raffigurati i sette eroi e le sette
eroine, a ciascuna figura corrisponde, nella parte inferiore, un
cartiglio scritto con caratteri gotici e in lingua franco provenzale che
descrive i personaggi insieme a dei numeri romani e in caratteri
francesi. Sommando tutti i numeri romani si ottiene 1422, cifra che
molti studiosi ritengono essere la data di esecuzione dell’opera.
Effettivamente tutti gli storici dell’arte interpellati per la
datazione ritengono che i dipinti siano stati eseguiti nel secondo
decennio del Quattrocento.
Ad
accrescere la credibilità di quest’ultima ipotesi sta anche il fatto
che molti studiosi d’arte hanno sempre pensato che il nome
dell’autore fosse nascosto da qualche parte, con una classica firma
stilizzata, una sigla, secondo un’usanza tipica dell’epoca e di
molti pittori.
In
particolare, secondo le teorie più accreditate, la firma dell’autore
si troverebbe sul bavero dorato della mantellina di Giulio Cesare,
dipinto che, non a caso, si trova a sopra la porta di accesso alla sala
baronale. Il nome riportato sarebbe quello di Ludovico Jusiayne, più
noto con lo pseudonimo di Aimone Duce, pittore molto attivo in Piemonte.
A
titolo di cronaca si riportano altri nomi di artisti che la critica ha
ritenuto essere i possibili autori.
In
primo luogo Giacomo Jaquerio, indicato dagli studiosi italiani e con una
datazione dell’opera tra il 1417 e il 1426, oppure, secondo gli
esperti francesi, l’avignonese Giacomo Iverny.
Per
quel che riguarda invece le scene della fontana della giovinezza, di cui
parleremo a breve, gli esperti propendono per Jean Bapteur, oppure per
un discepolo di Aimone Duce, o di un allievo della scuola dello Jaquerio,
comunque sia sono tutti d’accordo nel fornire una datazione successiva
al ciclo degli eroi e delle eroine di un ventennio circa.
Il
primo aspetto esoterico dell’intero complesso è senza dubbio quello
riferito al ciclo degli eroi e
delle eroine, un principio riconducibile al mito dell’Età dell’Oro,
era mitica in cui l’aspetto religioso dell’uomo e del divino erano
apertamente manifesti e gli uomini stessi erano praticamente dei
semidei. Una condizione olimpica di perfezione, in cui il creatore e il
creato si compenetravano secondo un’espressione di potenza tale, da
segnare il futuro dell’umanità anche nelle successive epoche di
decadenza, dove appunto i personaggi in questione assunsero caratteri
eroici. Il fatto stesso che gli eroi maschi siano affiancati alle
eroine, i cui nomi sono quelli delle amazzoni più famose, ci riporta
alla seconda era dell’umanità, già in decadenza, l’era
dell’argento, in cui la religione assume il carattere rituale e
sacerdotale, legandosi sempre più alla mistica e all’ascesi, principi
femminili e demetrico-lunari della manifestazione primigenia.
Ma
chi ha dimestichezza con le discipline esoteriche, sa che il mito delle
amazzoni è anche un mito di passaggio, di transizione tra l’età
dell’Argento e l’età del bronzo, quest’ultima caratterizzata dal
ruolo del guerriero e della virilità violenta, fine a se stessa, col
solo scopo del dominio temporale, vaga eco del principio regale supremo
dell’epoca aurea.
Non
a caso i primi tre eroi provengono da una fase storica che, in senso
cristiano, si potrebbe definire pagana, i personaggi rappresentati
appartengono già ad una dimensione storica espressione del Kaliyuga,
ovvero dell’età del ferro, della decadenza, l’epoca più nefasta e
più lontana dalla manifestazione divina, dove dominano i principi
materiali e i bassi istinti di potere e di brama. Gli eroi rappresentati
richiamano solamente il principio eroico della perfezione raggiungibile
dall’uomo, e le donne eroine non hanno più in sé, per dirla alla
Bachofen, il principio della virilità olimpica da trasmettere alle
successive generazioni.
A
questo punto si potrebbe dire che manchi qualcosa, un principio
rigeneratore che possa riportare in vita il carattere solare degli eroi,
dell’uomo e del creato secondo il mito del sole
invicto, rappresentato tramite l’allegoria dei re guerrieri
raffigurati nel ciclo pittorico.
Ed
è questa la chiave interpretativa del dipinto che conclude degnamente e
solennemente il ciclo pittorico presente nella sala baronale, ossia la
fontana della giovinezza presente nella parete opposta ai ritratti, la
metafora di un ritorno alla gioventù come espressione di potenza e di
rinascita del principio solare, eroico, anche se contaminato dalle
influenze profane contingenti.
Lo splendido affresco della fontana della giovinezza del castello della
Manta, raffigura una varia umanità di personaggi, teste coronate,
popolani, borghesi e prelati affannosamente incamminati verso l’acqua
rigeneratrice che ridona la giovinezza e il suo vigore. L’immersione
gioiosa e trafelata dei vecchi che una volta in acqua ritornano giovani,
risveglia tutte le energie tipiche di quell’età, come dimostrano gli
atteggiamenti voluttuosi presenti nel programma iconografico, con tanto
di dialoghi in franco provenzale, e le scene di corte e di caccia finali
vanno intese come manifestazione del vigore riconquistato, anche in
senso solare come si diceva poc’anzi. Ma non c’è solo questo tema
tradizionale nella splendida opera che sapienti le mani di grandi
artisti ci hanno voluto lasciare, vi è anche l’acqua.
Il
mito della virtù delle acque ha radici antiche, nella Genesi è
scritto: Dio "separò le acque che stanno sotto il firmamento, dalle acque che sono
sopra il firmamento” [Gen. 1.7], e prima ancora della creazione vi
è quella misteriosa frase:
"le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava
sulle acque” [Gen. 1.2].
Tralasciando
gli aspetti dottrinali della creazione, che appare più come un atto di
separazione, sarebbe opportuno soffermarsi sul simbolismo delle acque
primordiali.
Il
mito della fontana dell’eterna giovinezza deriva direttamente dalle
virtù delle acque descritte nella Genesi, legame confermato dalla
patristica, in particolare da Sant’Agostino, secondo cui "sopra
il nostro firmamento stanno altre acque immortali e lontane dalla
corruzione terrena” [Le Confessioni, Libro 13, cap. XV].
Sempre
rimanendo nella sfera delle religioni tradizionali, risulta evidente il
riferimento ai riti di purificazione e alle abluzioni rituali; per
ricevere la parola di Dio bisogna essere puliti dentro e fuori,
nell’anima e nel corpo. Certamente anche nel corpo poiché, secondo
quanto si afferma nelle lettere di San Paolo, il corpo del cristiano è
tabernacolo dello Spirito Santo.
Il
legame con la dimensione del creato e con il mondo fenomenico passa
quindi anche attraverso la purificazione del corpo, inteso non solamente
come pratica igienica, ma come atto di predisposizione al ricevimento
degli influssi benedizionali.
Anche
nella tradizione induista si trovano elementi simili, tra i precetti
dello Yoga Sutra vi è il principio di Shaocia,
ovvero pulizia, sia interiore che esteriore, quindi aspetti esoterici ed
exoterici che si fondono in armonia.
Un
altro aspetto molto importante da tenere in considerazione è quello
dell’acqua lustrale, la rugiada raccolta al mattino dell’equinozio
di primavera, data di inizio dei lavori per la realizzazione della
Grande Opera.
Nell’affresco
del castello della Manta, compaiono tutti questi elementi, dottrinali,
esoterici, fino a quelli legati alla tradizione ermetico alessandrina di
carattere alchemico, ma sono inevitabilmente contaminati da una
concezione profana dovuta alla tarda letteratura cortese.
In
tal senso si potrebbe concludere che il ciclo di affreschi della sala
baronale fa riferimento a delle interpretazioni tardive di archetipi,
che fino a poco tempo prima si presentavano nelle loro espressioni più
pure. Facendo un paragone letterario potremmo dire che si è passati
dalla concezione del Graal presente nei romanzi di Chretien de Troyes e
di Wolfram von Eschenbach, venati da radici celtiche oppure
orientaleggianti, alla visione dello stesso calice presente in Thomas
Malory, fortemente contaminata da elementi cristianizzati.
In
conclusione, il ciclo pittorico del castello, se fosse stato dipinto due
secoli prima, si sarebbe concluso con una rappresentazione del Graal,
e in questo senso sacro calice e fontana della giovinezza, a
Manta, si equivalgono. La contaminazione cortese e gli elementi profani
prendono il sopravvento e si orientano su un tema classico e archetipico,
reinterpretato secondo i canoni dell’epoca corrente, pur mantenendo
intatti alcuni elementi esoterici della tradizione.
Del
resto, se dal costato di Cristo trafitto dalla lancia del centurione
romano Longino sono usciti acqua e sangue, raccolti da Giuseppe d’Arimatea
nel sacro calice, quell’acqua è sacramento di salvezza e di
rinnovamento. Così come la stessa fontana della giovinezza rigenera
l’uomo e lo proietta verso una nuova vita, anche il calderone degli
dei celti resuscita i guerrieri caduti in battaglia, pronti per
abbracciare nuovamente le armi.
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Il
castello della Manta non è famoso solamente per il ciclo pittorico della
sala baronale, l’aurea misteriosa ed esoterica del complesso, si
completa con un enigmatico dipinto della seconda metà del Cinquecento,
raffigurante un mappamondo che tra i vari continenti presenta, in maniera
chiara e ben delineata, i contorni dell’Antartide, con una tonalità di
colore verdeggiante, come se fosse non ricoperto dai ghiacci perenni. Il
dipinto, assolutamente autentico, si trova sulla volta del Salone delle
Grottesche, ampio e raffinato locale facente parte di un successivo
ampliamento della dimora signorile, costruito nel primo decennio della
seconda metà del XV secolo.
Michele
Antonio di Saluzzo, luogotenente del marchesato per conto di Enrico III di
Francia e poi di Carlo Emanuele I di Savoia, attento alle mode manieriste
provenienti da Roma e alle suggestioni michelangiolesche e raffaellesche,
promuove una nuova dimensione signorile della residenza mediante la
costruzione di un avancorpo nella parte occidentale del maniero. Nel nuovo
corpo di fabbrica fanno bella mostra il Salone delle Grottesche, un
elegante corridoio affrescato con le Fatiche di Ercole, che porta alla
camera da letto dello stesso Michele Antonio, lo scalone di marmo che
conduce ai piani superiori ed infine, un austero cortile d’ingresso col
classico porticato alla piemontese.
Il
castello è visitabile praticamente in ogni sua parte, l’attenta
gestione del FAI ha promosso numerosi interventi di restauro e di
conservazione che permettono al pubblico di godere pienamente della
magnificenza delle opere d’arte custodite, tra queste il magnifico
mappamondo cinquecentesco, completo dell’Antartide, circondato da
stupende decorazione di gusto pompeiano.
Il
mappamondo è racchiuso all’interno di un ovale nella pare centrale
della volta, accompagnato da un altro ovale in posizione simmetrica con
amorini, il riquadro al centro raffigura la Caduta di Fetonte, tema
mitologico ed esoterico per eccellenza legato al fiume Po e alla pianura
Padana (non si dimentichi che il grande fiume passa pochi chilometri a
nord), secondo altri studiosi, più profanamente, si tratta della visione
del Carro di Fuoco di Ezechiele.
Da
notizie storiche certe risulta che nella seconda metà dell’Ottocento,
gli allora proprietari del maniero, i Radicati di Marmorito, per definire
meglio i dettagli della mappa, fecero ritoccare il continente
sudamericano, che appare in primo piano, secondo la cartografia moderna.
Infatti il planisfero descrive il Nord America in maniera alquanto vaga,
anche se la penisola della Florida e il Mar dei Caraibi appaiono molto ben
delineati, probabilmente, date le conoscenze dell’epoca e la recente
scoperta del nuovo continente, anche l’America Latina non era molto
rispondente alla realtà. Il ritocco ottocentesco, eseguito per ragioni
estetiche e didattiche secondo gli usi dell’epoca, non ha alterato
minimamente l’Antartide che risulta essere intonso e di fattura
originale.
Le
terre descritte nello straordinario dipinto si affacciano sull’Oceano
Atlantico in primo piano, nell’Africa è riportato il Nilo, e tra
l’Asia e l’Europa il fiume Volga, da notare la presenza di tre grosse
isole in corrispondenza delle Azzorre, evidente richiamo al continente
perduto di Atlantide.
Per
quale motivo alcune mappe del Cinquecento riportassero l’Antartide prima
della sua scoperta resta un mistero, con diverse ipotesi avanzate da molti
studiosi, ma ancora più misterioso è il fatto che il continente fosse
disegnato in maniera precisa, comprese le aree montuose, e soprattutto con
colori verdi indicanti una lussureggiante flora.
La
storia ci dice che il primo avvistamento ufficiale del continente dei
ghiacci avvenne il 27 gennaio del 1820, quando una spedizione di due navi
guidate da Fabian Gottlieb von Bellingshausen, capitano della Marina
Imperiale Russa, e da Mikhail Petrovich Lazarev, si avvicinarono fino a
20 miglia
dalla costa. Ma il primo sbarco avvenne un anno dopo, per la precisione il
7 febbraio del 1821, ad opera dell’americano John Davis, anche se molti
studiosi non condividono questa data.
In
verità di un continente al polo sud della terra si è sempre parlato, già
in epoca tolemaica si ipotizzava l’esistenza di una Terra Australis
secondo una specie di teoria della compensazione, le terre dei continenti
posti a nord, Europa, Asia e Nord Africa, avrebbero dovuto essere
equilibrate da altrettante terre emerse nell’emisfero australe, da qui
la teoria che esistesse un vasto continente a sud, di dimensioni molto più
ampie di quelle reali. Infatti, in tutte le mappe fino al XVII secolo, la
Terra Australis viene riportata con delle superfici piuttosto grandi,
calcolate secondo questa teoria della compensazione.
Certamente
il mappamondo di Manta si inserisce nell’ampio contesto delle mappe e
dei planisferi misteriosi, basati su antichi documenti ed esplorazioni, di
cui esiste una lunga tradizione e una ben scarsa trattazione.
La
più celebre mappa che riporta nel dettaglio molte terre, ben prima che
queste fossero esplorate, è quella dell’ammiraglio turco Pirî Raïs
Ibn Mehmet, chiamato comunemente Piri Reis, grande cartografo che elaborò
una carta in due pezzi, risalente al 1513 e ora conservata presso il museo
Topkapi di Istanbul.
In
essa sono rappresentate le coste atlantiche della Francia, della penisola
iberica e dell’Africa, dalla parte opposta ovviamente quelle del
continente americano, con dovizia di dettagli quali la Cordigliera delle
Ande, un lama e un puma per quel che riguarda l’America Latina. Ma la
cosa più stupefacente è che la carta non si ferma a Capo Horn, ma
continua riportando una parte dell’Antartide, sono infatti visibili la
Penisola di Palmer, i Monti Muhlig-Hofmann, la Scarpata di Neumeyer,
la Terra della Regina Maud e alcune catene montuose.
Un’altra
mappa molto interessante è quella di Hadji Ahmed del 1559 che, oltre a
mostrare l’Antartide, presenta un ponte di terra molto largo che collega
l’Alaska alla Siberia, come realmente era fino all’ultima era glaciale
(fino a quella di Würm).
Anche
nel lavoro di Piri Reis vi sono delle stranezze, ad esempio l’isola di
Cuba è solamente rappresentata per metà, nel senso che la parte
occidentale viene raffigurata con una serie di isolotti, come realmente
poteva essere sempre nell’era dell’ultima glaciazione.
A
questo punto appare evidente che tutte le mappe antiche sono basate su un
substrato culturale molto più arcaico di quanto si possa pensare, e fanno
riferimento a delle civiltà del passato che conoscevano bene le terre
emerse in tutte le loro collocazioni e caratteristiche. Si tratta insomma
di retrodatare la civiltà di migliaia di anni per arrivare a circa
10˙000 anni fa, e soprattutto di riconoscere che il livello delle
conoscenze raggiunte in quell’epoca, che potremmo definire
antidiluviana, era altissimo.
Insomma
la spiegazione più plausibile, anche se negata dall’archeologia e dalla
storia “ufficiale”, sarebbe quella di ammettere l’esistenza di un
nucleo primordiale portatore di conoscenza, che avrebbe diffuso la luce
della civiltà nei diversi angoli del mondo. D'altronde il mito di
Atlantide esprime nella sua essenza, ed indipendentemente dall’esistenza
o meno del continente perduto, la possibilità concreta che, prima del
diluvio universale, esistesse una popolazione culturalmente molto evoluta,
con tutte le implicazioni relative, compresa quella di una conoscenza
geografica dettagliata e probabilmente un assetto dei continenti diverso
da quello attuale.
Tornando
alla questione Antartide, è interessante notare che in tutte le
rappresentazioni cinquecentesche che lo riguardano, esso appare come una
terra verde, libera dai ghiacciai perenne tutt’ora esistenti, ricco di
vegetazione e con delle catene montuose simili a quelle rilevate dagli
istituti geografici negli anni cinquanta del Novecento. A conferma di
quanto detto si porta come esempio la carta geografica disegnata da
Francesco Rosselli nel 1508, dove il continente allora sconosciuto appare
verdeggiante, e la mappa di Giorgio Calopodio del 1537.
Tuttavia
la carta geografica che maggiormente stupisce per sua bellezza, per la sua
completezza, per l’accuratezza dei dettagli, per la sua sconvolgente
precisione, è la Mappa del Mondo di Oronteus Finaeus del 1532, dove
l’Antartide, chiamato secondo la definizione tolemaica Terra Australis,
appare in tutta la sua chiarezza:.
Ma
nella mappa in questione l’Antartide appare spostato rispetto alla
posizione del polo sud, almeno rispetto ai rilievi e alle proiezioni
attuali dei meridiani e dei paralleli, in particolare, facendo riferimento
alla comparazione effettuata dal grande studioso Charles H. Hapgood nel
suo libro “Le Mappe delle Civiltà Perdute”, risulta che nella mappa
del Finaeus l’intero continente tende verso il Sudamerica e quindi più
a nord. Da ciò si potrebbe dedurre che le conoscenze dei cartografi,
relative ai continenti allora ancora inesplorati, fossero state dedotte da
antichissime mappe, e soprattutto che dopo l’ultima glaciazione si sia
verificato una parziale deriva di alcuni continenti con movimenti di una
certa rilevanza.
Gli
studi compiuti da Hapgood sono rivolti all’interpretazione scientifica
di questo fenomeno, che si potrebbe definire come una deriva secondaria
dei continenti avvenuta nel corso dell’ultima glaciazione, quella di Würm,
terminata circa 10˙000 anni fa. Ovviamente durante le fasi di
glaciazione le calotte polari sono soggette ad un’espansione seguita da
un ritiro che comporta delle pesanti conseguenze non solamente dal punto
di vista climatico, ma anche sulla rotazione terrestre.
Il
peso stesso delle calotte polari sarebbe distribuito in maniera
asimmetrica e la rotazione terrestre imprimerebbe una notevole forza
centrifuga sulla crosta terrestre in aggiunta alle masse di ghiaccio.
L’ipotesi di Hapgood, descritta nel suo libro “Path of the Pole”, ha
suscitato persino l’interesse del noto scienziato Albert Einstein al
punto da accettare di scrivere l’introduzione del libro.
La
teoria è molto semplice, si tratterebbe di uno slittamento della crosta
terrestre e spiegherebbe il continuo alternarsi delle glaciazioni. In
pratica la forza centrifuga impressa dalla rotazione della terra agirebbe,
in concomitanza con il peso delle masse asimmetriche dei poli, sull’asse
di rotazione e sulla stabilità della crosta rigida del pianeta. La
superficie della terra scivolerebbe sopra gli strati più interni viscosi
e fluidi, il risultato sarebbe quindi un progressivo spostamento delle
regioni polari verso gli equatori.
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