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TEMATICHE: Due passi nell'Italia nascosta Simbologia e Cultura Orientale UTILITY: Ricerca veloce titoli per argomento SERVIZI:
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Un Viaggio nelle Tradizioni
Popolari alla ricerca di antichi
Culti Pagani
(a
cura
di
Andrea
Romanazzi) Ancora
una volta, come ogni anno, ci stiamo apprestando ad esser bombardati da
pubblicità, magazine, network che parlano di Halloween, il
“carnevale” novembrino vera e propria festa del consumistico mondo
occidentale. Per molti la ricorrenza è estranea alla nostra cultura italiana,
un chiaro esempio dell’effetto della globalizzazione e dell’assorbimento di
usi e costumi del mondo anglosassone. In realtà, celate da maschere e vetrine
scintillanti ecco trasparire antichi ricordi di tradizioni mai del tutto
scomparse e ancora insite nel folklore popolare che contraddistingue la nostra
nazione. Sarà
così seguendo gli indizi nascosti nelle pieghe del tempo che arriveremo ad un
culto molto antico, il culto della Dea Madre, regina di questa mistica notte ove
ancora oggi il velo della reminescenza è così leggero da permetterci di
guardar attraverso. Secondo
il Dizionario McBeain di Lingua Gaelica Samhain
(pronunciato “sow-in”), forse la più importante tra le festività
celtiche, deriverebbe da “samhuinn” e significherebbe “summer’s End”,
la fine dell’estate e l’inizio della stagione invernale. In realtà i
festeggiamenti non duravano una sola giornata ma iniziavano una settimana prima
e si concludevano una settimana dopo, così è molto più probabile che il
giorno più importante dei festeggiamenti non fosse il primo del mese di
Novembre, bensì l’11, data coincidente con quella che oggi viene definita
estate di San Martino. Successivamente, nei paesi di origine anglosassone,
Samhain fu trasformata in All Hallow’Eve, ove “Eve” sta per “vigilia”
o ancora Halloween. Questa
data coincideva con l’inizio dell’anno celtico, il momento in cui la natura
inizia il suo riposo e il primitivo, spaurito dalla morte della propria “mater”,
già preparava la sua rinascita. Da qui il collegamento di Samhain come festa
dei morti, ma in realtà essa non è una festività legata ai defunti,
esattamente il contrario, è legata alla vita, alla grande dea che muore per
poter rinascere. Ai
primordi infatti la divinità è immaginata come la sovrana dei boschi e della
natura selvaggia, essa da sostentamento agli uomini ma ne può causare anche la
morte, successivamente il passaggio dal nomadismo all’agricoltura impone al
selvaggio un più attento esame delle stagioni e dei cicli naturali, egli si
accorge che la terra non è sempre fertile, la dea, resasi immanente nei campi,
nelle piante di grano e di orzo muore per poter rinascere nuovamente e così
assicurare, con i suoi eterni cicli, la novella vita. Il concetto di morte e
resurrezione ha così da sempre permeato le credenze e i miti degli uomini, nel
mondo greco ad esempio essa è ben descritta dalla storia di Demetra e Persefone,
la leggenda narra che un giorno la bella Presefone, figlia di Demetra, mentre
raccoglieva dei fiori con delle amiche, si allontanò nel bosco e così Ade, la
divinità dell’oltretomba, da tempo perdutamente innamorato della fanciulla,
decise di rapirla con il beneplacito di Zeus.
La Dea Madre accortasi della scomparsa della figlia iniziò a cercarla
ma, vedendo vani i suoi tentativi, decise che fin quando non le sarebbe stata
restituita la terra non avrebbe prodotto più i suoi frutti. Zeus ordinò così
ad Ade di lasciar libera la fanciulla ma il dio, con un sotterfugio, costrinse
la stessa a ritornare ogni sei mesi nel suo regno. Demetra allora infuriata
decise che nel periodo in cui Persefone fosse stata nel regno dei morti, sul
mondo sarebbe calato l’inverno e la terra non avrebbe prodotto i suoi
magnifici frutti, una metaforica morte in attesa del risveglio. E’ in questa
ottica che la festa di Halloween assume un nuovo significato, esso diventa il
giorno in cui il velo che separa il mondo dei vivi da quello del soprannaturale
si fa molto sottile, tanto da poter facilmente trapassarlo, nasce così l’idea
che le anime dei morti proprio in questo giorno riescon più facilmente a
raggiungere e far visita ai loro cari ancora in vita. Da questa credenza nasce
l’usanza di lasciare frutti o latte sugli usci delle porte, in modo che gli
spiriti, durante le loro visite potessero ristorarsi o ancora accendere torce e
fiaccole per segnalare il cammino e agevolare loro il ritorno. Con
l’avvento del Cristianesimo, la Chiesa cercò di appropriarsi della festività
troppo radicata nella cultura popolare per esser cancellata e così il 1°
Novembre diventava la festa di Ognissanti, le figure fatate e gli spiriti della
tradizione celtica, a loro volta immagine di un oltremodo di morte e
rigenerazione, furono demonizzati, le stesse donne il cui ruolo nei rituali di
fertilità era fondamentale furono trasformate in streghe e i falò di
“gioia” tradotti in roghi. Anche le lanterne e le luci giuda subirono una
ugual sorte, quelle che all’inizio avevano proprio il compito di indicare ai
propri defunti la “via di casa” divennero “lanterne scaccia streghe” con
un uso completamente differente. La
tradizione vuole che solo verso il 1700 iniziò a sorgere l’usanza di
intagliare strani e spaventosi volti nelle rape e di inserire nel loro interno
delle candele illuminate proprio per far allontanare gli spiriti maligni, nel
1845 però, una spaventosa carestia in Irlanda obbligò moltissime persone a
immigrare in America portando con loro anche queste tradizioni. La difficoltà
di reperire rape nel nuovo continente fece si che il tubero fosse sostituito
dalle molto più diffuse zucche gialle che ancor oggi sono uno dei simboli più
ricorrenti di Samhain. Se così ci racconta la storia non possiamo far a meno di
soffermarci sulla scelta del frutto-simbolo della festa, trovando molte altre
antiche tradizioni che riportano alla zucca. Essa è infatti da sempre legata a
rituali di morte e rigenerazione che contraddistinguono il culto della dea,
infatti il fiore, chiamato giglio, era legato di solito ai morti, il suo colore
giallo pallido ricordava appunto il colore delle ossa dei defunti, mentre il
frutto, appunto la zucca, era associato alla procreazione e alla fertilità. Se
così immaginiamo che la lanterna di Halloween abbia origini moderne basta
sfogliare il Corpus Hippocraticum del 400-300 a.C. per leggere che “…se
la donna ha la stanguria tagliare la testa e il fondo di una zucca, metterci
sotto del carbone, gettare sul fuoco della mierra triturata, la donna si sieda
sulla zucca e faccia entrare quanto più possibile i suoi organi genitali,
affinché le parti genitali ricevano più vapore possibile…” Ai
nostri occhi la descrizione sempre perfettamente coincidere con la lanterna
cacciastreghe simbolo della festività. La zucca è così lo strumento per
assicurare la procreazione, essa è il priapos primordiale, l’elemento
ingravidatore che nasce dalla stessa terra e assicura, nel periodo più oscuro e
buio la vita. Del resto la zucca era anche associata al dio Priapo, divinità di
origine greca poi successivamente
“adottata” dai romani. Il dio, spesso
rappresentato con un volto umano e le orecchie di una capra, tiene in mano un
bastone usato per spaventare gli uccelli, la falce per potare gli alberi e sulla
testa foglie d’alloro. Sua caratteristica più evidente è l’enorme o
addirittura il doppio fallo, simbolo proprio della sua natura feconda, aspetto
per il quale era anche rappresentato da un pilastrino verticale con sopra
scolpita la sua testa e il suo fallo eretto, simbolo appunto della fecondazione. Ebbene
il dio era anche strettamente collegato alla zucca come possiamo leggere dai
Carme Priapei E
ancora il ricordo della zucca come frutto legato ai rituali di fertilità lo
ritroviamo in molti autori latini che la associano al parto e alla gravidanza Questa
schiera di esseri, composta indifferentemente da uomini e donne, spesso a
cavallo di animali in qualche modo legati ai culti totemici pagani, come capre,
cavalli o strani rapaci, era di solito guidata da un essere mitico, una antica
divinità pagana autoctona come ad esempio Wotan o Odino dell’area nordica o
da strane creature, spesso dalle fattezze femminili, che trasportavano, non di
rado, un carro rituale. Una
interessante area da esaminare, proprio perché ancora oggi è visibile nel
folklore locale lo strano rapporto tra viventi e defunti, è la Bretagna, luogo
ove alla religione ufficiale si mescolano vorticosamente antiche tradizioni
pagane mai cancellate. Un
esempio ancora ben visibile nelle leggende e nei racconti popolari, è ad
esempio quello dell’Ankou. Si tratta
di una figura locale raffigurata come la “morte”, sotto forma di scheletro
con la falce che però non è semplice espressione della stessa, in realtà si
tratta solo di un suo messaggero, una strana figura che giunge ad avvisare le
persone, e spesso a consigliare di portare subito a termine faccende personali
in sospeso prima del loro trapasso. Questo
però non è l’unico esempio, altra interessante informazione sul mondo
bretone dei trapassati può esser desunta, poi, dal racconto di Procopio di
Cesarea nella sua Guerra Gotica.
Parlando della Brittia ci racconta che “…giunto a questo punto della storia mi sembra inevitabile
raccontare un fatto che ha piuttosto attinenza con la superstizione…”.
Ecco così che lo storico narra delle strane abitudini di alcuni abitanti di
borghi di pescatori situati dall’altra parte del mare, in quell’area che
oggi è appunto nota come la Bretagna. Alcuni di questi individui avevano un
compito strano, quello di traghettare le anime dei morti nella “…A tarda ora della notte, infatti, essi sentono battere alla porta
e odono una voce soffocata che li chiama all’opera. Senza esitazione saltano
giù dal letto e si recano sulla riva del mare…sulla riva trovano barche
speciali, vuote. Ma quando vi salgono sopra le barche affondano fin quasi al
pelo dell’acqua come se fossero cariche…dopo aver lasciato i passeggeri
ripartono con le navi leggere…”. Se
questo racconto sembra incredibile basta giungere ancora oggi in Bretagna per
ritrovare, arenate nelle sacche di sabbia dovute alla marea, vecchie barche
oramai in disuso. Nessuno però si azzarda a spostarle o portarle via, ancora
oggi queste sono le barche che traghettano i morti. E’
questa l’espressione della comunicazione locale con un aldilà mai visto come
luogo tenebroso come dimostrerebbero i numerosi cimiteri mai isolati dai luoghi
abitati. Del
resto è già dai tempi di Claudiano, V secolo, che l’area bretone era nota
come il luogo dei morti, era qui, infatti, che si identificava il luogo ove
Ulisse aveva incontrato i morti e ove “i
contadini vedono vagare le ombre pallide dei morti”, una affermazione che
ritroveremo in seguito proprio legata al territorio italiano. Ma questo non
basta, oramai è ben dimostrato come alcuni viaggi compiuti da cavalieri delle
saghe bretoni, come Parsifal o Lancillotto, in terre desolate o verso castelli
misteriosi altro non sono che viaggi nel mondo dei defunti come poi
testimonierebbero toponimi come Limors o il Schastel le mort. Lo
stesso Artù, in varie raffigurazioni, altro non sarebbe che il traghettatore
delle processioni dei morti, come nel mosaico pavimentale di Otranto, ove il
sovrano è raffigurato con uno scettro in mano in groppa ad un caprone, seguito
da una schiera di uomini. Anche
il folklore italico però, come si potrebbe pensare, non è estraneo al mondo
dei trapassati, come mi sono occupato in un altro mio lavoro proprio sul culto
dei morti. La
tradizione della Processione dei defunti e la visione degli stessi da parte
della gente contadina non è però patrimonio esclusivamente bretone, anche se
ancora oggi in quelle terre tale tradizione resiste fortemente, ma in tutta
Europa sono fortemente diffusi racconti popolari di gente che periodicamente
assisteva a tali apparizioni. In
realtà questo “spettacolo” non era riservato a tutti, ma solo a persone dai
particolari poteri o nati in ben precisi giorni. Così,
ad esempio, in Friuli, il Ginzburg parla dei Beneandanti, uomini dai particolari
“poteri”, nati con la “camicia”, un parte della placenta che, proprio
per questa loro “stranezza” saranno poi gli attori, in particolari periodi
dell’anno, di una lotta contro le forze maligne per assicurare fertilità ai
campi. Sono
loro che possono aver rapporto con i defunti dato che “chi
vede i morti, cioè va con loro, è un Benandante”. Moltissimi
poi sono i racconti popolari di incredibili incontri nelle campagne con schiere
di defunti. Sempre in Friuli interessante è l’avventura capitata ad un povero
monaco nel 1091. Mentre questi camminava lungo un sentiero di campagna viene
attratto da strani lamenti e così scorge una processione tra la quale riconosce
alcuni uomini suoi conoscenti morti da poco tempo. Se però potremmo pensare che
simili visioni sono relegate ad un lontano passato ecco presenti numerose
testimonianze di donne lucane che durante il secolo scorso si imbatterono in
quella che è la “messa dei morti”. Così lungo le buie vie che conducono le
contadine del sud nei campi da lavoro, capita spesso di vedere una chiesa aperta
e illuminata e all’interno anime dannate che allontanano subito le viandante o
le comunicano un messaggio per il mondo dei vivi. “…una
volta un forese [abitante
del paese di Forenza, in Lucania N.d.A] commise con il suo padrone di andar
ad attingere acqua ad una fontana lontano dal paese…il forese si mise in
cammino ma giunto nei pressi della fontana di Tromacchio vide quattro persone
che portavano a spalla una bara…decise di andare alla fontana di spando ma
anche qui il cammino era sbarrato dai quattro…allora gli venne incontro un
sacerdote morto da qualche tempo che lo prese per mano e gli disse “queste
scommesse non le devi fare”…” La
strana fila tanto ricorda quelle raffigurazioni rinascimentali, chiamate
“Danze Macabre”, che iniziano ad apparire attorno al 1400, interpretate
successivamente con il motivo della morte “livellatrice”. Sicuramente queste
attingerebbero da ben più antichi ricordi, come testimonierebbe la primitiva
guida delle fila. Sempre
nella regione lucana, fortemente legata al mondo contadino, pullulano storie di
donne che, mentre raccoglievano l’acqua, nel riflesso del catino, scorgevano
strane processioni tra le quali individuavano alcuni loro defunti, tradizione
presente anche nel Sud Italia. Anche in questo caso le “visioni” sono
accomunate da un particolare: avvengono solo in particolari momenti della vita
dell’individuo o in particolari periodi dell’anno, spesso coincidenti con
festività agrarie, come ad esempio la Festa di Onnissanti o la notte di San
Giovanni. Dolcetto
o Scherzetto? I Prolegomeni del cibo del mondo Ctonio Allo
stesso modo si innesta la tradizione del cibo dei defunti, trasformato poi nelle
leccornie e dolciumi per i giovani bambini. Da
sempre l’uomo ha avuto timore del ritorno del defunto, l’untore che può
portare morte tra i vivi. Secondo così il principio della magia simpatica,
ponendo del cibo nelle tombe si sarebbe placata la fame del trapassato
impedendogli così di ritornare sul mondo terreno. Che il cibo reale fosse
davvero utilizzato nei sepolcri è dimostrato da diversi testi come il “De
Masticazione Mortuorum in Tumulis” di Michel Raufft o la “Dissertatio
Historico-Philosophica de Masticatione Mortorum” di Philip Rohr. Qui si
descriveva come il morto, le cui scorte alimentari erano insufficienti, iniziava
a nutrirsi masticando il sudario e le sue stesse carni. Anche il cannibalismo
diventa un modo per assicurare la seconda morte al defunto, infatti lo stomaco
diventa suo definitivo sepolcro e sarebbe da questa interpretazione che
deriverebbero diverse espressioni popolari Italiane come “bere i morti” o
“mangiare i morti”(E. De Martino, 1959) e l’usanza del banchetto funebre.
Ecco così che nel giorno dei morti, quasi riproponendo il tema della necrofagia,
in molti paesi della Penisola vengono preparati strani dolcetti a forma di ossa
chiamati appunto “ossa dei morti”(A. Romanazzi, 2003) che vengono poi
regalati ai fanciulli. Cibo
rituale sono le fave e i ceci, da sempre presenti nei convivi funebri e nelle “merende”
che si tenevano tra i parenti del defunto immediatamente dopo il funerale. La
motivazione potrebbe essere che la fava è stata da sempre considerata come il
mezzo per comunicare con l’Aldilà, esse erano presenti nelle cerimonie
funebri nell’antico Egitto ed in Grecia mentre a Roma erano il
simbolo della resurrezione dalla morte. Cicerone
ci informa dell’uso ateniese di spargere granaglie sulle tombe, e legumi cotti
in enormi pentole venivano offerti ad Hermes Ctonio. Ancora fino al secolo
scorso in vari paesi grandi bigonci erano posti agli angoli delle strade in modo
che le anime vaganti, ma anche i poveri, potessero rifocillarsi. Il
seme, poi, nasconde anche un’altra motivazione, esso è alimento molto gradito
ai defunti perché, secondo l’immaginario popolare, deriverebbe proprio da
quello stesso mondo conio al quale il trapassato apparterrebbe. Non solo però,
il seme è simbolo del continuo ciclo di morte e rinascita, esso infatti viene
mietuto proprio per poter ricrescere e non dobbiamo dimenticare che
etimologicamente la dea Cerere sembrerebbe provenire proprio da “Madre del
grano” identificata spesso con l’ultimo covone della raccolta e destinato a
rituali di fertilità, infatti era riservato alle vacche gravide proprio per
assicurare loro fertilità o alle stesse donne che si dovevano garantire un
parto felice. Il
seme diventa così anche simbolo della rinascita, una novella speranza per il
defunto, dunque. Non
dobbiamo poi dimenticarci della tradizione del melograno come altro alimento
importante, esso è un frutto di speranza, ricco di semi e da sempre albero di
fertilità. Così, ad esempio, è sulla tomba di Osiride che germoglia un melograno dopo che esso viene ricomposto da Iside, o ancora raffigurazioni del frutto le troviamo sulle pareti tombali di varie tombe etrusche o romane.
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