Questo
scritto di fatto costituisce un corpus di appunti che dovrebbero
concretizzarsi in uno studio articolato diretto a fornire gli strumenti
per l’analisi etnografico-antropologica dell’arte rupestre. Argomento
a cui l’autore sta lavorando dalla seconda metà degli anni Settanta,
compiendo ricerche in varie aree geografiche.
Di certo la più grande rivoluzione moderna nella storia della
rappresentazione risale al 1839 quando, per la prima volta, su un
dagherrotipo rimase impressa, in un angolino di una veduta di Parigi,
una figura sfocata e mossa: un uomo sconosciuto di cui non sapremo
mai l’identità.
Dopo
quell’immagine inizierà un nuovo periodo: il rapporto dell’uomo con
la raffigurazione di sé e del mondo circostante non sarà più quella dei
tempi della sola pittura e del disegno.
Da
quel momento la realtà entrava prepotentemente nella sua
rappresentazione, affrancando l’artista dall’onere
dell’interpretazione e della riscrittura della storia.
Per
ritrovare una rivoluzione di tale portata, anche se su piani molto
diversi, è necessario ritornare indietro nel tempo, fino a circa 30.000
anni fa, quando gruppi di uomini Sapien-sapiens
(Cro Magnon) iniziarono a sentire il bisogno di rappresentare, sulle
pareti delle caverne, figure di animali multicromatiche. In quel preciso
momento, in un’area in fondo piuttosto ristretta (franco-iberica),
nasceva una nuova esperienza della cultura che non abbandonerà più
l’uomo: l’arte (1).
Come
abbiamo visto, risalire alle origini dell’arte rupestre vuol dire
ritornare alla preistoria (2), anche se certamente il problema non si
risolve solo attraverso valutazioni di tipo cronologico e su un piano
evoluzionistico (3).
Partiamo
dalla pietra. La pietra, in sé, in quanto materiale
che cristallizzerebbe nella sua esistenza il potere tellurico, ha
svolto da sempre un ruolo fondamentale nelle più diverse culture (4).
Ruolo che presenta due aspetti ben precisi:
- pratico:
pietra come materiale per la costruzione di oggetti e strutture
- simbolico:
connesso alla consapevolezza che la pietra può rappresentare qualcosa
o qualcuno” e di fatto esprime valori che vanno al di là della sua
apparenza.
Senza
dubbio alcune delle caratteristiche della pietra, la dimensione, la forma
e soprattutto l’apparente indistruttibilità, hanno continuato a
reggerne le valenze simboliche all’interno della dimensione del sacro.
La
pietra è stata un referente molto importante per l’uomo, infatti è ben
noto che con Età della Pietra (suddivisa in due grandi blocchi
cronologici: Paleolitico e Neolitico, cioè Età della Pietra antica e
della Pietra nuova) si identifica un periodo molto ampio della cultura e
dell’evoluzione dell’uomo, un periodo attraverso il quale l’Homo
habilis si è lentamente mutato in Homo
sapiens sapiens.
Tralasciando
tutte le problematiche pratiche e costruttive, e occupandosi
esclusivamente della litolatria
(venerazione delle pietre) constatiamo che tale pratica è presente in
numerose religioni antiche e “primitive”. È evidente che le
testimonianze oggettive del potere sociale, ma anche politico, del culto
della pietra, si espressero in particolare con il megalitismo, fenomeno
emblematico (5).
Vanno
inoltre considerate le implicazioni connesse alla fertilità che possono
aver svolto un ruolo molto importante nel culto della pietra: si tratta di
implicazioni che si esprimono soprattutto nel simbolismo del fallo litico,
a cui si riallacciano culti e tradizioni (sopravvissuti nel folklore)
destinati a relazionare la pietra alla procreazione.
Alla
fecondità sembrerebbero legarsi anche i meteoriti, pietre particolari
perché venute dal cielo e quindi, nelle culture antiche, espressioni
particolarmente vive dell’epifania del divino.
Dalla
pietra, e dalla sua rappresentazione, sembrerebbe essersi evoluto un
modello divino: la parola
semitica
beth-el (casa di dio) in età premosaica designava una pietra sacra
e contemporaneamente il dio che in essa vi risiedeva. E ancora:
l’immagine primordiale di Ermes era un cumulo di pietre evolutosi nella
colonna itifallica; in alcuni casi Apollo era venerato con l’epiteto di Lithesios,
che risulta chiaramente connesso alla pietra.
Dio
era dentro la materia litica anche attraverso il culto del betilo,
pietra cultuale dell’area semitica entrata nella tradizione del mondo
classico: nella sostanza il betilo
è il “dio di pietra” attestato in particolare nell’area
siro-palestinese.
Greci
e Romani fecero loro questo culto, trasformandolo e modificandone le sue
peculiarità; nell’antica Grecia troviamo il termine baitylos
indicante la pietra che la dea Terra aveva sostituito al neonato Zeus e
che Crono ingoiò al posto del figlio. Il betilo
era venerato a Delfi, ma anche i Romani sostenevano di possederlo e lo
indicavano nella pietra di Termine (dio dei confini) depositata nel tempio
di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio.
In
estrema sintesi, posiamo partire da un assunto basilare: le pietre (come
gli alberi, le acque, gli astri, ecc.) assumono valenze e significati sul
piano religioso secondo un processo mitopoietico attestato in tutte le
culture. Come abbiamo visto, l’esempio più significativo
dell’utilizzo di pietre in ambito rituale è costituito dal megalitismo,
anche se intorno a questa espressione della tradizione cultuale non vi è
accordo tra gli studiosi, dal punto di vista del significato e da quello
relativo al le tecniche costruttive adottate per la realizzazione dei
grandi complessi litici.
Al
di là della fenomenologia megalitica in sé, le pietre sono entrate a far
parte della tradizione magica, religiosa e mitica in relazione ad
espressioni, funzioni e riconoscimenti simbolici varianti da cultura a
cultura. Di conseguenza è abbastanza arduo pretendere di stabilire
un’interpretazione universale applicabile alla litoliatria.
Sulla
base degli studi di Eliade, sembrerebbe di potere constatare che
“l’ideologia litica” si qualifica con toni sacrali in relazione
all’alterità della pietra, alla sua originalità e potenza attribuite a
valenze poste fuori della storia: “La durezza, la rudezza, la permanenza
della materia rappresentata per la coscienza religiosa del primitivo era
una ierofania. Niente di più immediato, di più autonomo che la pienezza
della sua forza, niente di più nobile e di più terrificante che la
roccia maestosa, il blocco di granito audacemente eretto. Prima di tutto,
la pietra è... Nella sua grandezza e nella sua durezza, nella sua forma
che appartengono a un mondo diverso dal mondo profano del quale egli fa
parte” (6).
Di
diverso avviso sono altri studiosi, per esempio di Nola, secondo il quale
“i processi di formazione dei miti e culti della pietra, pur nelle
profonde differenziazioni evidenziabili nei differenti ambiti culturali,
possono essere ricondotti molto spesso a esperienze umane, a forme di
rappresentazione, a meccanismi simbolici che testimoniano un rapporto
reale, pratico, utile con l’ambiente. E cioè, la qualificazione
sacrale, nel mito e nel rito, di talune pietre, rocce, meteoriti, ecc. non
rappresenta un avvenimento del sacro tout court, irrazionalmente inteso
come realtà assoluta e invadente, ma riflette chiaramente
l’atteggiamento dell’uomo di fronte all’ambiente, la spiegazione che
egli dà all’ambiente in un rapporto mitopoietico” (7).
Riferendoci
alla precisazione proposta dal di Nola, sembrerebbe che l’uomo tenda a
trasformare le “realtà naturali” in “realtà sacre”: in questo
modo avverrebbe, in relazione alle necessità delle varie culture, un
tentativo per dare una connotazione soprannaturale a quanto si sottrae al
“normale” sistema di relazioni caratterizzante l’uomo e
l’ambiente. Tale configurazione del mito ha contrassegnato spesso
l’indagine etno-religiosa, per esempio quella di
scuola funzionalista. Bronislaw Malinowski (1884-1952), studiando i
miti che narrano le trasformazioni di personaggi primordiali in pietre
nell’area oceanica delle Trobriand, non si appellò al sacro, ma fornì
una spiegazione, a livello mitopoietico, del complesso ambientale: in
pratica la realtà diviene mitica nella misura in cui gli uomini hanno
bisogno di trovare comunque un senso al loro essere nella storia.
Per
gli indigeni trobriandesi, alcune pietre entro le quali vi sarebbe
l’antenato, costituirebbero un legame forte tra passato e presente,
fornendo garanzie per la realtà attuale. Si aggiunga che l’origine di
alcune credenze sul
“contenuto” mitico delle pietre, potrebbe anche essere ricercato in
semplici analogie formali e materiali “della realtà che gli si
presenta, con quella che egli ha costruito nei suoi miti (questa o quella
pietra, questa o quella roccia divengono questo o quel personaggio, perché
l’occhio ve ne vede i tratti fisici, le forme del corpo o ve li
immagina). In questo senso, le realtà naturali (alberi, pietre, ecc.)
assumono una funzione utile per il gruppo, che trasforma l'ambiente inerte
in un ambiente mitico la cui azione si dispiega utilmente” (8).
Naturalmente
i casi sono numerosissimi: in ognuna delle pietre che rientrano nella
sfera del mito e del sacro vi è, da parte dell’uomo, la volontà di
tracciare un legame con un passato che non si vuole considerare
completamente perduto e pertanto viene evocato attraverso il rito.
La
grande pietra è così segno di un eterno presente, garanzia di immortalità;
la sua mole e la sua forma personalizzano
l’ambiente e in certi casi l’antropomorfizzano, ma soprattutto lo
rendono luogo immutabile.
La
scelta di una pietra che sarà connotata con toni sacrali presenta alcune
peculiarità che, a una prima valutazione, sembrerebbero determinate da:
- forma
- colore
- origine
(presunta)
- collocazione.
Quasi
sempre queste peculiarità risultano strettamente connesse a riferimenti
di ordine mitico e di conseguenza considerate soprannaturali, comunque
fuori dalla norma, “altre”. Forti di tali caratteristiche, le pietre,
le rocce e i gruppi litici naturali sacralizzati, si trasformano in vere e
proprie protagonisti nelle varie culture in cui garantiscano la stretta
relazione tra naturale e soprannaturale. Nella coscienza collettiva,
forma, colore, origine e collocazione di queste pietre non sono mai
naturali, ma sempre determinate da fattori esterni, in genere connesse a
eventi straordinari.
L’impossibilità
di dare un senso a quanto viene considerato anomalo, che non può essere
“solo naturale”, ovviamente in relazione ai parametri degli
osservatori, determina la trasformazione di quel soggetto (per esempio un
masso posto in una posizione considerata “impossibile”) in qualcosa di
esterno, strettamente relazionato a personaggi e mondi lontani, nel tempo
e nello spazio. In questo modo, la litolatria conferma, nelle sue tante
forme (dal mondo antico fino alla tradizione folklorica), quanto forte e
radicato sia il valore sacrale attribuito alla pietra che,
paradossalmente, è un materiale di facile reperibilità e ampiamente
sfruttato nelle tecnologie del passato.
Nell’Antico e nel Nuovo Testamento
i riferimenti alla pietra nei suoi molteplici aspetti simbolici connessi
alla dimensione del sacro sono numerosi.
Oltre
alle numerose indicazioni pratiche relative all’uso della pietra (Levitico
14,54; Amos 5,11; Primo
Libro dei Re 6,7; 7,9; Neemia
3,35), nell’Antico Testamento troviamo tutta una serie di espliciti riferimenti
alle valenze sacrali della materia litica: uno tra gli esempi più
indicativi è certamente costituito dal sogno di Giacobbe (Genesi 28, 10-22).
Quando
Dio è partecipe diretto nell’esperienza umana, l’uomo lo celebra con
la pietra, poiché materia adatta a garantire l’immortalità. La
vittoria sui Filistei è consacrata da Samuele con l’erezione di una
pietra: “Gli uomini d’Israele, usciti da Mizpa, inseguirono i Filistei
e li batterono fin sotto Bet-Car. Samuele, prese una pietra, la drizzò
tra Mizpa e Iesana e la chiamò Eben-Ezer dicendo: Fin qui ci ha aiutato
il Signore” (Primo Libro di
Samuele 7, 11-12).
La
pietra è immortale, ma soprattutto è indenne dall’impurità e per
questa sua caratteristica risulta più adatta per essere posta a stretto
contatto con quanto appartiene al sacro. Per esempio, i recipienti per la
purificazione erano in pietra e non di argilla o di legno (Giovanni
2,6).
Ma
soprattutto, solo per restare in ambito giudaico, basti pensare alle
Tavole della Legge: “tavole di pietra, la legge e i comandamenti che ho
scritto per istituirli” (Esodo
24,12). In quelle tavole c’è la conferma della sacralità della pietra
riconosciuta da Dio, il quale per primo ha scritto su quel materiale atto
a confermare nel tempo, per sempre, le
sue regole. Nella pietra vi è Dio come si evince chiaramente nell’Esodo (17, 1-7) nell’episodio della roccia sull’Oreb dalla quale
sgorgò l’acqua per il popolo di Mosè.
Ma
la pietra da sola non poteva celebrare Dio, perché la stele poteva essere
impregnata di sacro secondo la concezione monoteista, ma nello stesso
tempo poteva essere espressione di rigurgiti pagani, e allora la pietra
eretta risultava in diretta relazione con il simbolo fallico, con il
conseguente richiamo alle divinità maschili, guerriere e sanguinarie.
Infatti, queste pratiche furono severamente vietate: “Non pianterai un
palo sacro di qualsiasi legno accanto all’altare del Signore tuo Dio che
ti sarai costruito; né erigerai una stele, che è in odio al Signore tuo
Dio” (Deuteronomio 16, 21-22).
A
tratti vi è quindi una certa ambiguità nel culto della pietra: ambiguità
che si esprime soprattutto nella costante tensione tra consentito e
vietato, all’interno del linguaggio cultuale del monoteismo. In pratica
il peccato è presente nella valenza fallica della pietra, quella che
viene posta in relazione al paganesimo.
Ne
consegue che la pietra è sacra, nella tradizione vetero e
neotestamentaria, quando è innalzata per celebrare Dio e assume funzione
di esprimere la divinità, perché in essa risiede lo spirito di Dio. La
pietra può anche essere allegoria della potenza divina: “Il Signore è
una roccia e una fortezza (…) una rupe in cui mi rifugio” (Secondo
Libro di Samuele 21,2).
Ma
la problematica separazione tra il complesso significato teologico e il
simbolismo fallico, non appare risolvibile sul piano della
rappresentazione, in particolare per quanto concerne l’ambito
archeologico, in cui la relazione tra reperti e testi non sempre è
facilmente individuale.
Nel
Nuovo Testamento la pietra diviene presenza necessaria sul piano
reale e su quello simbolico per la costruzione della Chiesa: ne abbiamo
traccia nella celebre affermazione di Cristo riportata nel Vangelo di Matteo: “Tu sei Pietro e su questa Pietra edificherò
la mia chiesa” (16,18).
La
pietra, in cui vi era Dio, adesso assume una valenza antropologicamente
coerente e si struttura nell’immagine della chiesa-edificio, metafora
per dare un luogo di riferimento all’opera di diffusione del Verbo.
In
genere, nel Nuovo Testamento il
termine pietra è spesso accompagnato da un aggettivo qualificativo e
risulta usato in riferimento a Cristo e in misura minore alla sua comunità,
la Chiesa. Nella maggioranza dei casi, i passi in cui si fa riferimento
alla parola lithos sono presenti
nei Sinottici in particolare Matteo. In alcuni casi Cristo è paragonato a
una pietra, come nel caso di Marco (12,10) che
rifacendosi ai Salmi
(118,22) indica Cristo come “pietra angolare”.
L’espressione
tenderebbe anche a rimandare all’immagine simbolica che si riferisce
all’architettura, trovando in questo ambito una chiara allegoria per
esprimere la forza di Cristo nell’unire gli uomini. Ne abbiamo una
conferma precisa con San Paolo quando, nella Lettera
agli Efesini, indica Gesù come colui che regge il tempio della fede:
“Il vostro edificio ha per fondamento gli apostoli e i profeti, mentre
Gesù Cristo stesso è la pietra angolare, sulla quale tutto l’edificio
in armoniosa disposizione cresce come tempio santo del Signore, in cui
anche voi siete incorporati nella costruzione come dimora in Dio nello
Spirito” (2,20).
Un
interessante riferimento al rapporto di Cristo con la pietra è
rinvenibile nell’episodio della tentazione: il diavolo esorta il Messia
a trasformare le pietre in pane (Matteo
4,3). Nel caso specifico non si tratta solo di un riferimento
all’analogia della forma esteriore esistente tra la pietra e il pane, ma
anche dell’influenza del mito greco secondo il quale dopo il diluvio,
gli uomini sarebbero nati dalle pietre che Deucalione aveva seminato. In
effetti, alcune tradizioni semitiche indicano la nascita dell’uomo da
una pietra.
Il
termine pietra, dal latino petra,
deriva dal greco, ma la sua etimologia è incerta e non si conosce con
precisione la genesi di questa parola così diffusa e ricorrente. A questo
punto, per avere una visione più ampia dei tanti significati della
pietra, sia nella sua implicazione con il sacro che in quelle esterne alla
dimensione del culto e del rito, scorriamo rapidamente alcune delle più
significative valenze che ha assunto nella tradizione. Pensiamo all’uso
che ne facciamo nel linguaggio quotidiano. Ogni giorno noi ci riferiamo ad
allegorie e metafore in cui sono contenute espressioni come: cuore di
pietra, metterci una pietra sopra, avere una pietra sullo stomaco, pietra
dello scandalo, ecc. ecc.
Nella
tradizione popolare, oltre il ricorso alle definizioni precedentemente
indicate, troviamo la “pietra gravida” (limonite) considerata un
talismano per assicurare una buona gravidanza; mentre la “pietra
latteriale”, nome dato ad alcune varietà di agata e calcedonio, avrebbe
la proprietà di favorire la secrezione del latte e garantire un buon
allattamento del neonato.
In
passato, nella medicina popolare e nella religiosità, erano piuttosto
diffuse le cosiddette “pietre del fulmine”: quasi sempre cuspidi di
freccia preistoriche montate a ciondolo e considerate resti lasciati dai
fulmini abbattutisi al suolo.
Una
collocazione a sé è dovuta alla Pietra filosofale. Si tratta dello
strumento primario all’interno della tradizione alchemica, che con le
sue proprietà soprannaturali avrebbe la funzione di garantire la
trasformazione di qualunque materiale impuro in oro.
La
Pietra filosofale rappresenta il fine ultimo dell’impresa alchemica:
naturalmente questo soggetto è stato interpretato attraverso varie chiavi
di lettura che vanno da quella esoterica a quella psicologica e
psicoanalitica. Se dal punto
di vista esoterico la Pietra filosofale costituisce la lapis
che consente, attraverso un percorso sostanzialmente magico, di
intervenire nell’inalterabilità della materia, da quello psicoanalitico
rappresenta la proiezione del traguardo rappresenta con l’ascesa
interiore condotta dall’uomo alla ricerca del proprio Io.
Concludiamo
queste righe soffermandoci brevemente sulla pietre meteoritiche che
assumono valenze soprannaturali perché provengono dal cielo e quindi
risultano manifestazione di una potenza “altra”, esterna e non
controllabile dall’uomo, anzi superiore a esso. In genere, sono avvolte
da regole e tabù che controllano i trattamenti sacrali a cui sono
sottoposte.
I
meteoriti presentano un’importanza particolare nella storia delle
religioni: tra gli esempi più significativi ricordiamo la “Pietra di
Pessinunte” (oggi Balhissar, in Turchia), immagine aniconica della dea
Cibele e portata a Roma nel 205 a.C. dove fu posta in un apposito tempio
preparato sul Palatino; la Ka’bah
della Mecca.
Lo
studio delle incisioni rupestri, di qualunque parte del mondo, consente di
ripercorrere le varie fasi di un linguaggio attraverso il quale l’uomo
ha cercato di comunicare con gli altri uomini e probabilmente con la
divinità. Scene di caccia, di agricoltura, di vita domestica e di
battaglia, oltre a un ampio complesso figurativo che potrebbe essere
connesso al rito e alla religione, sono tematiche ricorrenti tra i
soggetti realizzati sulle pietre dalle ultime fasi del Paleolitico fino a
tutta l’Età del Rame e del Bronzo. Di fatto costituisco la più
emblematica espressione del bisogno dell’uomo della preistoria di
“raccontare” la propria esistenza. Forse di pregare.
L’attestarsi
di civiltà provviste di scrittura produsse un repentino rallentamento
dell’arte rupestre che, in breve tempo, divenne una forma di
comunicazione sempre più rara, senza comunque scomparire definitivamente.
Infatti, parte del patrimonio simbolico di quest’arte è ancora oggi
vivo nel folklore e nella tradizione (9).
In
generale, lo studio di queste testimonianze permette non solo la
conoscenza della cultura della preistoria nelle sue numerose espressioni,
con particolare riferimento alla spiritualità, alla tecnologia e alla
micro-quotidianità, ma consente anche di porre in rilievo la ricaduta di
questo patrimonio grafico nel folklore moderno. Infatti, le rocce sulle
quali sono presenti incisioni rupestri molto spesso sono entrare a far
parte della tradizione popolare e inserite in credenze, rituali e
interpretazioni mitiche. Si passa dalla toponomastica (una roccia con
incisioni, non necessariamente preistoriche, spesso è indicata con
“Pietra del diavolo”, “delle streghe”, “dei folletti”, ecc.)
alla ritualità diretta (inserimento di offerte all’interno delle cavità
litiche in occasione di festività cristiane, o pagane reinterpretate),
fino alla continuazione della pratica di incidere sulle grandi pietre
segni di vario tipo, poiché azione di buon auspicio, o comunque quasi
sempre caratterizzato da una base mitica.
Oggi
lo studio dell’arte rupestre preistorica e protostorica non può fare a
meno di considerare le implicazioni etnografiche, tenendo così conto
delle relazioni con la cultura locale e le connessioni con il piano della
religiosità e della mitologia.
L’argomento
è sconfinato e soprattutto non può essere affrontato in modo generico,
poiché l’arte rupestre non è una manifestazione a sé stante, ma si
collega, attraverso molteplici canali, a tutta una serie di ambiti della
cultura dell’uomo, in passato come oggi (10).
“Le
incisioni rupestri, le pitture parietali, in tutte le categorie figurative
e nelle diverse realizzazioni tecniche, le opere d’arte mobiliare, le
espressioni decorative caratterizzanti anche oggetti e strumenti d’uso
comune, i disegni e i colori che ornano le pareti di una capanna, i corpi
degli iniziandi o dei partecipanti a diversi tipi di cerimonie, ed i
semplici disegni tracciati nel fango o nella sabbia o quelli che
caratterizzano pelli, stoffe o cortecce, sono solo l’apparente di realtà
molto complesse e profonde che a noi sembrano oggi in alcuni casi palesi,
leggibili ed interpretabili, ma che invero sono da noi lontane e spesso
incomprensibili nella loro reale essenza” (11).
Fatte
le dovute distinzioni tra incisioni figurative e non figurative,
nell’arte rupestre preistorica possono essere individuati alcuni temi
iconografici e modelli ricorrenti. Ricordiamo i principali, tenendo conto
che non è possibile effettuare un elenco completo, in quanto possono
essere presenti alcune formule originali e caratteristiche di un sito ma
assenti in tutti gli altri:
Ø
coppelle (12)
Ø
coppelle con canaletti
Ø
affilatoi
Ø
crociformi
Ø
circolari
Ø
spiraliformi
Ø
labirinti
Ø
impronte (mani; piedi)
Ø
simboli sessuali
Ø
geometrici (reticoli, filetti, complessi)
Ø
armi
Ø
strumenti e utensili
Ø
animali
Ø
animali associati all’uomo (agricoltura, caccia, altro)
Ø
abitazioni
Ø
imbarcazioni
Ø
carri
Ø
attività agricola
Ø
attività venatoria
Ø
attività lavorativa (esclusa agricoltura e caccia)
Ø
attività bellica
Ø
antropomorfi: mascheriformi; schematici; articolati;
mostruosi.
All’interno
di una valutazione etno-archeologica vanno considerate anche alcune
relazioni tra l’incisione rupestre e il contesto:
ü
posizione rispetto al sito antropizzato (preistorico e/o
moderno) (13)
ü
caratteristiche della geomorfologia
ü
rapporti con le vie di comunicazione
ü
patrimonio mitico locale
ü
persistenza di tradizioni rituali nella cultura locale.
Sulla
base delle attuali conoscenze, provenienti dall’osservazione statistica
delle incisioni documentate, è possibile constatare che la maggior parte
di questi segni è collocata nei pressi di vie di transito
(sentieri-mulattiere). Per gli esperti questa relazione, “prescindendo
ancora una volta da ipotesi di attribuzione del significato che potrebbe
suggerire una funzione di segno territoriale o di percorso, tale rapporto
testimonia come minimo la persistenza nel tempo di determinate vie di
comunicazione montane, e la loro notevole capillarità, vista la grande
quantità di incisioni rupestri” (14).
Si
tratta di un’indicazione importante, anche se certamente non risolutiva:
la collocazione delle incisioni rupestri nei pressi delle vie di transito
può indicare la necessità di “far vedere” l’incisione, al di là
del suo effettivo significato.
Tralasciando
le abusate identificazioni di tradizione romantica, tanto care alla
fanta-archeologia, che legano massi e pietre con incisioni al sacrificio,
al culto cruento, fino agli extraterrestri, sembrerebbe comunque evidente
una relazione tra soggetto inciso e il posizionamento del supporto litico,
anche se non costituisce un dato assoluto.
La
questione assume toni ancora più problematici se si considera la
difficoltà di stabilire una collocazione cronologica precisa: infatti,
spesso viene usato senza la dovuta cura l’aggettivo “preistorico”;
si tratta di un errore filologico grave poiché non tutte le incisioni
rupestri sono preistoriche e, soprattutto, spesso non è possibile
datarle. Ciò è dovuto a una serie di motivazioni:
- la
pietra non può essere sottoposta a esami come i reperti organici
- quanto
le incisioni rupestri presentano peculiarità che potrebbero
collocarle in ambito preistorico, mancano apporti di tipo archeologico
(scavi, reperti, ecc.) che consentirebbero di fissare alcuni punti
fermi di tipo cronologico e culturale
- alcuni
“tipi” e “segni” rinvenibili nell’arte preistorica, sono
entrati a far parte dell’apparato simbolico delle culture
successive, spesso senza soluzione di continuità
- le
incisioni rupestri sono presenti in piccoli gruppi, prive di elementi
di contesto” che possono facilitarne l’interpretazione a 360
gradi.
Oggi
gli studiosi, anche con il contributo di ampie campionature, cataloghi e
schedature, sono nella condizione di effettuare confronti tipologici che
consentono di stabilire legami e modelli, pur senza raggiungere, salvo
pochi casi, una certezza assoluta.
Da
sempre, relazionate al mito e alla religiosità, le incisioni rupestri
sono una presenza che è parte integrante della cultura popolare. Quei
“segni strani” hanno accompagnato l’uomo dall’alba dei tempi, che
li ha trovati nella propria realtà, pur senza conoscerne l’origine:
spesso si è limitato a considerarli tracce legate al mondo occulto, al
paganesimo.
Solo
nella metà del XVII secolo le incisioni rupestri sono entrate a far parte
della storia ufficiale: è Pietro Gioffredo, autore di Monumenta
historiae patriae, che dopo aver visitato l’area del Monte
Bego, scrisse alla moglie una lettera (1650) in cui descriveva le
incisioni come rappresentazioni demoniache, determinando un’immagine
destinata a perdurare per molto tempo nell’immaginario collettivo.
Lo
studio scientifico dell’arte rupestre inizia due secoli dopo, sempre
nella stessa area, con Clarence Bicknell; dai primi del Novecento vi sarà
un crescendo di ricerche e studi che via via contribuiranno a creare un
nuovo e affascinate segmento dell’archeologia preistorica.
La
maggiore concentrazione di incisioni rupestri si registra nell’Italia
Settentrionale, in particolare nell’area alpina, dove vi sono due siti
con migliaia di opere del genere: la Val Camonica e la Valle
delle Meraviglie.
Grotta
dell'Addaura (Sicilia)
“Esiste
una stretta connessione tra sviluppo della abilità pratica in una
particolare industria e attività artistica. L’arte ornamentale, in
particolare, si è sviluppata proprio in quelle industrie in cui si è
raggiunta una grandissima abilità, perché, produzione artistica e abilità
sono strettamente correlate” (15).
La
precedente osservazione di Franz Boas, uno dei maestri dell’antropologia
moderna, ci sembra idonea per sottolineare un aspetto non sempre valutato
con la dovuta attenzione: la stretta relazione che regola l’arte
rupestre alla tecnologia.
Partendo
dal presupposto che questo genere di pratica presenta due tipologie
fondamentali (figurativa e non figurativa), dobbiamo tener conto che non
tutte le espressioni di questa arcano fenomeno del linguaggio sono uguali
sul piano della tecnica esecutiva. Sono infatti sostanzialmente quattro le
tecniche identificate:
o
pittura
o
incisione
o
graffito
o
picchettatura.
Pur
non entrando nel merito degli aspetti eminentemente tecnici, sui quali non
possediamo le necessarie conoscenze, ma che possono essere conosciuti
attraverso gli studi di specialisti qualificati (16), ci limitiamo ad
alcune osservazioni generali sul background tecnico e culturale
dell’arte rupestre:
ü
scelta della superficie
ü
scelta del soggetto da raffigurare
ü
tipologia degli strumenti utilizzati
ü
tecnica adottata
ü
tempo richiesto
ü
posizioni e movimenti dell’esecutore.
Ausilio Priuli, uno dei maggiori esperti di arte preistorica, ha proposto
una serie di tipologie esecutive che costituiscono un panorama ampio, in
grado di raccogliere sostanzialmente tutte le tecniche di lavorazione:
Ø
tracciati digitali: segni realizzati con le dita
sull’argilla, o con le mani coperte di colore: si tratta di una
tipologia maggiormente presente nell’arte paleolitica in grotta
Ø
graffiti filiformi
Ø
graffiti ripetuti
Ø
incisioni per picchettatura
Ø
incisioni per raschiatura
Ø
incisioni per intaglio
Ø
incisioni a percussione diretta
Ø
incisioni a percussione indiretta.
Va inoltre considerato che le incisioni rupestri possono essere realizzate
con strumenti di pietra o di metallo: evidentemente i risultai saranno
diversi. Nel primo caso le picchiettature dell’incisione saranno
variabili in relazione alle trasformazioni subite dallo strumento nel
corso dell’uso; nel secondo caso le picchiettature presenteranno una
sezione costante.
Fatte
queste generali e superficiali osservazioni di ordine tecnico, ritorniamo
ad occuparci degli aspetti culturali che contrassegnano l’arte rupestre.
A
livello generale, non dobbiamo mai dimenticare che il significato di uno o
più segni non è costante nel tempo e nello spazio: ciò costituisce
un’ipoteca pesante per l’interpretazione e che non può prescindere
dalla conoscenza del contesto culturale in cui quel segno è stato
realizzato. Soprattutto,
devono essere considerate le implicazioni di ordine antropologico, che di
fatto sono quelle destinate ad accrescere le nostre conoscenze ed a
suggerire ipotesi per collegare il passato con il presente.
Dobbiamo
poi considerare che quando gli antropologi parlano di incisione rupestre
danno alla definizione un’estensione più ampia di quella esclusivamente
archeologica: infatti considerano arte rupestre non solo le pitture e le
incisioni presenti sui massi e affioramenti, ma anche segni su elementi
architettonici e altre strutture in pietra inserite all’interno di uno
spazio antropizzato. Spesso sono proprio questi segni a possedere notevoli
valenze di ordine etnografico che consentono importanti valutazioni sul
piano storico e culturale.
Su
questa linea di pongono altre fonti di rilevante interesse.
Le prime sono contrassegnate da una sorta di continuità segnica:
vale a dire la persistenza di motivi grafici e di varia forma presenti
nell’arte geometrica più antica ed entrati a far parte del patrimonio
simbolico del folklore.
Le
seconde sono invece le fonti letterarie: in genere di tradizione
cristiana, nelle quali uomini di Chiesa, nell’altomedioevo, prendevano
posizione nei confronti delle varie forme di saxorum veneratio fino
a considerare queste pratiche culto del diavolo l’iscrizione sulla
pietra era forse la manifestazione più tollerata, mentre erano
sottoaccusa soprattutto i vari tipi di culto praticati sui massi erratici
e sui megaliti (17).
Osservando
globalmente l’attuale patrimonio culturale costituito dalle
testimonianze rupestri che non fanno parte dei grossi complessi,
costatiamo che le incisioni appaiono spesso isolate o in piccoli gruppi;
si tratta quindi di definire una metodologia di studio, ma anche di
semplice osservazione, scevra dalle influenze dei miti moderni e che tenga
conto:
ü
degli aspetti tecnici già indicati
ü
della variabilità del segno (naturale o dovuto a
sovrapposizioni in periodi storici diversi)
ü
delle implicazioni culturali locali che possono aver
determinato la realizzazione
di varie forme di arte rupestre, la loro alterazione e/o continuazione nel
tempo.
Una attenzione del tutto particolare deve essere rivolta alle implicazioni
folkloriche: in questo senso sono di grande interesse gli aspetti
toponomastici. Infatti, spesso le superfici istoriate sono contrassegnate
da nomi che le pongono in relazione all’universo mitico e fantastico
della cultura in cui sono presenti. Le fonti di carattere toponomastico
vanno comunque considerate cum grano salis.
Va
quindi osservato che la specifica toponomastica non è conferma del
coinvolgimento di quella pietra, da tempi lontanissimi, nell’universo
mitico locale. Infatti, può trattarsi di nomi di origine recente, anche
molto recente, frutto dell’enfasi contemporanea.
Più
credibili quei toponimi che si riferiscono alle peculiarità fisiche o
funzionali delle rocce, tipo: “Pietra forata”, “Pietra marcia”,
“Pietra della vergogna”, ecc.
L’analisi toponomastica può essere condotta cercando di non limitarsi
a un metodo analitico legato a uno specifico campo d’indagine, poiché,
oggi, uno studioso “a meno che gli non sia piuttosto privo di
immaginazione, non può rimanere indifferente agli interessi reciproci che
legano la linguistica all’antropologia e alla storia della cultura, alla
sociologia, alla psicologia, alla filosofia e, più lontana, alla fisica e
alla fisiologia” (18).
Se
ci soffermiamo rapidamente ad osservare i legami immaginati tra le
testimonianze dell’arte rupestre, figure e fatti mitici del folklore
nostrano, incontriamo una serie di temi ricorrenti che ci consentono di
indicare un’incisione come: traccia del diavolo; solchi di carri
lasciati da figure mitiche, comunque molto lontane nel tempo, tracce
attribuite a streghe, fate, folletti, ecc.; tracce attribuite agli
eretici; “sedili” della Madonna e santi di passaggio; impronte della
Madonna, santi e vari personaggi del Nuovo Testamento; tracce di martiri:
segni del loro passaggio o macchie che ne testimoniano il martirio; quando
i segni sono cruciformi vengono attribuiti ai santi di passaggio, in
alcuni casi famosi; tracce di personaggi storici.
Per
una visione più ampia del bacino culturale dell’incisione rupestre è
fondamentale considerare:
- posizione
rispetto al centro abitato
- situazione
geomorfologia locale
- patrimonio
mitico locale
- livello
di convivenza, nelle forme mitico-rituali locali, tra precristiano e
cristiano
- rapporti
con le vie di transito
- persistenza
di motivi e temi dell’arte rupestre nella tradizione decorativa
agro-pastorale.
Globalmente,
il patrimonio costituito dall’arte rupestre dimostra la propria
complessità epistemologica: complessità che, ancora oggi, malgrado le
importanti acquisizioni dell’indagine scientifica, è oggetto di accesi
dibattiti su vari fronti.
Va
inoltre considerato che molte teorie che prendono in esame il significato
dell’arte rupestre si soffermano soprattutto sulle sue implicazioni di
ordine magico-religioso. Spesso l’osservazione di questo esclusivo
ambito, per quanto importante, ha posto in rilievo prevalentemente gli
aspetti più eclatanti di questa espressione della cultura, quelli colmi
di quel simbolismo che dall’universo visionario romantico sono passati
alla New Age.
Partendo
da un assunto di Karl Popper, “il progresso della conoscenza consiste
principalmente nella modificazione delle nostre conoscenze precedenti”
(19), giungiamo alla conclusione che l’arte rupestre non può essere
circoscritta a una sola teoria o a un ristretta cerchia di funzioni.
Inoltre, riprendendo ancora Popper, possono esserci grandi differenze tra
quanto pensiamo dell’arte rupestre e quanto effettivamente “fu” ed
“è”; ma soprattutto non dobbiamo dimenticare che il suo significato,
pur accettando l’universalità di un segno e avendo presente le teorie
sugli archetipi, non è strato sempre uguale: “anche se qualche volta,
ad esempio in archeologia, può darsi che si progredisca grazie ad
un’osservazione casuale, il significato della scoperta dipenderà di
solito dal suo potere di modificare le nostre teorie precedenti” (20).
Nella
sostanza, le certezze sul ruolo e il significato dell’arte rupestre
possono essere oggetto di parziali riletture e interpretazioni. Forse
anche queste sue peculiarità contribuiscono ad assegnarle quei toni e
quell’aura un po’ misteriosa che, ancora oggi continuano ad
affascinarci.
Valcamonica
(Brescia, Lombardia)
Con
coppella si intende una cavità di varie dimensioni scavata su rocce
isolate, più raramente è presente nei pressi delle abitazioni, sui
muretti a secco e in qualche caso direttamente sui gradini delle case
contadine.
Il
problema sul loro significato sviluppa la seguente domanda: le coppelle
ebbero una funzione simbolica, connessa al rito e al mito, oppure svolsero
un ruolo pratico ben preciso?
Inoltre,
il linguaggio criptico che nasce dalla presenza di più coppelle su un
identico piano, rende difficile un’interpretazione oggettiva e offre il
fianco a molteplici illazioni. Illazioni che aumentano a dismisura quando
le coppelle sono collegate da canaletti scavati nella roccia, dando così
forma a un complesso grafico che è stato indicato come improbabile carte
celeste o mappe topografica. È stata anche suggerita l’ipotesi che i
grandi massi con coppelle fossero una sorta di altare destinato ai
sacrifici: cavità e canaletti si sarebbero colmati con il sangue delle
vittime immolate a qualche oscura divinità. Anche questa è
un’interpretazione che ha pesantemente risentito dell’influenza
romantica, sempre ben disposta ad ammantare con l’aura del mito i
documenti archeologici meno conosciuti. È possibile che le coppelle
fossero realizzate con funzione apotropaica e protettiva; al momento non
vi è però un’interpretazione unica condivisa da tutti gli studiosi.
In
generale gli studiosi sono concordi nell'identificare nella coppella un
significato principalmente rituale e religioso; ma non mancano ipotesi
tendenti a considerare le rocce con coppelle delle raffigurazione
topografiche o mappali.
Vi
è chi considera le coppelle una forma “secondaria” di incisione
rupestre: ciò è determinato soprattutto dal fatto che queste
realizzazioni risalgono anche a periodi recenti; inoltre, vi è possibile
che alcune forme naturali di erosione siano confuse con le coppelle.
Osservando globalmente queste
realizzazioni, constatiamo che spesso si tratta di incisioni poste in
gruppo, sono infatti più rare le coppelle singole, cioè non inglobate
all’interno di un complesso grafico più ampio.
L’elemento
eminentemente archeologico risulta qui spesso di minore importanza
rispetto a quello etno-antropologico: infatti il loro senso si inquadra
all’interno di un progetto culturale per noi in gran parte sconosciuto,
ma tendenzialmente ascrivibile alla sfera rituale.
Le
coppelle più antiche appartengono al Musteriano e sono state ritrovate in
Francia, a La Ferrassie, sulla pietra di copertura di una tomba infantile.
Vi sono poi quelle che datano al massimo un secolo e sono il frutto di
operazioni apotropaiche di pastori e contadini locali. Era infatti diffusa
la credenza che attribuiva ai massi coppellati il ruolo di
“parafulmine”: la grande e naturale scarica elettrica si sarebbe
infatti abbattuta con tutta la sua forza sui massi contrassegnati da
quelle incisioni, risparmiando così quanto vi era intorno.
Risulta
evidente che per provare a farsi un’idea realistica del potenziale
utilizzo della coppella, è necessaria un’analisi calata nelle singola
realtà e non condizionata dal desiderio di giungere a una interpretazione
unitaria applicabile globalmente.
Osservando
in panoramica le rocce con coppelle, possiamo suggerire una prima
suddivisione tipologica:
- coppella
singola
- coppelle
multiple (disposte senza un’apparente regola, che sembra seguire
un’impostazione grafica determinata)
- coppelle
multiple collegate con canaletti
- coppelle
“a vaschetta” (in genere di forma rettangolare)
- coppelle
a raggiera
- coppelle
con annesse incisioni cruciformi
- coppelle
associate ad altre incisioni rupestri.
Può
capitare con frequenza di trovare coppelle su massi situati in ad aree di
culto cristiano: non sempre è possibile stabilire se quelle iscrizioni
sono precedenti o successive alla realizzazione del complesso religioso.
Tra
i primi studi scientifici sulle coppelle va posto quello di Antonio Magni
che, nel 1901 (21),affrontò sistematicamente l’argomento, cercando di
gettare le basi per una prima razionale interpretazione di queste
singolari incisioni rupestri.
Magni
indicava come il fenomeno fosse ampiamente documentato nel tempo e nello
spazio (relativamente alla quantità di siti allora noti) chiarendo:
“Sono chiamate in Italia le pietre a scodelle a piacimento: pietre
cupelliformi, cupellari, cupellizzate, scudellati, a bacini”. Quindi lo
studioso poneva in rilievo la caratura mitica che le contrassegnava nelle
varie località in cui erano presenti: “pietre dei pagani, dei druidi,
delle fate, dei piccoli (anime dei morti)”.
In
seguito venivano posti in rilievo i diversi significati attribuiti a
queste specifiche espressioni dell’arte rupestre, significati ancora
oggi spesso evocati quando si cerca di capire “che cosa intendessero
dire” gli autori di quelle singolari realizzazioni:
ü
raffigurazioni di “costellazioni”
ü
carte topografiche
ü
simboli legati a culti funebri
ü
raffigurazioni di greggi
ü
raffigurazioni di gruppi familiari
ü
“prodotto dell’ozio dei popoli”.
Alcune delle ipotesi suggerite da Magni sono oggi completamente
abbandonate in ambito scientifico; lo studioso poneva in rilievo un
aspetto importante: la persistenza, fino a tempi recenti, di rituali della
tradizione popolare europea aventi come elemento simbolico la coppella. Ciò
sarebbe evidente in particolare nella documentata pratica folklorica, che
prevede il riempimento di quelle cavità con olio, grasso e altri
materiali infiammabili: quindi l’accensione in alcuni periodi
dell’anno (in particolare in occasione della feste dedicata ai defunti).
Indubbiamente
non è senza significato che in alcune culture, le coppelle abbiano
mantenuto un peso rilevante nella tradizione popolare, anche se ciò non
costituisce una “prova” del loro ruolo nelle culture più antiche,
rappresenta comunque un indice etnografico significativo.
Se
osserviamo in panoramica gli studi che direttamente o indirettamente
trattano le coppelle, siamo colpiti dalla grandissima quantità di ipotesi
sul loro significato e funzione, via via proposto dagli studiosi. Alcune
sono chiaramente fantastiche, altre, pur partendo da una base razionale
(registrazione di persone e animali) risultano difficilmente situabili in
una teoria applicabile globalmente.
Se
ci basiamo sugli studi scientifici a noi noti, possiamo ipotizzare due
grandi ambiti interpretativi:
Ø
funzione e significato rituale
Ø
funzione atta a segnare, indicare.
Nel primo ambito possiamo solo supporre il tipo di ritualità che potrebbe
aver caratterizzato quelle singolari realizzazioni nel passato remoto,
anche se sono praticamente inesistenti le fonti antiche in grado di
fornirci informazioni in questo senso.
Abbiamo
invece testimonianze etnografiche che certificano l’inserimento della
coppella (senza considerare la datazione) nella cultura popolare. In
alcuni casi l’inserimento è documentato dalla toponomastica (Pietra
delle fate, della strega, degli elfi, ecc.); nell’altro da tutta una
serie di pratiche rituali che si esprimono con molteplici attività.
Impossibile elencarle tutte, poiché assumono caratteristiche diverse in
relazione all’area geografica. Si passa dalla raccolta di offerte nelle
cavità litiche per celebrare festività del calendario cristiano, a
pratiche superstiziose e connesse alla medicina popolare (per esempio
considerare terapeutica l’acqua piovana fermatasi nella coppella).
Nel
secondo ambito, la funzione della coppella è quella di indicare: i massi
con queste incisioni sarebbero un sistema quasi “anagrafico”, oppure
parte di un complesso più ampio che nell’insieme costituisce una sorta
di mappa topografica. Indubbiamente ipotesi affascinanti, anche se
difficilmente verificabili sul territorio a causa delle modificazioni
subite nel tempo dall’ambiente.
Appare
comunque arduo attribuire tout court
di massi coppellati una funzione “topografica”; risulta ragionevole
ipotizzare più di una funzione.
È altresì importante tener conto - sulla base delle ricerche condotte
dagli archeologi - della possibilità di individuare una base cronologica
in riferimento alla tipologia dell’incisione: “coppelle piccole, poco
profonde, prive di canaletti, a sezione spesso subsonica sono
frequentemente attestate in contesti di presumibile datazione al Neolitico
avanzato-finale (…) mentre coppelle profonde a forte martellinatura,
talvolta levigate, con sezione a U appaiono in contesti nettamente della
prima età del Ferro (..) o in aree elevate di abitati della seconda età
del Ferro (…) in questo caso in associazione spesso a canaletti e
vaschette e per lo più con dimensioni molto larghe, sezione a spigolo
vivo, forma cilindrica precisa e rifinita con un levigatolo in pietra
(…) sembra evidente che la frequente attestazione delle coppelle in
assenza di incisioni figurative in momenti in cui si conoscono stili
definiti di arte rupestre anche nelle nostre zone, non può non essere
legata ad un significato e ad un carattere particolari delle rocce a
coppelle, probabilmente evolutosi nell’ampio arco di tempo in cui queste
risultano attestate” (22).
Fenestrelle (Piemonte)
Cosa
ci dice un’incisione rupestre? Quali erano le aspettative di chi l’ha
realizzata? E ancora: in che misura il nostro concetto di “preistoria”
è allineato al senso originale dato a quell’opera da chi l’aveva
realizzata?
Queste
sono alcune delle domande a cui cercheremo di trovare una o più risposte,
provando a suggerire delle piste di lettura, non necessariamente le
uniche, ma comunque utili per avvicinarsi all’argomento. Inoltre, va
tenuto conto che l’apparente semplicità del significato dell’arte
rupestre è problematizzata dalla notevole differenza culturale e
temporale, tra chi ha realizzato l’incisione e chi la osserva. Ciò pone
una seria ipoteca per la lettura dell’iconografia, anche quando è
basata su una segnica elementare.
Se
azzardiamo una comparazione, possiamo provare a guardare in direzione di
quella cultura che generalmente definiamo “primitiva” o
“selvaggia”, dove spesso le pittografie hanno una funzione mnemonica:
servono, per esempio, a ricordare i canti tradizionali; ci sono culture in
cui i segni possono anche interagire con le parole cantate o dette dagli
sciamani all’interno del rito. Saperle decodificare corrisponde a
manifestare un potere, possibilità e capacità straordinarie che sono
fornite dalla comunità o dagli antenati.
All’intermo
del processo esecutivo e poi interpretativo, sono almeno due le fasi
fondamentali: “la prima riguarda il passaggio dalla presa di coscienza
del significato di un segno, di un’orma, dell’evidenza di qualche
avvenimento verificatosi, all’azione cosciente di eseguire un segno per
trasmettere volontariamente un messaggio. La seconda fase riguarda il
passaggio dell’esecuzione di segni le cui forme sono imposte dalla
natura, a quella di segni elaborati dall’uomo, che siano essi imitazioni
di realtà naturali o segni inventati” (23).
Molte
di queste opere risultano spesso un vero e proprio incitamento al
relativismo culturale, ponendosi come esempi particolarmente indicativi di
un assunto basilare dell’antropologia culturale: “l’idea che la
varietà di usi e costumi rilevati nel corso della storia e tra le
differenti popolazioni non permetta di individuare un’unica scala di
valori o una evoluzione lineare e necessariamente valida per tutte le
società e, di conseguenza, non permetta di assegnare a una o più realtà
socio-culturali una particolare importanza e rilevanza a confronto con le
altre” (24).
Continuando
a riferirsi ad alcuni elementi basilari dell’antropologia, possiamo
osservare che per quanto riguarda l’arte rupestre, nelle sue peculiarità
simboliche e anche estetiche, non vi è nulla in tale manifestazione della
creatività che consenta di inserirla in modo verificabile in un ordine di
tempo evoluto.
Nel
nostro caso, neppure il concetto di “stile” è garanzia di originalità
assoluta. Infatti, anche se questo concetto viene spesso usato
arbitrariamente, nell’arte rupestre (quella cronologicamente posta dalla
fine del Neolitico all’epoca moderna) lo “stile” è un valore
culturale, che però non consente di definire criticamente la personalità
dell’esecutore, le sue istanze e il modo in cui una certa opera era
considerata dalla società (25). L’analisi è di grande interesse e si
orienta soprattutto un direzione della figure antropomorfe, quelle che,
per ovvi motivi, meglio si prestano ad un’analisi di tipo stilistico.
M.
Baxandall, che si riferiva a un periodo più recente (XV secolo), chiariva
che nell’identificazione del significato di un’opera è necessario
tener conto dell’“occhio del periodo”. Con questa definizione
intendeva l’esperienza culturale in base alla quale un osservatore
“capisce” e interpreta una determinata opera della creatività coeva.
Infatti, anche se sorretta da un apparato fisiologico comune, l’abilità
visiva (di chi esegue e di chi guarda) è fortemente correlata
all’esperienza di chi analizza (26).
Non
dimentichiamo che le modalità dello sguardo (attività percettiva) e
dell'osservazione (attività culturale), artefici dell'elaborazione e
delle interpretazioni, occupano un ruolo fondamentale nella cultura
occidentale contemporanea, solidamente basata sull'immagine e sulla
visione. In effetti senza tecnica d'osservazione, senza strategia
dell'occhio, senza prammatica della facoltà visiva, il soggetto osservato
non può comparire, né divenire oggetto di conoscenza.
Se
proviamo, forse un po’ arbitrariamente, a trasferire, le
puntualizzazioni di Baxandall nell’ambito che qui ci interessa possiamo
provvisoriamente suggerire che per mettere a fuoco il “significato”
dell’arte rupestre è necessario conoscerne le tre dimensioni basilari:
·
dimensione esegetica (cosa si crede rappresenta)
·
dimensione comportamentale (l’atteggiamento di chi vive
nell’area in cui è presente la testimonianza artistica)
·
dimensione vocazionale (come quell’opera è correlata
all’ambiente).
Pur
senza aver la presunzione di suggerire analisi superiori alla nostra
portata, crediamo possa essere utile mettere in campo anche un aspetto più
tecnico, ma sicuramente non privo di stimolanti occasioni di
approfondimento. Ci riferiamo alla possibilità di “leggere” l’arte
rupestre valutandone le peculiarità semiotiche.
Partiamo
da un assunto semplicissimo: un’incisione o una pittura rupestre sono
dei segni. Un segno è costituito da significante e significato che
esprimono:
significante:
piano d’espressione
significato:
piano di contenuto.
L’arte
rupestre è quindi il significante, mentre ciò che rappresenta (sul piano
astratto) è il significato, in parole povere: “cosa vuol dire”…
Ma
ciò che dice non è solo legato al significante in sé, ma soprattutto al
background culturale di chi osserva. Ne consegue quindi che un identico
significante può avere diversi significati in relazione al contesto e
alla cultura in cui si trova inserito. È emblematico il caso della croce:
se nella tradizione cristiana quel segno contiene un significato
strettamente connesso al culto, nella preistoria, o comunque in epoca
precristiana, quel segno svolgeva certamente una funzione diversa:
probabilmente era la schematizzazione dell’antropomorfo.
Il
“segno incisione rupestre” si inserisce, “a seconda degli autori, in
una serie di termini affini e dissimili: segnale, indice, icona,
simbolo” (27).
Non
entriamo troppo nella questione poiché si tratta di argomento molto
tecnico che impone un tipo di analisi che non può essere affrontato in
queste pagine. Comunque aggiungiamo alcune riflessioni che possono essere
d’aiuto a quanti, non esperti, intendano avvicinarsi all’arte
rupestre, non solo con l’occhio curioso, ma anche tenendo conto dei
metodi dell’antropologia applicata all’arte. Poniamo quindi in
evidenza alcuni punti salienti:
segno:
costituisce un’entità definita che in una cultura (sistema)
secondo regole definite (codice) produce comunicazioni relazionando
elementi dal piano dell’espressione (significante)
e del piano del contenuto (significato).
La
precedente schematizzazione ci consente di aver le idee più chiare, perché
pone in campo due parametri fondamentali (sistema e codice) che risultano
determinati per condizionare il significato di un segno in relazione al
contesto storico e geografico.
Risulta
chiaro quindi che il rapporto tra significante e significato, quando ci si
avvicina a segni culturalmente e cronologicamente lontani da chi osserva,
come può verificarsi per l’arte rupestre, non possono essere valutati
considerando sistemi e codici coevi all’osservatore, ma è necessario
cercare, per quanto possibile, risalire a quelli della cultura del segno o
del sistema di segni osservati.
Il
discorso si problematizza se si tiene conto della relazione tra un
significante e altri significanti, o tra un significato e altri
significati. Il rapporto si definisce su due piani:
realizzazione
del segno (combinazione di elementi culturali)
fruizione
del segno (analisi degli elementi culturali)
realizzazione
del segno (combinazione di elementi culturali)
fruizione
del segno (classificazione degli elementi culturali; rinvio al sistema).
Come si noterà, nel primo caso, il segno (in preesentia) è fruito
epidermicamente senza tener conto, come invece avviene nel secondo caso (in
absentia), del sistema che lo regola (considerato però nella sua
giusta prospettiva storica o culturale).
Senza
spingersi oltre nella valutazione delle implicazioni semiotiche
dell’arte rupestre, crediamo possa essere ancora utile chiarire il ruolo
di alcuni termini che, in particolare quando si tratta di iconografia,
ricorrono spesso: icona, indice, simbolo.
Questa
le definizioni secondo G.P. Caprettini: “l’icona è un segno che è
fondato anzitutto sulla similitudine tra il suo significante ed il suo
significato; per esempio la rappresentazione di un animale e l’animale
che si vuole rappresentare; l’indice è un segno che è fondato
anzitutto sulla contiguità naturale tra il suo significante ed il suo
significato; per esempio, il fumo è indice di fuoco: chiunque vede quel
fumo, qualunque sia l’interpretazione di quel fumo, inferisce
l’esistenza del fuoco (…) il simbolo è un segno che è fondato
anzitutto sulla contiguità istituita, appresa tra significante e
significato; tale connessione consiste nel fatto che essa forma una regola
e non dipende dalla presenza o dall’assenza di alcuna
similitudine o contiguità di fatto di qualsiasi tipo” (28).
Se
teniamo conto della teoria dell’informazione, constatiamo che l’arte
rupestre risulta un sistema di comunicazione spesso ambiguo, perché in
molti casi non possediamo le conoscenze
necessarie per risalire né al sistema né al codice che furono
humus sul quale quel segno diffuse il proprio significato. Per fare in
modo di ridurre questo rischio, possiamo avvalerci di un metodo
comparativo, ma solo se calibrato sui base storico-archeologica precisa e
verificata, in caso contrario il rischio è di raggiungere conclusioni del
tutto prive di valore scientifico. Azzardi in questo senso sono stati
condotti, in particolare in ambito etnologico, nel passato, conducendo
fuori strada la ricerca antropologica per farla arenare tra le secche di
un comparativismo sterile.
Al
cospetto di un esempio di arte rupestre, è quindi necessario osservare il
prodotto della nostra analisi da due punti di vista, archeologico e
antropologico:
Ø
conoscenza del sito
Ø
conoscenza tecnica del corpus iconografico
Ø
datazioni
Ø
reperti di altro tipo
Ø
fonti letterarie, orali e di altro tipo che accrescano la
conoscenza del complesso
ü
descrizione dell’iconografia tenendo conto del significato
dei singoli segni e delle loro relazioni
ü
riferimento ad altri complessi (di cui si possiedono
conoscenze scientifiche) e/o cronologicamente affini
ü
fonti letterarie, orali e di altro tipo che consentano di
conoscere il ruolo dell’opera analizzata nella cultura locale.
Attraverso un’osservazione matura e tecnica, l’arte rupestre potrà
quindi restituire il proprio significato, o quantomeno offrire elementi
culturali in grado di posizionarla nel giusto contesto, anche senza
giungere a un unico valore, ma lasciando aperte varie piste
interpretative.
In
fondo, non sapremo mai che cosa pensasse l’uomo dell’Età dei Metalli
che incideva una roccia: quali fossero i suoi pensieri, i suoi fini, i
suoi valori. Forse aveva un ruolo simbolico anche il rumore degli
strumenti che aggredivano la pietra, forse un mezzo acustico per suggerire
una relazione con la divinità, o semplicemente per accentuare il senso di
possesso.
Se
guardiamo le cosa da questo punto di vista, l’arte rupestre diventa
quasi un’“opera aperta”, espressione iconografica che si concede ad
una molteplicità di interpretazioni, destinata, in alcuni casi, a
delegittimare il significato primitivo di un segno o di un complesso di
segni perché lascia spesso a interpretazioni svincolate da codici e
sistemi originari, ma modellati su quelle proprie del fruitore. Nella
sostanza, “i segni iconici non posseggono le proprietà dell’oggetto
rappresentato bensì riproducono alcune condizioni della percezione
comune, in base ai codici percettivi normali e selezionando quegli stimoli
che – eliminati altri stimoli – mi possono permettere di costruire una
struttura percettiva che possieda – in base ai codici dell’esperienza
acquisita – lo stesso significato dell’esperienza denotata dal segno
iconico” (29).
La
paleoantropologia sostiene che il primo sistema di comunicazione fu la
parola, poi l’immagine, quindi la scrittura. La prima conquista,
strettamente vincolata allo sviluppo della scatola cranica, fu la più
antica: qualcuno risale indietro nel tempo, fino all’Homo
abilis, due milioni di anni fa.
Poi
venne l’immagine e, come sappiamo, le prime esperienze in questo senso
giunte fino a noi, risalgono a 20.000 anni fa: per qualcuno quelle prime
espressioni dell’arte furono l’anticamera della scrittura, per altri
un ramo a sé dell’evoluzione culturale.
Intorno
al 3000 a.C., nell’Egitto antico e in Mesopotamia la scrittura mosse i
primi passi dando inizio ad un’autentica rivoluzione che condizionò
alcuni linguaggi, come l’arte rupestre, fino ad assumere valenze sempre
più specialistiche con codici selettivi.
Abbiamo
quindi constatato che la questione relativa al significato di linguaggio
come quello dell’arte rupestre dipende soprattutto dalla cultura, in
particolare dalle problematiche che scaturiscono quando vi è differenza
tra chi ha realizzato uno o più segni e chi li fruisce.
Un
primo aspetto importante posto in rilievo da E.B. Tylor (1832-1917) (30)
è che la cultura è presente ovunque, quindi non vi sono popoli senza
cultura. Inoltre la cultura è un insieme complesso, costituito da
elementi rinvenibili tra popolazioni anche molto diverse e primitive:
infatti ogni popolo ha una religione, un’economia, una tecnologia. Un
altro punto è determinato dalla consapevolezza che la cultura è un
valore acquisito, vale a dire che non è connaturato a un gruppo etnico o,
come si diceva ai tempi di Tylor, ad una “razza”. Un’osservazione
conclusiva indica la cultura come il prodotto dell’acquisizione ottenuta
attraverso la presenza della società: e poiché esistono tante società
ognuna esprime una sua specifica cultura.
A
questo punto poniamoci alcune domande: quali furono i primi contatti
dell’uomo con il segno? Come vennero integrati sul piano simbolico, per
esempio, le impronte di un animale, le tracce delle unghiate lasciate
dagli orsi sulle pareti di una grotta? Le naturali incisioni presenti su
un pezzo di legno?
Dire
che tutti questi segni furono considerati simboli non ha senso, quanto
meno a livello conscio. Secondo E. Anati “ vi sono due tappe da
chiarire: 1. dalla constatazione all’azione; 2. dallo scrutare al
creare. La prima riguarda il passaggio dallo stato di coscienza del
significato di un segno, di un’orma, di un’evidenza di qualche passata
azione, allo stato cosciente di eseguire un segno per volere trasmettere
il messaggio. La seconda tappa riguarda il passaggio dell’esecuzione di
segni le cui forme sono imposte dalla natura, a segni elaborati
dall’uomo, siano essi imitazioni di realtà della natura o segni
inventati. Il punto di partenza e quello di arrivo di ognuna delle due
tappe possono essere anche contemporanei tra di loro ma, concettualmente,
il punto di arrivo implica il passaggio dal punto di partenza” (31).
È
indubbio che comprendere le fasi di queste tappe contribuisce a
visualizzare su un piano concreto le origini dell’arte, definendone, per
quanto possibile, il ruolo all’interno della cultura dell’uomo della
preistoria.
Limitandoci
a osservare esclusivamente la segnica basata sull’astrazione che è una
parte fondamentale dell’arte rupestre, constatiamo che l’uomo della
preistoria praticava l’astrazione probabilmente senza un progetto
preciso, ma forse rispondendo a meccanismi legati agli archetipi.
Ricorriamo ancora a E. Anati, nel panorama iconografico preistorico ha
identificato tre categorie di segno: “Pittogrammi (e mitogrammi): figure
nelle quali riteniamo di riconoscere forme identificabili con oggetti
reali o immaginari, animali, uomini o cose. Ideogrammi: Segni ripetitivi e
sintetici che vengono talvolta definiti come dischi, frecce, bastoncini,
alberiformi, segni fallici, segni vulvari, ecc. la loro ripetitività e le
loro associazioni sembrano indicare la presenza di concetti indotti e
convenzionali. Psicodrammi: Segni nei quali non si riconoscono e non
sembrano presentati né oggetti né simboli. Sono slanci, violente
scariche di energia, che potrebbero forse esprimere sensazioni quali caldo
o freddo, vita o morte, amore od odio, o anche percezioni più sottili”
(32).
Non
dimentichiamo inoltre che, come noi, anche l’uomo della preistoria aveva
la capacità di proiettare immagini mentali sulle forme naturali: con ciò
i suoi segni assumono oggi significati difficilmente individuabili e anche
i tentativi in chiave psicoanalitica non possono andare oltre la semplice
speculazione teorica (33)
In
conclusione potremmo domandarci che cosa non dicono le immagini giunte
fino a noi dalla preistoria: non è certamente una domanda oziosa, perché
è proprio questa oggettiva carenza che ha spesso indotto gli storici e
non fare troppo affidamento sull’immagine intesa come fonte. Si è
parlato di “invisibilità del visivo” (34): e tale atteggiamento
potrebbe anche sembrare adeguato guardando all’arte rupestre dove la
fonte diventa traccia e l’intreccio tra il vero, il falso e il finto
suggerito da C. Ginzburg (35) diventa spesso una costante: nel nostro caso
avrebbe senso provare a sostituire “finto” con “mitico”.
Un
esempio indicato giunge dalla copia delle pitture rupestri di Altamira
(Spagna), realizzata in un’altra grotta, così da riprodurre con il
massimo realismo le opere di quella che viene definita la “Cappella
Sistina della preistoria”.
Copia
e trasferimento si sono resi necessari per garantire la conservazioni
dell’originale, che venne scoperto 1879 in una grotta nelle campagne di
Santillana del Mar di Cantabria.
Il
fatto in sé, encomiabile dal punto di vista della conservazione,
rinfocola il mai estinto dibattito sulla copia portato alla ribalta dal
filosofo Walter Benjamin con il suo famoso saggio del 1936 L’opera
d’arte nell’epoca della sua riproducibilità storica.
Benjamin,
nel periodo storico in cui scriveva, aveva come unico sistema riproduttivo
di riferimento la fotografia, che consentiva dei risultati decisamente
primitivi se paragonati a quanto è oggi possibile attraverso
l'informatizzazione dell’immagine.
L’analisi
del ruolo della copia nella cultura appartiene sostanzialmente
all’estetica: con la copia le relazioni tra uomo e mondo acquistano una
fisionomia diversa, problematizzando il dibattito ontologico tra essere ed
apparire.
Il
bisogno di riprodurre quanto è parte della realtà e quindi anche la
natura, forse costituisce per l’uomo un mezzo per confermare la propria
identità, per certificare una sorta di superiorità che
l’antropocentrismo ha riconosciuto all’essere evoluto.
L’epistemologia
moderna ci fa osservare che la nostra conoscenza è frutto di osservazioni
oggettive e relative: conseguentemente questa conoscenza non è mai il
risultato di una visione globale ma parziale.
Se,
ad esempio, osserviamo la luna, possiamo affermare di vederla, anche se
oggettivamente non la vediamo da tutti i punti di osservazione.
La
mancanza di conoscenza globale rende la copia imprecisa e inevitabilmente,
sia sul piano fisico che metafisico, non aderente alle aspettative.
Quando
l’uomo cerca di riprodurre qualcosa che esiste in natura, è costretto a
descrivere l’oggetto della riproduzione attraverso il contributo
inevitabile della propria mente, delle sue stesse scelte inventive e anche
dei materiali che intende usare, ponendosi in tal modo su un piano che,
deliberatamente, è eterogeneo rispetto all’originale.
Tra
il soggetto originale e la sua copia ottenuta artificialmente, dovrebbe
esserci un’interfaccia di rappresentazioni culturali, atta a confermare
l’autenticità del magister.
Non
dimentichiamo inoltre che la copia realizzata artificialmente ha
l’atavica prerogativa di portare con sé un significato diminutivo, e ciò
senza dubbio ha avuto pesanti ricadute nei nostri atteggiamenti mentali,
indotti a considerare la copia, automaticamente, qualcosa che appartiene
ad un livello più basso, inferiore.
NOTE
1)
A. Leroi-Gourhan, I più antichi
artisti d’Europa, Milano 1980, pag. 7.
2)
A. Leroi-Gourhan, a cura, Dizionario
di Preistoria. Culture, vita quotidiana, metodologia, V.I, Torino
1991, pag. 497.
3)
M. Centini, Alle origini dell’arte,
Molfetta 2006.
4)
M. Eliade, Trattato di storia delle
religioni, Torino 1976, pagg. 222-244.
5)
A. Leroi-Gourhan, La Préhistoire,
Parigi 1966, pag. 158.
6)
M. Eliade,op. cit., pag. 225.
7)
A.M. di Nola, voce “Pietra” in Enciclopedia
delle religioni, Firenze 1978 e segg.
8)
B. Malinowski, Argonauti nell’Oceano occidentale, Roma 1973, pag. 122.
9)
A. Beltràn, Arte rupestre
preistorica, Milano 1993.
10)
P. Sébillot, Riti precristiani nel
folklore europeo, Milano 1990, pagg. 207-213.
11)
A. Priuli, Arte rupestre, Ivrea
1996, pag. 25.
12)
A. Service –
J. Bradbery, I megaliti e i
loro misteri, Milano 1991.
13)
Un tema di grande interesse, che meriterebbe di essere approfondito,
riguarda la relazione tra le incisioni rupestri, prevalentemente di età
storica, e l’insediamento abitativo: si tratta di un campo della
cosiddetta ecologia umana destinato a fornire degli importanti materiali
di ricerca. Alcuni studi sono stati condotti da Maurizio Rossi e Paola
Micheletta in tre aree piemontesi (Valle Susa / Val Sangone; Valle Orco /
Val Soana; Valchiusella) che hanno condotto ad una prima indicativa serie
di risultati. Dai dati raccolti si evince che, nelle tre aree, le rocce
decorate sono così distribuite: 24% su pietre che fanno parte di edifici;
12% è presente sulla pavimentazione o rocce dei muretti a secco
delle mulattiere; il 43% si trova nei pressi delle mulattiere; il 12% si
trova all’interno degli insediamenti, ma non è parte di alcuna
architettura; il 3% è completamente isolato dallo stanziamento (M. Rossi
– P. Micheletta, Incisioni
rupestri e insediamento: proposte di indagine, in “Ad Quintum”, N.
6, Maggio 1982, pagg. 48-60).
14)
A. Arcà, a cura, La pietra e il
segno, Susa 1990, pag. 19.
15)
F. Boas, Arte
primitiva, Torino 1981, pag. 147.
16)
A. Priuli, Il linguaggio dell’arte
primitiva, Torino 2006, pagg. 17-35.
17)
M. Rossi – P. Micheletta, op. cit.
18)
G. Frau, Etnografia e dialettologia in alcune denominazioni della costellazione
delle Pleiadi, in “Etnografia e dialettologia”, Atti del XIII
Convengo per gli Studi Dialettali Italiani, Catania 28 settembre – 2
ottobre 1981, pag. 67.
19)
K. Popper, Scienza e filosofia.
Problemi e segni della scienza, Torino 1969, pag. 110.
20) K. Popper, op.
cit., pag. 110.
21)
A. Magni, Pietre cuppelliformi nuovamente scoperte nei dintorni di Como,
in “Rivista Archeologica della Provincia di Como”, fasc. 43-44, 1901,
pagg. 65-66.
22)
F.M. Gambari, L’arte rupestre in
Piemonte: cenni di analisi stilistica e cronologica, in “Notizie
Archeologiche Bergomensi, N. 2, 1994, pag. 140.
23)
E. Anati, Origini dell’arte e della concettualità, Milano 1988,
pag. 96.
24)
F. Ronzon, Antropologia dell’arte, Roma 2006, pag. 23.
25)
M. Shapiro, Lo stile, Roma 1995.
26)
M. Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del
Quattrocento, Torino 1972.
27)
R. Barthes, Elementi di semiologia, Torino 1966, pag. 34.
28)
G.P. Caprettini, La semiologia, Torino 1976, pagg. 7-8.
29)
U. Eco, La struttura assente, Milano 1980, pag. 112.
30)
E.B. Tylor, Il concetto di cultura,
Torino 1970, pagg. 7-13.
31)
E. Anati, Le radici della cultura,
Milano 1992, pagg. 87-88.
32)
E. Anati, op. cit., pag. 98.
33)
F. Sacco – G. Sauvet, a cura, Il centro dell’uomo. Psicoanalisi e preistoria, Palermo 2005.
34)
P. Burke, Testimoni oculari. Il
significato storico delle immagini, Roma 2002, pag. 11.
35)
C. Ginzburg, Il filo e le tracce.
Vero falso finto, Milano 2006.
(Autore:
Massimo Centini)
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