Sin dal XIX secolo sono stati rinvenuti in diverse parti del continente
americano curiosi reperti - iscrizioni, monete, statuette - che hanno fatto
sempre più sospettare che l'America fosse già stata visitata prima di
Colombo. Se almeno in un caso, quello dei Vichinghi, ciò è stato
dimostrato negli anni sessanta del secolo scorso, è possibile tuttavia che
anche Fenici, Celti e Romani abbiano attraversato l'Atlantico, come dovrebbe
dedursi anche da sibilline affermazioni negli scritti di Aristotele,
Plutarco, Diodoro Siculo, Seneca ed altri autori classici. Addirittura
un'intera città Maya, edificata con materiali atipici, potrebbe nascondere
curiose testimonianze romane, nonchè probabilmente anche asiatiche.
Nel 1933 a Calixtlahuaca, una località a 72 chilometri da Città del
Messico, durante gli scavi presso una piramide di epoca precedente l'arrivo
degli spagnoli di Cortèz (1519), venne rinvenuta la testa di una statuetta
in terracotta in stile inequivocabilmente romano, datata dagli archeologi -
in primo luogo dal suo scopritore Josè Garcia Payon - al II sec. d. C. Nel
1995, Romeo Hristov del Dipartimento di antropologia dell'Università
Metodista Meridionale di Dallas e Santiago Genoves, dell'Istituto di
Investigaciones Antropologicas di Città del Messico, sottoposero il reperto
all'analisi tramite la termoluminescenza presso l'Istituto di Fisica
Nucleare del Max Plank institute di Heidelberg in Germania. Il test confermò
la reale antichità della testina, ed i risultati vennero pubblicati sulla
rivista “New Scientist” del febbraio 2000. Questo è uno dei tanti
ritrovamenti “anomali” che vengono riportati anche da Elio Cadelo
(giornalista della Rai ed esperto divulgatore culturale e scientifico) nel
suo volume Quando i Romani andavano in America (Palombi
Editori, p. 217) a sostegno della convincente possibilità che i popoli
antichi - non solo i Romani, ma prima di loro anche Fenici, Cartaginesi e
Mauritani, per non parlare di Cinesi e Giapponesi dal versante Pacifico -
abbiano raggiunto i due continenti americani.
Il medesimo autore non manca
inoltre di citare anche altri sorprendenti reperti saltati fuori da un
secolo e mezzo a questa parte, come la nave romana ritrovata a Galveston
Island in Texas nel 1886, e recentemente ristudiata dal prof.
Valentine Belfiglio, che nel 1993 ha anche ritrovato -sempre nei
paraggi - una moneta romana d'argento con l'effigie dell'imperatore Traiano
(98 - 117 d. C.).
E poi ancora, i numerosi
esempi di ananas (frutto americano) raffigurati su mosaici, affreschi e
statue di terracotta a Roma (mosaici delle Grotte Celoni ora al Palazzo
Massimo alle Terme), Pompei (Casa dell'Efebo) e Ginevra (Museo dell'Arte e
della Storia), e le numerose monete romane ritrovate un po' ovunque in
America (ma anche in altre remote parti del mondo, come in Australia ed in
Nuova Zelanda): tutti elementi questi che alcuni illuminati rappresentati
del mondo accademico ufficiale - sparuti pionieri di una nuova visione della
storia - stanno cominciando a rivalutare, contrariamente alla maggioranza
dei loro colleghi tradizionalisti che liquidano questi reperti “fuori posto”
come falsi, scherzi fra accademici o tutt'al più accidentali smarrimenti di
moderni collezionisti distratti (un po' troppi, commenta ironicamente lo
stesso Cadelo).
Giudizi come questi, in
realtà, trovano la loro fonte soprattutto in una convinzione più o meno
generalmente diffusa come un luogo comune, ovvero che nell'antichità coloro
che andavano per mare disponevano solo di navi piccole e fragili, di
strumenti e conoscenze poco sofisticate per orientarsi in mare aperto,
nonchè di rotte rigorosamente sotto costa, limitate esclusivamente al “Mare
Nostrum”, e senza che nessuno osasse infrangere il “tabù” delle Colonne
d'Ercole, ultimo avamposto di un mondo creduto piatto e circondato
dall'abisso.
Proprio per demolire sistematicamente questi luoghi comuni, il medesimo Elio
Cadelo impiega diversi capitoli per illustrare, con una notevole mole di
informazioni, quale fosse la realtà della navigazione nel mondo antico.
Intorno al 600 a. C. i Fenici, nell'arco di tre anni,
circumnavigarono l'Africa su mandato del Faraone Neco II, ma nei secoli
successivi i mercanti Greci e Romani attraversavano regolarmente l'Oceano
Indiano, sospinti dalla regolarità dei Monsoni, per raggiungere i ricchi
empori orientali: l'India, lo Sri Lanka, l'Indonesia, ma anche la Cina e
forse - a giudicare dalle monete “perse” dai collezionisti distratti ! -
anche Australia e Nuova Zelanda. Non mancano ovviamente le testimonianze di
numerose fonti dell'epoca, come quella di Tacito che tessendo l'elogio del
suo genero Agricola, ne ricorda la circumnavigazione della Britannia intorno
all'80 d. C.
Né il Mar Rosso né tanto
meno le Colonne d'Ercole costituivano dunque un tabù, e le flotte militari e
civili romane le varcavano regolarmente, avendo ereditato dalla sconfitta
Cartagine le rotte in direzione delle coste africane occidentali e delle
Isole Fortunate: le Canarie, le Azzorre, Madeira. «Le Isole Fortunate
distano da queste 250 miglia e sono situate di fronte alla parte sinistra
della Mauritania, in direzione Ovest Nord-Ovest. Una di esse si chiama
Invalli per la sua superficie convessa; essa misura 300 miglia di
circonferenza; un'altra Pianosa prende il nome dalla sua conformazione...»
afferma Plinio nella sua Storia Naturale, aggiungendo subito
dopo che anche Giuba, re della Mauritania, si prese la briga di esplorarle
riportando da una di esse, Canaria, due esemplari di quei caratteristici
cani di grossa taglia che diedero il nome all'isola e all'intero arcipelago.
Come si può intuire le navi che affrontavano le acque oceaniche possedevano
stazza e caratteristiche di tutto rispetto.
Se si conosce ancora ben
poco infatti delle antiche navi da guerra romane, al contrario quelle
adibite a scopo mercantile hanno lasciato molte più tracce nelle
testimonianze scritte degli antichi oltre che sul fondo del mare. La nave
greca rinvenuta al largo di Marsiglia nel 1954 e risalente al III
sec. a. C. era lunga 33 metri e cosa sorprendente per gli archeologi che la
studiarono, risultò rivestita di piombo a scopo di protezione dai parassiti
marini: sarebbe stata perfettamente in grado, in altre parole, di affrontare
una traversata oceanica. Ma vascelli con una stazza tra le 300 e le 500
tonnellate erano piuttosto normali all'epoca. Se poi erano adibite al
trasporto di carichi pesanti come il marmo (navi lapidarie) esse potevano
raggiungere anche tonnellaggi maggiori: «...Luciano ci ha lasciato la
descrizione di una nave romana lunga 54 metri, larga 14 e con un
dislocamento di 1.000 tonnellate nella quale l'albero di maestra si trovava
al centro dello scafo, portava una vela quadrata, raddoppiata da una seconda
vela superiore e la poppa e la prua erano rialzate...», riporta Elio
Cadelo a p. 20 del suo volume. Con un tal genere di imbarcazioni, o ancora
più grandi, certamente vennero trasportati dall'Egitto a Roma i colossali
obelischi che ancora oggi possiamo osservare nella capitale. Inoltre
dall'esame delle due navi di Caligola recuperate dai fondali del Lago di
Nemi nel 1930 - e finite in cenere durante la guerra - si è appurata
l'esistenza di tutta una serie di sofisticate attrezzature (pompe
idrauliche, valvole, ruote dentate, piattaforme girevoli su cuscinetti a
sfera, ecc.) in dotazione ai vascelli romani, come confermato anche dai
risultati dell'archeologia subacquea.
Non solo con le sue legioni
ma anche con le sue navi da guerra sempre più potenti e veloci - liburne,
triremi, quinqueremi e via dicendo - Roma riuscì a conquistare sia il
Mediterraneo che l'Europa Occidentale fino alla Britannia, e fino alla
grande invasione dei Germani, cioè fino al V sec. a. C., navi militari ed
ausiliarie, di ogni dimensione assicuravano la sicurezza, la difesa ed i
necessari rifornimenti sui mari e sui fiumi di confine. Le grandi navi
commerciali poi, come già si è detto, si avventuravano regolarmente
nell'Atlantico, nel Mar Rosso e nell'Oceano Indiano per giungere senza alcun
dubbio sino in Estremo Oriente (cfr. Domenico Carro, Le navi di Roma).
Per gli antichi le stelle
erano dei preziosi punti di riferimento notturni per determinare latitudine,
longitudine e rotta. Durante il giorno poi, l'ombra del sole proiettata su
diversi tipi di gnomone, come il “polos” dei Babilonesi o lo “skafos” di
Berosso, consentiva di determinare con ottima approssimazione il punto nave
in latitudine. Ma tutto ciò presupponeva una concezione di un mondo sferico,
suddiviso in gradi, meridiani e paralleli. L'idea che gli antichi avessero
la convinzione di una Terra piatta non trova alcun riscontro nella cultura
dell'epoca: Eratostene di Cirene anzi fu il primo a calcolare con un
trascurabile margine d'errore la circonferenza terrestre seguito poi da
Posidonio. I loro risultati servirono da base a Marino di Tiro e
Tolomeo per la composizione delle loro mappe geografiche, le quali anche
se rappresentate in piano si rifacevano ovviamente ad una dimensione
sferica.
Da qui - come ben
sottolineato ancora da Elio Cadelo - agli antichi venne in mente esattamente
la medesima idea che avrebbe poi avuto Colombo, ossia raggiungere
l'Oriente navigando verso occidente, attraversando l'Atlantico: «D'altro
canto Tolomeo cita Posidonio e scrive: “Quindi diceva Posidonio chi partisse
dall'estremo occidente del nostro mondo, e navigasse con l'Euro, per
ponente, con un pari percorso arriverebbe nelle Indie"...» (Elio Cadelo,
p. 212), convinzione condivisa ad esempio anche da Strabone,
Aristotele e diversi altri scrittori dell'antichità.
Qualche altro autore poi
come Plutarco nel suo scritto Il volto della Luna aggiunge che
"a cinque giornate di navigazione dalla Britannia verso Occidente ci sono
alcune isole e dietro di loro un continente...» (Elio Cadelo, cit. p.
198). Ma il grande storico di Agira, Diodoro Siculo, è molto più
dettagliato:
«Poichè abbiamo discorso delle isole che stanno al di qua delle Colonne
d'Eracle, passeremo ora in rassegna quelle che sono nell'Oceano... Infatti,
di fronte alla Libia (Africa) sta un'isola di notevole grandezza, e posta
com'è in mezzo all'Oceano è lontana dalla Libia molti giorni di navigazione,
ed è situata a occidente. La sua è una terra che dà frutti, in buona parte
montuosa, ma in non piccola parte pianeggiante e di bellezza straordinaria.
Poichè vi scorrono fiumi navigabili, da essi è irrigata, e presenta molti
parchi piantati con alberi di ogni varietà, ricchi di giardini attraversati
da corsi d'acqua dolce. La zona montuosa presenta foreste fitte e grandi
alberi da frutto di vario genere, e valli che invitano al soggiorno sui
monti, e molte sorgenti. In generale, quest'isola è ben fornita di acque
dolci correnti.
"Ora, nei tempi antichi quest'isola non fu scoperta per la sua grande
distanza dall'intero mondo abitato, ma lo fu più tardi per le seguenti
ragioni. I Fenici, che da tempi antichi facevano continuamente viaggi per
mare a scopo di commercio, fondarono molte colonie in Libia e non poche
nelle parti occidentali dell'Europa. Poichè le loro iniziative procedevano
secondo le aspettative, ammassarono grandi ricchezze e tentarono di navigare
oltre le Colonne d'Eracle, nel mare cui gli uomini danno nome Oceano.
"E dapprima, proprio sullo stretto presso le Colonne, fondarono una città
sulla costa europea, e poichè essa occupava una penisola, la
chiamarono Gadira (Cadice).
"Vi costruirono molte opere adatte a quei luoghi, e anche un sontuoso tempio
di Eracle, e introdussero sacrifici magnifici condotti secondo i costumi dei
Fenici. Si dà il caso che questo santuario sia stato tenuto in assai onore,
sia allora che in tempi recenti fino alla nostra generazione. Anche molti
Romani fecero voti a questo dio, e li adempirono dopo aver portato a termine
le proprie gesta con successo.
"I Fenici, dunque, mentre esploravano, per le ragioni sopra citate, la costa
al di là delle Colonne, navigando lungo la Libia, furono portati fuori rotta
dai venti, a grande distanza nell'Oceano. Dopo essere stati esposti alla
tempesta per molti giorni, furono portati sull'isola che abbiamo citato, e
una volta constatata la sua prosperità e la sua natura, ne resero nota
l'esistenza a tutti gli uomini.
"E perciò i Tirreni, al tempo in cui erano padroni del mare, intrapresero il
tentativo di mandarvi una colonia, ma i Cartaginesi lo impedirono, sia
perchè per la fertilità dell'isola molti vi si volevano trasferire da
Cartagine, sia per prepararsi un luogo in cui rifugiarsi contro gli
imprevisti della sorte, nel caso che a Cartagine toccasse qualche disastro
totale. Infatti, dal momento che erano padroni del mare, avrebbero potuto,
pensavano, far vela con tutta la casa e la famiglia verso un'isola
sconosciuta a chi li avesse sconfitti.» (Diodoro Siculo, Biblioteca
Storica, Libro V, 19-20).
Gli storici ritengono che Diodoro in questo passo si riferisca a qualcuna
delle Isole Canarie o delle Azzorre, ma nessuna delle isolette
dell'Atlantico corrisponde ai nostri giorni ad una tale descrizione. Vi è
dunque il forte sospetto che lo storico siciliano si riferisca in realtà
alle coste più occidentali del Sud-America, da lui e dai Fenici creduta
un'isola. In effetti, sono diversi gli archeologi che avrebbero trovato
iscrizioni e testimonianze fenicie in diverse parti del Brasile. Ladislao
Netto sin dal 1899 ne avrebbe trovata una proprio sul monte che
sovrasta Rio, il Pan di Zucchero: «Siamo figli della Terra di Canaan -
dice l'iscrizione - . Su noi pesano la sventura e la maledizione. Abbiamo
invocato invano i nostri dei: essi ci hanno abbandonati, e presto moriremo
disperati. Oggi è il decimo anniversario del giorno infausto in cui siamo
giunti su queste rive. Il caldo è atroce, l'acqua è fetida, l'aria piena di
schifosi insetti. I nostri corpi sono coperti di piaghe. O dei, aiutateci!
Tiro, Sidone, Baal». (Kolosimo, p. 304).
Anche l'archeologo
brasiliano Bernardo da Silva Ramos, il ricercatore austriaco, Ludwig
Schwennhagen, ed il francese Apollinaire Frot avrebbero ritrovato, tradotto
e classificato migliaia di iscrizioni in diverse parti della giungla
Amazzonica nonché in zone montuose. Secondo le loro ricerche in alcuni
luoghi dell'Amazzonia nei pressi di laghi e fiumi vi sarebbero anche resti
di mura e cantieri navali. Viceversa negli scavi compiuti a Sidone, in
Libano, nel 1860, archeologi francesi individuarono molti reperti di
legno che potevano provenire soltanto dal Brasile, in quanto realizzati o
con legno "quebracho" (o "Quebra Machado", il legno che spezza il machete),
o un altro di colore rosso, chiamato in portoghese Paua Brasil.
Le cose tuttavia potrebbero essere anche più complesse, e qualcuno del
Vecchio Mondo potrebbe essere giunto in America per altre vie.
Le rovine dell'antica città
di Comalcalco, nei pressi dell'attuale città di Villaermosa in Messico
(stato di Tabasco), costituiscono tutt'altro che un banale mistero
per archeologi e studiosi. La località infatti è l'unico insediamento di
epoca Olmeca o Maya che abbia i suoi edifici costruiti con l'utilizzo di
mattoni cotti, anziché in pietra come tutte le altre città coeve. Il mistero
tuttavia si è infittito quando gli studiosi hanno scoperto sul retro di
diversi mattoni dei marchi di fabbrica pressocchè identici a quelli presenti
sugli antichi mattoni romani, visibili ancora oggi ad es. a Roma ed in molti
altri siti archeologici. Anche le dimensioni dei mattoni sono uguali, mentre
sempre a Comalcalco è stata anche scoperta quella che sembra un'antica
statuetta romana in terracotta. E' stato fatto notare tuttavia che, anche se
edificata in mattoni cotti, lo stile architettonico della città è
tipicamente maya, ed anche gli archi non sono quelli caratteristici romani a
tutto sesto bensì quelli tipici centro-americani a triangolo acuto.
Alcuni ricercatori dalle
idee più aperte hanno ipotizzato che nel periodo della dinastia Satavahana
(circa 200 a. C. - 200 d. C.) in India, che - come abbiamo visto -
allacciò stretti rapporti commerciali col mondo romano, l'uso dei mattoni
per le costruzioni venne reintrodotto nell' Hindu Kush dopo che era stato
abbandonato in passato a favore della pietra. Dall'India si estese poi fino
in Indocina, al seguito probabilmente dei Kushana, altri partner commerciali
dei Romani. Questa minoranza di studiosi sostiene appunto che l'uso dei
mattoni cotti sia giunto a Comalcalco tramite l'Oceano Pacifico, al seguito
di mercanti del sud-est asiatico.
A riprova di ciò, mostrano
alcuni motivi architettonici, simili a quelli indiani, presenti in alcuni
mattoni della città maya, ed alcune urne funerarie, sempre a Comalcalco
anch'esse in stile asiatico. Nonostante appaia curioso il fatto che anche i
tipici marchi di fabbrica romani possano essersi conservati insieme ai
mattoni nel loro viaggio fino ai Maya (non si capisce bene con quale
funzione), i medesimi sostenitori dei contatti fra le due sponde del
Pacifico portano altre prove, quali ad esempio resti di cavalli
pre-colombiani che sarebbero stati dissepolti sempre in America. Nel Museo
attiguo alle rovine di Comalcalco è inoltre possibile ammirare altri curiosi
e misteriosi reperti come raffigurazioni di personaggi con cappello e barba.
Comalcalco in realtà è solo uno dei tanti luoghi misteriosi che fanno
sospettare contatti tra Asia e America ben prima di Colombo.
Sempre in Messico nei pressi
della città di Poza Rica, le rovine della città di Tajin, antica capitale
del popolo precolombiano dei Totonachi, comprendono una piramide che «...non
solo nella parte inferiore della costruzione, ma anche nelle decorazioni e
nelle nicchie è identica alle pagode della città morta birmana di Pagan...»
secondo le parole dello studioso Pierre Honorè, che continua: «...Lo
stile ornamentale di Tajin, specie per quanto concerne i vasi, mostra una
tale somiglianza con il tardo stile Chu della Cina, da rendere quasi
impossibile distinguere l'uno dall'altro...». (Kolosimo, p. 193)
Anche le piramidi maya di
Tikal sembrano identiche a quelle cambogiane di Angkor-Vat, così come di
stile orientale sembrano statue, gioielli di giada, ornamenti e decorazioni
rinvenuti in Ecuador ed in Perù. Per non parlare di curiose analogie
scientifiche e culturali, come l'uso dello zero e del sistema decimale
presso i Maya che fino all'inizio del Medioevo si ritrovava solo in un altro
luogo al mondo, ovvero in India.
Per l'archeologia ufficiale sia i potenziali contatti con l'America di
Fenici e Romani attraverso l'Atlantico, sia i viaggi transpacifici degli
asiatici mancano ancora di prove decisive. Molti parlano di “miopia
archeologica”, altri di semplice prudenza. Ma in ogni caso gli scavi e gli
studi proseguono.
Bibliografia: