"Quid est deus?
Longitudo, latitudo, sublimitas
et profundum."
(Saint Bernard de Clairvaux De consideratione, V, XIII)
Parlare di una metodologia di lavoro
relativa alla pietra impiegata alla Sacra di San Michele (TO),
non è cosa del tutto agevole se consideriamo le possibili quantità
informative da condensare nel poco spazio disponibile.
E' giusto precisare che, per poter parlare esaurientemente di una
qualunque tecnica operativa lapidea è importante definire, al di là
dell'intimo rapporto esistente tra utensile e materiale, quali siano i
rapporti tra i materiali lapidei dissimili tra loro e le diverse
difficoltà operative, le quali comportano scelte tecniche e risultati
estetici differenti.
L'epoca storica presa in esame è quel periodo discutibilmente definito
“medioevo”, periodo ben poco oscuro se consideriamo il fatto che le
tecniche di costruzione ed in particolare il taglio della pietra erano
tutt'altro che povere, sia per l'eredità ricevuta dalle sopravvissute
scholae romane, sia per l'aspetto evolutivo delle tecniche grazie al
fenomeno d'itineranza degli artefici e la divulgazione dei modelli che
renderanno possibile la diffusione del “Romanico” e il successivo
passaggio al “Gotico”.
Non di poco conto è il ruolo svolto dal valore itinerante giocato dalle
Taglie di mestiere, spesso con legami parentali, le quali favoriscono lo
scambio tra “logge operative” distanti tra loro, delle tecniche di
taglio ed attrezzi diversi, simbologie desunte dai codici miniati da
riportare sui capitelli, idee progettuali che diverranno, col finire
dell'età gotica, veri libri di cantiere gelosamente custoditi dal
Maestro di Corporazione.
Esempi di queste traslazioni culturali le possiamo trovare nelle
introduzioni di strumenti da taglio come per esempio l'ascia da pietra,
assai usata nei territori allora chiamati “Lombardi”, che viene
importata nella Lucchesia dalla Taglia dei Guidi o come in
Cataluña, ove la Consorteria Lombarda di Magister Raimundo,
operante per la ricostruzione della chiesa della Seu d'Urgell distrutta
dagli Arabi, apporterà, suo malgrado il termine “Lambardus” nel lessico
ispanico per definire il costruttore, il tagliatore di pietre.
Anche la Sacra di San Michele non è da escludere da questi apporti
d'itineranza, anzi ne è favorita dalla posizione geografica in un antico
confine tra terre longobarde e franche, sul percorso naturale della via
Romea.
Nell'anno mille molte maestranze comacine si erano stabilite in
terre lontane dal nord Italia, in Francia, in Cataluña ed in
Inghilterra, fondendo il loro sapere con quello sviluppato nei
territori-ospite tanto da decentrare il fulcro della conoscenza
stilistica nel crocevia naturale di queste itineranze, ossia la Borgogna
e la Provenza.
Le maestranze lombarde, esaurito in patria il loro sapere, si spostarono
in discipulato verso cantieri “moderni” quali Saint Trophime ad Arles o
Cluny, per apprendere nuovi stili e tecniche attraverso le sopravvissute
immagini classicheggianti, i decori geometrico-fitomorfici e gli animali
fantastici osservabili nello Scriptorium dei grandi monasteri. Immagini
da imprimere nella mente e riprodurre poi su grandi architravi, pulpiti
e plutei.
E' il caso di Magister Nicholaus, il quale concluso il proprio
tour d'apprendimento in Francia, forse a Chamalières, sosta alla Sacra
di San Michele, ove ci lascia lo splendido fregio con caulicoli abitati
nella “Porta dello Zodiaco”. Questo è il risultato di
un'esperienza maturata in terre franche che diverrà tipica sul percorso
padano dove stanno fiorendo i grandi cantieri delle “cattedrali
bianche”.
Stesso intreccio culturale ci è dato dagli altri elementi decorativi
presenti alla Sacra, come per le colonnine marmoree della citata “Porta
dello Zodiaco”, per i rilievi di
tipo padano nell'interno absidale, come per l'Hortus descritto
nei capitelli del portale della chiesa, strombato nella sua cornice a
modanature gotiche in cui tradisce una trattazione morbida di estrazione
lombarda nella raffinata modellazione delle foglie a forte aggetto dal
fondo, nonché la quinta bicroma in cui albergano.
La mia attenzione vuole spostarsi nel lavoro apparentemente più umile,
quello meno osservato relativo al taglio della pietra da costruzione.
Essa, divisa sostanzialmente in due tipologie lapidee, il calcescisto e
la prasinite, forma l'apparato costitutivo del corpo di fabbrica, il suo
decoro ed ancora la sua “pelle”.
Il taglio della pietra in forma parallelepipeda, rappresenta
l'indiscussa tecnica primaria per ottenere moduli per erigere un muro,
tecnica definita Opus Quadratum (Grand Appareil) che permette una
maggiore coesione per aderenza tra i blocchi qualora quest'ultimi siano
ben riquadrati e rifiniti poi superficialmente.
Il calcescisto, erroneamente definito un materiale inservibile, veniva
tagliato all'ascia o con uno scalpello a punta (subbia), il cui utilizzo
è visibile nelle caratteristiche linee parallele che tendono a
pareggiare le superfici rugginose di questo materiale.
Nella prasinite, dal colore verde pastello, la sostanza minerale è più
compatta e meno stratificata, cosa che permette una riquadratura più
raffinata con superfici rettificate all'ascia dentata, un'ascia da
pietra il cui filo tagliente è formato da punte triangolari che colpendo
la superficie lapidea formano una texture puntinata di grande effetto
plastico. Questo utensile rappresenta una variante evolutiva della
semplice ascia da pietra e troverà una forte espansione europea, in
particolar modo in Austria, Germania ed in Francia dove ancor oggi viene
usata col nome di Grain d'Orge.
L'aspetto estetico che l'ascia dentata fornisce, rende morbide le
superfici in modo differenziato dalla quantità dei denti posseduti
dall'utensile e dalla abilità dell'operatore, sino a modellare in modo
preciso anche le modanature dei portali o, come ben visibile sulle
colonne interne della chiesa, che paradossalmente appaiono leggere.
Particolare raffinatezza è rappresentata dai colonnini esili che formano
la loggetta absidale, detta dei “Viretti”.
Colonnino dei "Viretti". restauro integrativo
nella loggia operativa della Sacra (foto F. Ferzini)
L'ascia dentata gioca un
ruolo fondamentale nella modellazione della loro sezione circolare
lievemente rastremata al sommoscapo. La puntinatura serrata dichiara la
volontà precisa di lasciar che la luce crei sensibili variazioni di
chiaro e scuro superficiali, una pelle desunta dalla bulinatura dei
metalli preziosi.
Anche la subbia, utilizzata in modo tangente alla superficie crea
texture puntinate, ma più profonde di quelle dell'ascia. La subbia
incide profondamente, scava sbozzando i “fondi” delle forme per
ottenerne gli “scuri”, ossia le parti concave d'una modanatura poi
rifinite con un'ascetta dentata di piccola dimensione.
Modanatura nella loggia dei "Viretti" (foto F.
Ferzini)
Asce dentate da pietra (foto F. Ferzini)
L'incertezza, la stanchezza, la difficoltà definiscono l'imperfezione
che umanizza la superficie, mitigata dagli interventi successivi,
ottocenteschi, quando l'utilizzo della bocciarda (una mazza dentata) o
la “gradina” (sorta di scalpello dentato nato intorno al XIV secolo)
faciliteranno agli operai impiegati dal D'Andrade, ad operare sui
blocchi di prasinite integrati al santuario, a formare la scalinata che
collega la “Porta dello Zodiaco” ed il portale della chiesa, nonché i
maestosi archi rampanti sovrastanti.
La tecnica di squadratura è qui perfetta e la commistura tra i blocchi è
precisa e rettificata da un nastrino (bindello), scolpito con uno
scalpello piatto, che isola sui bordi del modulo il campo bocciardato.
Anche lo studio stereotomico è ormai all'apice ed è notabile nella
perfetta attenzione del taglio delle parti che costituiscono un angolo,
un diedro, una curva modulata o, ancor più, qualora un angolo retto si
fa piano, tondo o l'incavo si fa estroflesso.
L'apparente facilità dell'umile lavoro del taglio della pietra da
costruzione, svanisce se si considera l'iter operativo che dalla cava,
come quella D'Andrade, visibile nei pressi della Sacra, conduce
all'opera finita. Si doveva staccare il masso dal monte, possibilmente
attraverso delle separazioni naturali chiamate litoclasi, mediante cunei
di ferro percossi con una mazza e con l'aiuto di leve di ferro che
favorivano il progressivo distacco e “varata” del blocco a piè di cava.
Era poi necessario eseguire una prima sezione del masso da effettuarsi
per mezzo di una serie di cunei di ferro di varie lunghezze, percossi
all'interno di pozzetti scavati a scalpello lungo una linea. Così
separate, le parti venivano portate sino al piazzale di cava, ove gli
scalpellini operavano per fornire gli “sbozzi” secondo misure stabilite,
prima con ulteriori sezionature a cunei e poi, mediante una subbia di
grande dimensione sino ad ottenere una prima riquadratura dei “pezzi”.
Le grosse asperità erano tolte con un grosso scalpello col tagliente a
cuneo, chiamato in modo diverso secondo le regioni:”scapezzino” sulle
Apuane, “ schiantino” o “giadino” nel Piemonte ed in Lombardia.
Attrezzi-base dello
scalpellino. Da sinistra:scalpello, gradina, subbia, mazzetta (foto F.
Ferzini)
Era poi compito degli scalpellini, con qualifiche superiori, a rifinire
i singoli pezzi mediante misurazioni e riquadrature controllate alla
squadra, e forme anche complesse ricavate tramite delle sagome chiamate
“modine”. Esse rappresentavano un bene prezioso, perciò custodite
gelosamente dal momento che erano state disegnate in relazione alle
parti di quell'edificio, con valore fisso ed unico, senza le quali era
possibile compromettere la giusta dirittura di una scala o di una
colonna, la curvatura di un arco.
Il popolo dei costruttori proseguiva nella scala operativa che, passando
dagli ornatisti, arrivava all'Imagier (lo scultore d'immagini), il
Caput Magister ed infine il Maestro d'Opera, detentore dei
progetti e dello scibile conoscitivo composto di sapere simbolico e
totale raggiungimento tecnico. Egli era a capo dei vari Capi Magistri
che formavano le Taglie e dettava gli incarichi attraverso un suo
sottoposto, il Parlier, che aveva il compito di far da ponte tra
i Magistri e i dettami del Magistro d'Opera.
Non è semplice immaginare un cantiere attivo nel medioevo, come quello
della Sacra di San Michele. Un brulicare di gente dalle diverse
provenienze e con diverse mansioni e con differenti capacità tecniche:
dai legnaiuoli intenti a costruire le centine ed i ponteggi, ai muratori
nell'atto di erigere i muri, mentre i manovali trasportavano pietrisco,
portavano la malta ai piani superiori, e facendo ruotare gli argani o la
“gabbia dello scoiattolo” sollevavano i grandi blocchi. A piè
dell'opera, gli scalpellini riquadravano, tagliavano, sagomavano, mentre
i giovani apprendisti facevano la spola per rifornire gli scalpelli,
forgiati dal fabbro, o li si vedono intenti a “tirare” la malta in
grandi vasche.
L'immagine del cantiere possiamo capirlo dai codici miniati, come quello
di Hrabanus Maurus che ci tramanda l'espressione di un
sentimento, una volontà costruttiva che, pur essendo formata da un
inimmaginabile dispendio di forza e lavoro umano, riflette un desiderio
di edificazione interiore, il costruire secondo un piano divino della
salvezza, un progetto che partendo dall'insegnamento imposto dalla
realizzazione della Torre di Babele, costringe i costruttori a
lasciare l'opera per itinerare in luoghi diversi tra loro, ed apprendere
leggi operative che li riuniranno in un nuovo cantiere, quello della
Gerusalemme Celeste.