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1.
Introduzione
Il Nuovo Testamento offre
molteplici spunti di riflessione attorno a quegli elementi caratterizzanti
di ciò che oggi riteniamo, essere il cristianesimo, ma che in quel limbo
magmatico dei primi secoli della nuova erano frutto di accesi dibattiti e
scontri non solo verbali. Direttamente
o indirettamente il Nuovo Testamento offre, per coloro che sanno dove
posare l'intelletto, evidenze attorno ad una genesi eterogenea del
cristianesimo, di una moltitudine di forme rituali con cui preservare e
manifestare il sacro, all'alternativa fra una struttura piramidale con al
vertice una classe sacerdotale oppure di una gestione comunitaria ed
elettiva del sacro, ed infine della conflittualità fra una vocazione al
settarismo ed una successiva rivolta al proselitismo.
Oltre a quanto sopra
esposto che a diverso titolo investe la forma, o meglio le forme del
cristianesimo, abbiamo anche un'evidenza eterogenea che riguarda la
sostanza stessa del cristianesimo, tanto a determinare nel corso dei
secoli a seguire, e fino ad oggi, attriti e incongruenze che solamente
attraverso l'arte dell'ignoranza o dell'ipocrisia si possono in qualche
modo pacificamente e orizzontalmente appianare. L'arte del non vedere, per
non dolersi, non riguarda solamente le faccende comuni degli uomini, ma
anche delicati problemi religiosi; i quali continuano evidentemente a
scavare nel profondo degli animi umani, portando a più riprese a crisi di
rigetto, a causa degli innesti radicalmente incompatibili.
Nell’ambito del presente
lavoro, lasciando i temi sfiorati in precedenza, ci occuperemo di un
tassello importante lungo la strada della comprensione di quella che io
chiamo la Questione Giovannita. Evidenzieremo all’interno del Nuovo
Testamento quel corpus d’insegnamenti filosofici e metafisici che non
sono riconducibili all'ebraismo di Pietro o Giacomo, bensì pertinenti a
una dimensione intellettuale contigua alla filosofia greca e alla
metafisica alessandrina, a una sensibilità verso la radice spirituale
delle cose tutte, piuttosto che alla cronaca auto celebrativa della vita
di Gesù e delle persone a lui più vicine.
In precedenti lavori
abbiamo posto l’accento sul’importanza della questione giovannita, e
di come all'interno della sfera religiosa cristiana si siano affrontate
due diverse scuole di pensiero, due sensibilità verso il sacro, e di come
questa rappresenti, che lo si comprenda o meno, il fondamento della
mistica, così come dell'esoterismo cristiano.
Nel presente lavoro
andremo quindi ad analizzare, senza lasciarci lusingare da voli pindarici
e fornendo sempre degli utili elementi di raffronto, il cuore stesso
del'insegnamento Giovannita. Una memoria che è stata inserita all'interno
del Nuovo Testamento nel prologo del Vangelo di Giovanni, e che prende il
nome di Inno al Logos.
2. Inquadramento Storico
La tradizione attribuisce
il quarto vangelo a Giovanni il discepolo che Gesù amava maggiormente,
anche se gli esegeti moderni indicano come estensore del Vangelo un
erudito greco di Efeso facente parte di una scuola o comunità giovannea.
Scritto in greco e composto di ventuno capitoli si suppone che esistita
una prima versione in aramaico, o almeno un nucleo che poi è stato
tradotto in greco, e che ad oggi è andato perduta.
Il manoscritto più antico
contenente un brano del Vangelo secondo Giovanni è il Papiro
cinquantadue, che può essere datato attorno al 120 d.c., questo non
significa che il Vangelo di Giovanni sia stato scritto in tale data, ma
solamente che ad essa si riferisce il documento più antico che lo
contiene, e che quindi non esclude versioni precedenti. Il testo è
conservato presso la John Rylands Library di Manchester, Inghilterra.
Gli studiosi sono in forte
disaccordo attorno alla prima stesura del Vangelo di Giovanni, alcuni
tendono a collocarlo fra la fine del primo secolo dell'era cristiana e
l'inizio della seconda, altri invece considerano che tale data non possa
essere molto distante dagli anni della vita di Gesù. Poiché l'estensore
pare dia per scontato a Gerusalemme l'esistenza della piscina di Betzaeta,
ma ciò non sarebbe possibile dopo l'anno 70 in quanto la città, e con
essa la piscina, furono distrutti dai romani. Sicuramente il testo ha
subito una serie di rielaborazioni, aggiunte, che ne hanno prolungata la
gestazione, e che possono attribuirsi alla necessità da un lato di
fornire un nuovo paradigma religioso agli ebrei cristiani e ai cristiani
ellenici, e dall'altro dalla necessità di rendere meno traumatica la sua
esistenza accanto ai sinottici. Da un lato l’azione di alcuni apostoli e
San Paolo aveva aperto il mondo del cristianesimo ai gentili, e
dall’altro la caduta di Gerusalemme aveva scaraventato gli ebrei nel
mondo greco-romano. Esisteva quindi la necessità di fornire degli
elementi di dialogo e integrazione, ecco quindi la ragione dei vari
vangeli ognuno cadenzato maggiormente sulle esigenze di un gruppo rispetto
all’altro, ma non possiamo escludere che le aggiunte e i rimaneggiamenti
dei vari testi che compongono il nuovo testamento, fra cui il vangelo di
Giovanni, trovino cagione nella necessità di rendere i vari libri fra
loro se non omogenei, non troppo conflittuali.
Attorno a questo punto è
interessante annotare come alcuni studiosi pongono il Vangelo di Giovanni
come stesura indipendente, e anche precedente, rispetto ai sinottici. Fino
a indicarlo come portatore di elementi di verità che in essi non si
riscontrano:
...Giovanni se non segue
la tradizione sinottica, non la perde mai d'occhio. Giustamente ha detto
il Renan che Giovanni "aveva una sua propria tradizione, una
tradizione parallela a quella dei sinottici, e che la sua posizione è
quella di un autore che non ignora ciò che è già stato scritto
sull'argomento ch'egli tratta, approva molte delle cose già dette, ma
crede d'avere informazioni superiori e le comunica senza preoccuparsi
degli altri" ("Vita di Gesù Cristo" dell'Abate Ricciotti
1941, revisione del 1962)
Del resto la predilezione
verso il Vangelo di Giovanni era presente anche in Origene di Alessandria,
teologo e mistico del terzo secolo, che lo considerava il fiore dei
Vangeli; così come da parte di mistici, e ordini monastici questa
narrazione del Cristo ha suscitato interessi ben maggiori rispetto a Luca,
Marco e Matteo. Risultando alla base della ritualità di numerose realtà
iniziatiche occidentali anche se spesso confusa nella forma e nel
contenuto.
In conclusione possiamo
affermare che il vangelo di Giovanni, si distanza per contenuti dai
precedenti vangeli poiché esso non ha come centro della propria
narrazione gli aspetti morali ed escatologici della predicazione di Gesù,
ma offre una profonda riflessione sugli aspetti teologici, sull'epifania
del sacro incarnata in Gesù. Questo non significa che il Vangelo di
Giovanni non contenga elementi storici, è infatti possibile trovare fra
le sue pagine narrazioni dettagliate quali il processo di Gesù, con la
figura di Anna e la data della morte, o i rapporti fra lo stesso Gesù e
il Battista, che dimostrano come l'estensore della narrazione appartenesse
a una scuola che ha tramandato tradizioni storiche attorno alla vita del
messia. Quello che però lo caratterizza è il suo focus, che risiede
nell'esigenza di contestualizzare non tanto l'aspetto storico, non tanto
la vita e i miracoli di Gesù, quanto piuttosto delineare la struttura
teologica (Prima che Abramo fosse, io sono 8,58) (Io sono la via e la
verità e la vita 14,6) e metafisica (Inno al Logos) di cui Gesù
rappresenta l'epifania e la divulgazione.
2.
Attorno al concetto del Logos
Il termine "logos" può essere tradotto in tanti modi, perché
storicamente ha assunto connotazioni diverse. Non è quindi importante
stabilire il senso originale, quanto piuttosto i significati che esso ha
di volta in volta assunto nella riflessione filosofica greca e, più in
generale, occidentale. Presso i Greci, "Logos" può indicare sia
il "discorso" (lat. ratio, o-ratio), sia il "calcolo".
Già per Eraclito, però, è necessario distinguere tra logos o ragione
individuale e logos universale: tutti gli uomini, partecipano a una
"legge universale", a un "ordine universale" (altro
significato di "logos"), se solo distolgono lo sguardo dalle
cose terrene e caduche. Questo Logos universale, è identificato anche con
il "fuoco" divino, che vive dentro tutti gli uomini. Con Platone
il "Logos" diventa la capacità di fare dei discorsi veri, in
grado di resistere al fuoco confutatorio della dialettica. Nel
"Sofista" le idee partecipando tanto dell'identico, quanto del
diverso, comunicano tra di loro e rendono possibile quella
"complicazione", "comunicazione" che sola assicura il
discorso (logos), ossia il pensiero. Con Platone si ha quindi il passaggio
tra "discorso" e "ragione": il logos diventa la
capacità di fare discorsi veri. Platone poi distinguerà la conoscenza
come formata da diversi gradi di perfezionamento
("Immaginazione"/eikasìa; "credenza"/pìstis;
"ragione"/diànoia; "intellezione"/nòesis). Lo
spostamento del significato semantico del termine "logos" dal
senso originario eracliteo ("fuoco divino" "Ragione
universale") a quello platonico ("discorso vero") è
perfezionato da Aristotele che fonda la "logica" poiché scienza
del pensiero e del linguaggio. Per Aristotele, sul piano spirituale, è
invece fondamentale l'intelletto "attivo", il nous, facoltà
comune all'uomo e a Dio, che permette di pensare quel pensiero che Dio ha
di se stesso (Etica Nicomachea). Per Plotino si deve distinguere tra la
mera ragione "calcolante" (loghismòs) e la capacità di
cogliere l'altro pensiero (logos) che determina l'impulso ascetico come
cammino di progressivo distacco verso l'Uno, ma la facoltà capace
d'identificarsi con l'Uno è l'"intelletto", lo
"spirito", il noùs. Fu comunque Filone d'Alessandria, ebreo
ellenizzato, a elaborare le originarie concezioni giudaiche, identificando
il pneuma (spirito) con il noùs (intelletto attivo aristotelico e del
neoplatonismo). il ruah biblico fu quindi identificato con il nòus greco
ed ecco il perché della celeberrima espressione "All'inizio era il
Verbo". Infatti la Sapienza di Dio è identificata da Filone con il
mondo delle idee platoniche o degli archetipi contenuti nella mente di
Dio. Questi pensieri divini ed eterni sono contenuti dall'eternità
(dall'inizio) nella mente di Dio, che egli chiama logos, Ragione divina
che governa il mondo (concetto per la verità anche stoico).
All'"inizio era il Verbo" si riferisce proprio alla mente di Dio
che contiene prima della creazione stessa, gli archetipi eterni.
Erroneo però sarebbe
tradurre, ricondurre, o semplicemente associare il Logos a mediazione, o
numero. Poiché esso non media fra Creatore, Creato, e Creatura, è egli
stesso una creazione, e veicolo a sua volta di creazione. Mediare implica
una reciproca volontà di sintetizzare due posizioni antitetiche, o
comunque distanti. Può forse il Creatore, l'Origine Immanifesta,
abbandonare la propria perfezione a favore di una condizione comunque
deficitaria rispetto alla precedente ? Sicuramente ciò non è possibile.
E' la creatura che trascendendo la creazione, e quindi se stessa, tende
alla perfezione, e non certo il Creatore all'imperfezione. Ancora il Logos
non è numero, o più precisamente non è solamente numero, giacché è
anche strutturazione e regola: insieme. Cosa altro è il verbo se non un
soffio di vita, articolato in espressione si compiuta ma anche dinamica.
Il logos è l'aria che nasce dal fuoco del puro intelletto divino, che
raffreddandosi si muta in delicata rugiada, a sua volta destinata a dare
vita all'elemento terra.
Il verbo è vita, senza
ancora forma ma portatore in se di ogni idea e matrice di vita. Nel
simbolismo cabbalistico la Lux Increata promana dai tre veli negativi, e
s’infonde dando forma nel Grande Anziano (Kether), ed esso da vita alla
creazione, ancora animata dal soffio divino, e dalla presenza divina.
Assumendo quindi sembianze di un'onda sismica che si coagula nuclei, e
successivamente da essi, assumendone le peculiarità, s’irradia verso
altre direzioni. Il verbo assume significato di presenza divina, tanto che
è detto che essa non si ritiri dalla Creazione, altrimenti questa
seccherebbe come un canale in cui non scorre più acqua.
Per gli egizi il Ptah era
il verbo, la parola dell'inconoscibile Nut. Il dio che forgia, e da vita
ad Autum, il Re Sole. Il rapporto fra questa divinità e la misterica
egizia può essere dedotto attraverso la lettura di un passo rinvenuto in
una stele di Shabaka, sovrano della XXV dinastia: "Perché ogni
parola divina ha origine a seconda di ciò che il cuore di Ptah ha pensato
e che la sua lingua ha ordinato. Allo stesso modo furono create le fonti
di energia vitale. Ancora possiamo leggere: "Ptah-Tatenem mise al
mondo per prima cosa gli dei". Ptah striscia fuori dal grande lago
oscuro, dalla fonte inconoscibile della vita, e solamente quando da essa
è distinto, posto oltre i suoi limiti, ascende al ruolo di divinità
creatrice, di Artigiano che crea e modella la materia, assumendo però le
sembianze di Atum. Nel tempio di Menfi, città votata a Ptah, il gran
sacerdote del dio porta il titolo significativo di Decano dei Mastri
Artigiani, perché in quel recinto sacro erano tramandati gli insegnamenti
delle arti operative e speculative: architettura, scultura, medicina, arti
magiche, falegnameria, e oreficeria. Ptah deposita ogni segreto della
creazione, che poi trasfonde sia a livello celestiale, che terreno ad
altri artigiani, che modellano e riproducono in funzione delle proprie
capacità.
Per gli gnostici
alessandrini il Logos è il pensiero, il verbo divino, la Sophia, la prima
ipostasi, che separata dalla coscienza che l'ha partorita, produce
effetti. Essa determina un duplice disconoscimento fra Ente pensate,
pensiero, e azione sottostante. L'organizzazione della materia, la
creazione nel suo complesso, è frutto di un pensiero che non riproduce la
totalità, l'unità, della fonte prima. Determinando una difformità fra
creazione, pensiero, ed ente pensate (il quale è altro rispetto alla
sorgente), sia un abbandono insostenibile, che provoca nell'uomo cosciente
un ardente desiderio di ritorno, di abbandono della manifestazione poiché
imperfetta.
3.
L'inno al Logos
In
Principio era il Verbo.
Il Verbo è l'inizio del tempo, il Verbo è il crinale che separa
l'assoluto dall'irreversibilità della creazione stessa, poiché è un
principio distintivo e separativo, che ammette un prima e un dopo.
All’inizio era il Verbo, senza il Verbo non vi è stato un inizio ma
cos’è il verbo ? Il verbo non è solamente un suono articolato, e non
è neppure una semplice parola, ma è bensì la contestualizzazione e
trasmissione di un’azione. Il Verbo assume quindi un aspetto dinamico,
un imprimere forza, una manifestazione di volontà.
In Principio era il Verbo
può essere interpretato in termini assoluti ed in termini relativi, nel
primo caso si esclude che vi fosse altro prima del Verbo, ma come vedremo
questo è incongruente con il seguito dell’Inno, nel secondo caso
dobbiamo vedere questo Principio come la manifestazione di una Nuova
volontà ordinatrice e creatrice, che si va a sovrapporre o rettificare
altro.
Il passo Il
verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio, può essere tradotto
anche con il Verbo era presso il Dio (Padre), il Verbo era dio. Questo
perchè in greco viene fatta distinzione fra Theos accompagnato
dall'articolo determinativo (e che si riferisce al Padre) e Theos senza
tale articolo che significa potenza, o dio, ma non dio Padre. Quindi se
invece che una traduzione contestuale, si predilige una traduzione
letterale, dobbiamo vedere il Logos come una divinità a se stante e non
identitaria con Dio Padre. Ciò sarebbe in accordo con la teologia
gnostica delle ipostasi, cioè delle creazioni sottostanti, ma anche con
il dogma della Trinità. In entrambi i casi ci troviamo di fronte ad un
elemento distintivo del Vangelo di Giovanni, che introduce la questione
teologica in quella che per gli altri Vangeli è la semplice narrazione
della vita e della morte di Gesù.
Che questo passo sia
cruciale è evidenziato anche da traduzioni ebraiche, che nell’ottica
dell’attesa messianica indicano come il testo greco si riferisce al logos, e alla sua funzione,
attraverso pronomi impersonali. In
tale ottica il Logos viene degradato da persona a semplice strumento o
manifestazione o attributo divino. Quindi da agente di creazione, esso
diviene strumento e leva di creazione. Ciò risponde ad una triplice
esigenza. La prima quella di ricondurre il Vangelo di Giovanni, e il
cristianesimo, all’interno dell’alveo della tradizione religiosa
ebraica, la seconda è quello del perdurare dell’attesa messianica
attraverso la rimozione del Logos incarnato in Cristo. Infine la terza
negando la persona del Logos, si negano i presupposti tradizionali nel
canone cristiano alla Trinità, e questo in accordo con la visione
unitaria e monolitica di Dio da parte degli Ebrei.
Anche il passo tutto
è stato fatto per mezzo di lui apre le porte ad un interrogativo:
se tutto è fatto attraverso il Logos, come fa il Logos ad esistere al di
fuori della sfera del Dio Padre ? Il Logos è un principio creatore
increato ? Già in questo Prologo siamo in presenza del binomio teologico
Generato e Creato ?! Oppure questo suggerisce una duplice creazione,
aprendo così le porte allo gnosticismo dualista, o in alternativa alla
teogonia ipostatica di Valentino ?! Sicuramente il Logos di Giovanni
appare molto simile al Demiurgo Platonico, che posto al centro
dell'Universo e del Tempo plasma la materia infondendo in essa sostanza
tratta dal mondo delle idee. La forte attinenza del Prologo con la
filosofia greca si ha anche nel concetto stesso di Logos creatore, che è
sovrapponibile a quello stoico dove troviamo il logos spermatikòs: un
principio igneo che diffonde la vita nella materia. Il Logos assume quindi
le caratteristiche di un agente trasmutativo, così come in alchimia è il
fuoco, unico fra gli elementi, che può determinare per sua presenza o
assenza il cambiamento di stato degli componenti dell'universo.
In tutta risposta i
traduttori di cultura e religione ebraica si
richiamano ad una traduzione del 1526 ad opera di Tyndale
“Tutte le cose sono state
fatte da esso, e senza di essa, neppure una delle cose fatte è stata
fatta. In essa era la vita e la vita era la luce degli uomini.”
Dove ovviamente non si vede il Logos come una persona divina, ma bensì
come la parola divina e quindi un semplice attributo del Dio Padre.
E' ancora interessante
notare come in alcune comunità gnostiche questo passo veniva tradotto
come:" Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui, il
Niente è stato fatto di tutto ciò che esiste." In questo caso siamo
innanzi ad un'impostazione gnostica dualistica prossima quindi al
manicheismo o al catarismo (espressione gnostica tarda) che suggerisce non
solo una doppia creazione, ma anche una differenza qualitativa fra le due
creazioni in quanto non provenienti dalla stessa radice: Una che proviene
dal Logos divino, ed una che proviene dal Nulla.
Impostazione dualistica
che sembra avvalorata dai passi seguenti dove si parla delle Tenebre che
non accolgono la Luce. Ovviamente la riflessione che scaturisce è se il
Logos è Luce e tutto è stato creato tramite il Logos, chi ha creato gli
uomini e le tenebre ?! Dove per i primi l'accogliere il Logos è
discrimine fra vita e morte spirituale, e per le seconde che non lo
accolgono di preesistenza in quanto la luce non può genere le tenebre,
così come le tenebre non possono generare la luce.
Inoltre non possiamo
notare l’interessante rapporto che l’estensore dell’Inno ha con il
tempo e la sua linearità. Il tempo così importante per noi moderni,
tanto da essere alla base del nostro processionare lungo la vita, con le
sue cadenze socialmente imposte, per l’autore di questo brano pare
essere una porosa membrana deflorata da logos, e dagli altri attori. Tutto
ha inizio con il Logos, questi è l’agente che crea, però
successivamente troviamo che sullo sfondo del tessuto narrativo si agitano
già uomini e tenebra: i primi in attesa di luce e vita, e la seconda
animata da spirito di sopraffazione. E’ un tempo diverso ?! Oppure un
Logos diverso ?! Oppure ci troviamo innanzi ad elementi tipici della
speculazione di Basilide che ci narra di un Cristo Igneo che di
manifestazione in manifestazione ne assume la forma ad essa maggiormente
indicata ?! Dove il tempo assume la duplice veste di elemento relativo
all’insieme in cui il Logos agisce, e movimento esterno all’insieme
del Logos stesso. Per gli antichi greci il tempo era circolare, tutto si
ripeteva all’infinito. Nella tradizione ebraica il tempo ha un inizio,
ma non ha una fine, in quanto l’assoggettamento dell’uomo alla volontà
di Dio è un atto dovuto a prescindere il senso di questa legge e la
finalità della medesima: un semplice meccanismo. Nella forma religiosa
del cristianesimo esiste un tempo degli uomini che ha fine con la seconda
venuta del Cristo, che è al contempo principio del tempo di Dio. Infine
nello gnosticismo il tempo che cadenza la vita degli uomini ha fine
relativamente al singolo gnostico che raggiunge la Gnosis, la quale lo
pone oltre il flusso spazio temporale assumendo forma e contenuto di
redenzione. Nell’Inno al Logos abbiamo che quest’ultimo irrompe nella
vita degli uomini, alterando in coloro che lo accolgono la percezione del
circostante.
4.
Protennoia trimorfica
Riportiamo di seguito un
testo barbelo gnostico che mostra una sorprendente similitudine con il
Prologo del Vangelo di Giovanni. I Barbelo gnostici ritenevano che la
caduta pneumatica, così come la risalita verso la casa del Padre (il
Pleroma) fossero determinati da un'espressione divina femminle (Barbelo,
Sophia, Zoe, ecc..) introducendo così il conflitto fra conoscenza ed
emozioni, fra ragione ed errore. La Protennoia Trimorfica è stata ritrovata
tra i codici di Nag Hammadi (codice XIII, trattato I), ed è
collocabile nei primi anni del secondo secolo dell'era cristiana.
Io sono la Protennoia, il
Pensiero che dimora nella Luce,
io sono il movimento che dimora nel Tutto,
colei in cui il Tutto pone le proprie fondamenta,
la primogenita tra coloro che vennero all’esistenza,
colei che esiste prima del Tutto, colei che è chiamata con tre nomi,
che esiste di per sé, essendo perfetta.
Io sono invisibile all’interno del Pensiero dell’Invisibile Uno
e sono rivelata in ciò che è incommensurabile e ineffabile.
Sono incomprensibile, stando all’interno dell’incomprensibile.
Mi muovo in ogni creatura.
Sono la vita della mia Epinoia,
ciò che dimora in ogni Potenza e in ogni eterno movimento,
all’interno di Luci invisibili,
all’interno degli Arconti e degli Angeli,
dei Demoni e di ogni anima che dimora nel Tartaro,
di ogni anima materiale.
Io dimoro in coloro che vennero all’esistenza.
Io mi muovo in ognuno e scendo nel profondo di tutti.
Io vado rettamente e risveglio colui che dorme,
sono la visione di coloro che sognano nel sonno.
Io sono l’Uno invisibile all’interno del Tutto.
Io sono colei che consiglia coloro che sono nascosti
E conosco il Tutto che esiste nel nascondimento.
Io sono senza numero al di là di ognuno.
Io sono incommensurabile e impronunciabile,
eppure se lo desidero mi manifesterò, interamente,
perché sono lo Splendore del Tutto.
Io esisto prima del Tutto e sono il Tutto
perché esisto in ognuno.
Io sono una voce che parla sommessamente.
Io esisto dal principio nel Silenzio.
Io sono ciò che è in ogni voce
e la voce che è nascosta in me,
nell’incomprensibile illimitato pensiero all’interno dell’illimitato
Silenzio.
Io discesi nel centro degli inferi
e risplendetti sopra l’Oscurità.
Io sono colei che versò l’acqua.
Io sono colei che è nascosta nelle acque radianti.
Io sono colei che illuminò gradualmente il Tutto col mio Pensiero.
Io sono unita alla Voce
Ed è attraverso me che la Gnosi si manifesta.
Io dimoro negli ineffabili e negli incomprensibili.
Io sono la percezione e la Conoscenza,
emettendo una Voce per mezzo di Pensiero.
Sono la Voce reale e parlo in ognuno
ed essi la riconoscono dato che in loro dimora un Seme.
Io sono il Pensiero del Genitore
e fu innanzitutto attraverso me che la Voce venne,
cioè la Conoscenza di cose che non hanno fine.
Io esisto come Pensiero per il Tutto,
in armonia col Pensiero, inconoscibile, irraggiungibile.
Io manifestai me stessa – Io – tra tutti coloro che mi riconoscono,
perché io sono colei che è unita ad ognuno
nel Pensiero nascosto e nella Voce esaltata.
Tale Voce viene dal Pensiero nascosto,
incommensurabile dimora nell’Incommensurabile.
È un mistero, irrefrenabile per la sua incomprensibilità,
invisibile a tutti coloro che sono manifesti nel Tutto.
È luce che dimora in Luce.
Noi soli siamo separati dal mondo manifesto
dato che siamo salvati dalla nascosta saggezza dei nostri cuori
per mezzo dell’ineffabile e incommensurabile Pensiero.
Colui che è nascosto dentro di noi paga i tributi del suo frutto
alle acque di Vita.
Allora il Figlio che originò attraverso questa Voce,
che procede dall’alto,
egli che possiede dentro di sé il nome che è una Luce,
rivelò le cose imperiture
e tutte le cose sconosciute furono rese note
e queste cose, difficili da interpretare
e segrete, egli rivelò,
e per coloro che dimorano nel Silenzio con il primo Pensiero,
egli predicò loro.
A coloro che dimorano nell’Oscurità egli si rivelò,
a coloro che dimorano nell’Abisso, egli si mostrò,
a coloro che dimorano nei tesori nascosti,
egli disse i misteri ineffabili e li illuminò,
tutti figli della Luce, su dottrine irripetibili.
La Voce che origina dal mio Pensiero, esiste come tre stati,
il Padre, la Madre, il Figlio, come un suono percettibile.
Essa possiede la Parola dentro di sé – Parola dotata di ogni gloria.
Possiede tre mascolinità, tre potenze, tre nomi,
esistendo come Tre – tetrangolati –
nascosti nel silenzio dell’Ineffabile.
Nessuno può con sicurezza
affermare che l’Inno al Logos ha influenzato la stesura di questo
scritto, e neppure che questo scritto ha influenzato la stesura
dell’Inno al Logos. Possiamo però affermare che fra i due scritti ci
sono delle profonde assonanze, che suggeriscono come al tempo della loro
stesura esistessero numerose casse di risonanza per queste visioni
filosofiche, che in seguito sarebbero state violentemente combattute dalla
stessa Chiesa.
5.
Conclusioni
Malgrado la brevità dei passi che compongono l'Inno al Logos abbiamo potuto
apprezzare la molteplicità di feconde riflessioni che da essi
scaturiscano, di cui in questo breve lavoro ho potuto evidenziarne
solamente una misera parte.
L'autore dell’Inno
sembra non essere estraneo a concetti cari alla filosofia greca, e allo
gnosticismo alessandrino. Questo Logos fecondo che dona la vita, richiama
la filosofia stoica ma anche il concetto di Demiurgo Platonico. Le Tenebre
che cercano di sopraffare la Luce, e il non mischiarsi della seconda con
le prime richiamo lo zoroastrismo, l'antica religione dei Magi, dove Luce
e Tenebre erano in lotta fra loro, e il fuoco rappresenta la vita e la
conoscenza.
Così come la generazione
del Logos richiama prepotentemente gli scritti dei maestro gnostici
Valentino e Basilide, che vedevano nella conoscenza la via e la forma di
redenzione e rettificazione dell’uomo.
A prescindere dalle varie
riflessioni, che ognuno di noi può trarre dall'Inno al Logos, dobbiamo
chiederci se questa sua capacità di svelare infiniti scrigni di sapienza
dipenda da una chiara volontà del suo estensore, oppure sia frutto del
caso, ed inoltre che scopo è stato inserito il Vangelo di Giovanni in
seno alla raccolta del Nuovo Testamento, tenuto conto della sua difformità
rispetto ai sinottici?
Il sottoscritto non crede
molto al caso, specialmente quando abbiamo innanzi a noi un testo che è
il frutto di una serie di stesure successive, e che oramai fa parte del
canone sacro cristiano da quasi duemila anni. Gli studiosi sostengono che
la compilazione del Vangelo di Giovanni si durata oltre cinquanta anni,
possiamo però ipotizzare che nel corso di questo periodo vi siano stati
degli apporti e delle inclusioni, e che il Vangelo di Giovanni sia
solamente ciò che sta attorno al Prologo, così come il Prologo è
un’appendice all’Inno al Logos. Opera che ha come fine quello di
raccogliere elementi
filosofici e metafisici, all'interno di una narrazione che in qualche modo
incontrasse la capacità di lettura e di ascolto dei semplici, e non
turbasse troppo il sonno dei censori. Una volta che questo Vangelo ebbe
conquistato il cuore delle comunità dei fedeli, la sua inclusione nel
canone fu necessaria, e non più ostacolabile, e da quel momento la sua
preservazione garantita. Un’astuta
operazione, attraverso la quale la narrazione delle opere e della storia
di Gesù non sono altro che il cavallo di troia, lo strumento, attraverso
cui traghettare nel cuore della nascente e vincente religione elementi
filosofici si destinati ai pochi uomini di conoscenza, ma che
necessariamente dovevano essere salvaguardati dal crollo imminente del
mondo greco-romano, e traghettati nella nuova era. Attraverso una nuova
forma narrativa, oppure inseriti all’interno di una nuova forma
narrativa che ne garantiva la capillare diffusione attraverso la
ripetizione orale e rituale.
Possiamo ancora vedere
questa operazione nell’ottica delle anime del cristianesimo primitivo,
quella ebraica e quella greca alessandrina, raccolte e cristallizzate nel
canone. Dove la prima, meno colta, dispone di un numero maggiore di testi,
e la seconda, legata alla conoscenza e al misticismo, di un numero minore
ma qualitativamente superiore. In questa prospettiva possiamo vedere il
Canone nuovo testamentario come la composizione, o ricomposizione, di quel
mosaico che erano le comunità cristiane dei primi secoli della nuova era:
la testimonianza eterna all'interno della tradizione scritta non solo dei
vari rapporti di forza, ma anche delle varie radici spirituali.
Già questo schema era
presente nell'insegnamento di Gesù, dove al numero degli apostoli si
contrapponeva il ruolo di prediletto di Giovanni, e dove coesistevano
diverse provenienze e sensibilità spirituali ed umane. A San Pietro il
compito di guidare il gregge, a Matteo, Luca e Marco quello di incarnare
l'insegnamento morale quindi legato ad una visione orizzontale e
normativa, mentre a Giovanni quello di offrire il fiore della mistica e
della filosofia a coloro che erano in grado di coglierlo. Del resto la
duplicità dell'insegnamento religioso è insita nella religione
cattolica, dove il culto e la fede sono riservati al popolo, e
l'amministrazione del culto e la teologia riservati alla classe
sacerdotale.
Rimane adesso un'ultima
riflessione da proporre al paziente lettore. L'Inno al Logos disegna una
creazione basata sull'intelletto, che si manifesta nel Logos vivente,
capace di portare vita e luce laddove prima albergavano le tenebre.
Possiamo quindi affermare che siamo innanzi ad una seconda genesi, non più
basata sul diletto di un fare meccanico in guisa del piacere della divinità
così come appare nel'apertura dell'Antico Testamento; quanto piuttosto
una creazione frutto di amore e ragionamento. Nella precedente genesi la
divinità vede a posteriori ciò che è buono e giusto rispetto al proprio
giudizio, nell’Inno al Logos tutto è vita e luce.
Sorge adesso un ultimo
dubbio, considerazione, o semplice ronzare dell'intelletto. Le tenebre che
cercano di sopraffare la luce del logos portatore di vita, non saranno
state il frutto della precedente creazione legata ad un cieco ed umorale
fare ? Rientrando così nel solco non solo della Tradizione barbelo
gnostica a cui appartiene anche il testo gnostico in precedenza proposto,
ma alimentando la speculazione di Marcione attorno al Dio Buono del Nuovo
Testamento, e al Dio degli Ebrei. Altrimenti che senso avrebbe l’Inno al
Logos, e le contraddizioni che sono tali solamente se cerchiamo di vedere
in esso una forma ellenizzata della genesi dell’Antico Testamento ?
Forse non possiamo
affermare che il Vangelo di Giovanni sia un testo gnostico, ma sicuramente
possiamo affermare che numerosi sono gli indizi che portano a ritenere
tale l’Inno al Logos. Andando così a tratteggiare un mondo spirituale e
filosofico molto frastagliato e confuso, e ponendo la nascita del
cristianesimo in un limbo non necessariamente riconducibile alla nascita e
predicazione di Gesù
In
conclusione ciò che sicuramente possiamo affermare è come attraverso
l'Inno alla Luce l'estensore del testo, pare voglia separare in modo
vigoroso la radice ebraica-messianica dalla radice greca alessandrina
della deità generata. Liquidando così l'intera questione del retaggio
ebraico come non necessaria non solo alla teologia cristiana, ma alla
radice stessa della spiritualità cristiana.
(Autore: Filippo
Goti) |
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