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Gianluca Toro

Piante "magiche":

 ÈRBO D’LA DEIFÈRO, ERBA DEL PICCHIO E MANDRAGORA: POSSIBILI CORRISPONDENZE

Tra tutte le piante della tradizione popolare delle Valli Valdesi, note per il loro diversi utilizzi (per lo più come alimento e medicina), quelle più affascinanti sono sicuramente le cosiddette “piante magiche”, dotate di particolari poteri. Una di queste è senz’altro l’èrbo d’la deifèro, a cui sembra che gli studiosi locali abbiano dedicato scarso interesse. Lo scopo del presente articolo è proprio quello di proporre un’identificazione botanica per questa pianta, sulla base della letteratura disponibile e di relazioni con altre conoscenze tradizionali.  

T.G. Pons, nella Vita montanara e tradizioni popolari alpine (Valli Valdesi) II (1979), riporta l’esistenza, in passato, di una pianta che, quando calpestata, faceva cadere i chiodi delle scarpe e i ferri delle bestie da soma, pianta nota come èrbo d’la deifèro. Cresceva solo in talune località, nei prati di Coulmian (Massello) secondo gli abitanti di Prali, sul costone del Laz Arâ, tra Pomaretto e Pramollo, per quelli di Massello.

A giudicare dagli effetti causati secondo la credenza popolare, sarebbe una pianta molto potente, forse rispettata per la sua azione straordinaria e generalmente evitata. Il fatto di fare cadere i chiodi delle scarpe e i ferri delle bestie da soma potrebbe rimandare a una difficoltà nell’avanzare seguendo una certa direzione, a una mancanza di equilibrio e, per estensione, a un possibile effetto inebriante di questa pianta. Potrebbe trattarsi di una pianta relativamente più diffusa in passato che al giorno d’oggi, la cui conoscenza (relativa sia all’identificazione botanica che alle proprietà) si è gradualmente persa con il passare del tempo.

Lo stesso Pons prosegue affermando che questa pianta potrebbe essere una vaga reminiscenza di quella citata nel De las propiotas de las Animanças, o Bestiario Valdese (XV-XVI secolo), in associazione con il picchio (Cap. XI) (Borghi Cedrini 1976):  

“La proprietà del picchio è questa, che scava l’albero con il suo becco e, fatto un grande foro, vi fa dentro il suo nido. Quindi, se qualcuno gli chiude il foro con un legno o una pietra, lo stesso si allontana subito e riporta una certa erba; e con quell’erba tocca ciò che è stato chiuso, e subito si leva; e dopo può ritornare al suo proprio nido. Da cui si deve ricavare  in modo figurato questa proprietà; se qualche diavolo ti chiudesse il nido, cioè la via per arrivare alla patria celeste, ti mostro la via per ritornare alla gloria ovvero alla propria patria celeste con una certa erba, cioè con la virtù e con il buon operato, con la quale si elimina ciò che è stato chiuso, cioè ogni impedimento che ti impedisce di ritornare alla propria patria; infatti la gloria eterna è la nostra patria, secondo il detto di Boezio: Ti mostrerò la via per mezzo della quale ritornerai alla tua patria”.

Credenze simili si ritrovano nella letteratura classica antica, in quella medievale e nelle tradizioni popolari europee.

Tra gli autori classici, ricordiamo Plinio Il Vecchio (I secolo d.C.), che nell’Historia naturalis (X, 20) scrive:

“E’ credenza popolare che i cunei conficcati da un pastore nei loro nidi [dei picchi], se viene avvicinata dagli uccelli una certa erba, sgusciano via. Trobio sostiene che un chiodo o un cuneo, con quanta forza lo si conficchi dentro un albero in cui il picchio ha il nido, subito salta via con il crepitare dell’albero, quando l’animale vi si è posato”.

La credenza riportata dagli autori classici sarà ripresa nei Bestiari medievali, secondo interpretazioni simili a quella del Bestiario Valdese. Un’interpretazione particolare è quella erotica, contenuta per esempio nel Bestiaire d’Amours (metà del XII secolo) di R. De Fornival, sottoforma di racconto autobiografico fittizio di un amore infelice (Morini 1996):  

“Così, mia carissima amata, se la mia preghiera vi infastidisce come dite, ve ne potreste liberare benissimo concedendomi il vostro cuore, perché io vi inseguo soltanto per questo […]. Ma è chiuso con una serratura così resistente che io non potrei venirne a capo, perché la chiave non è in mio possesso e voi, che avete la chiave, non volete aprirla. Pertanto non so come si potrebbe aprire questo petto, a meno che non possedessi l’erba con la quale il picchio verde fa saltare il cavicchio fuori del suo nido.

La sua natura, infatti, è tale per cui quando trova un albero cavo con una stretta apertura vi fa il proprio nido. E alcune persone, per fare la prova di un simile prodigio, tappano il buco con un cavicchio che vi conficcano con forza. Quando il picchio verde ritorna e trova il nido tappato in maniera tale che tutta la sua forza non potrebbe bastare ad aprirlo, riesce a vincere la forza con l’astuzia e con l’intelligenza. Giacchè conosce per sua natura un’erba che ha il potere di aprire: la cerca finchè la trova, la porta nel becco e con essa tocca il cavicchio, che immediatamente salta fuori.

Perciò io dico, carissima amica, che se potessi avere un po’ di questa erba proverei a vedere se riuscissi ad aprire il vostro dolce petto per prendervi il cuore. Ma ignoro di quale erba si tratti, a meno che non sia la ragione”.

Nella tradizione popolare francese del Berry, esiste una credenza relativa alla cosiddetta erba del picchio, credenza riportata da E. Rolland nella Flore populaire de la France (1898 - 1914):

“L’erba del picchio è una pianta magica che ha la proprietà di infondere una forza sovrannaturale a colui che se ne strofini le membra. Ecco il mezzo per procurarsela: osservare il volo e i modi di un picchio verde, e quando lo si vedrà fermarsi vicino a un’erba a cui strofinerà il suo becco, ci si potrà deliziare di avere trovato il prezioso talismano. Questa erba incomparabile che dona al picchio verde la forza di forare fino al cuore le querce più dure, si trova anche qualche volta nello stesso nido dell’uccello. In più, si assicura che questa pianta è, in inverno come in estate, coperta di rugiada […].

In questo caso, l’erba del picchio è stata identificata con la mandragora (Borghini 1997).

La mandragora può essere considerata la pianta magica per eccellenza, la più nota nella cultura occidentale (Müller-Ebeling & Rätsch 2004). E’ stata, ed è ancora, fonte di leggende e ricerche. E’ una pianta profondamente legata alla mitologia e alle credenze popolari in diverse parti del mondo e la grande varietà di denominazioni che ha assunto presso differenti culture, antiche e moderne, testimonia del molteplice e profondo significato culturale che ha conquistato e mantenuto nel corso del tempo. Forse la leggenda più nota sull’origine della mandragora è quella che la fa nascere dallo sperma o dall’urina degli impiccati. La raccolta della radice era considerata difficile e pericolosa e avveniva per lo più nelle ore notturne, quando la sua luminosità permetteva di localizzarla. Si credeva che, all’estrazione, la pianta emettesse un grido che poteva fare impazzire o uccidere. Per tale motivo, ci si poneva sopravento per evitare l’odore venefico emanato, ma soprattutto, per sradicarla, si usava un cane che moriva al posto dell’uomo. La mandragora ebbe diversi usi in passato, usi che in alcuni casi si sono mantenuti ancora al giorno d’oggi. Si impiegava come specie psicoattiva, con effetto inebriante, allucinogeno e delirogeno, soprattutto nella stregoneria europea, come afrodisiaco e nella magia dell’amore, in cerimoniali erotici. Per il fatto che la radice possiede una forma che ricorda quella umana, si pensava che la mandragora avesse un grande potere ed era quindi usata in pratiche magiche. Nell’occultismo, l’impiego più conosciuto della radice era sotto forma di homunculus, cioè di piccolo essere umano dotato di coscienza, dai poteri sovrannaturali e adatto a diversi servizi. In medicina, si usava essenzialmente come narcotico e antidolorifico.

Tra la mandragora e la quercia citata nel passo precedente esiste una relazione. Infatti, la mandragora era considerata la pianta di Ecate, dea greca degli inferi, degli spiriti notturni e della stregoneria, strega essa stessa, e la quercia le era sacra. Ricordiamo che, secondo la tradizione popolare pistoiese, per l’estrazione della mandragora si usava un bastone di legno di quercia, a cui veniva attaccata una corda (Borghini 1997; Müller-Ebeling & Rätsch 2004). Inoltre, l’erba del picchio è descritta come ricoperta di rugiada, e proprio le gocce di rugiada, per un effetto ottico in certe condizioni atmosferiche, farebbero apparire la pianta luminosa (Rudgley 2000).

L’associazione del picchio con la mandragora si ritrova anche in una credenza tedesca, la quale indica un metodo per raccogliere questa pianta (Jordan & Jordan 2008). Se nel nido di un picchio vi sono dei piccoli, lo si chiude. L’uccello vola subito via per cercare una radice di mandragora con cui aprire il nido. Al suo ritorno, si grida per spaventarlo, cosicchè il picchio lascia cadere la radice, la quale deve essere raccolta in un panno rosso, senza che tocchi terra.   

Dai documenti citati, è quindi possibile ipotizzare che l’èrbo d’la deifèro corrisponda all’erba del picchio e quindi alla mandragora, in modo specifico alla Mandragora officinarum, al giorno d’oggi molto rara in Italia e segnalata in Piemonte, Val d’Aosta e Veneto, anticamente anche in Umbria e Marche (Pignatti 1982; Müller-Ebeling & Rätsch 2004).

Secondo Rolland, nell’opera citata, la mandragora è un essere fantastico il quale semina nei prati una pianta che produce vertigine in chi la calpesti, impedendo di riconoscere i luoghi che sono famigliari. Ciò ben si adatta alla descrizione riportata inizialmente per l’èrbo d’la deifèro, la quale mostra il suo effetto quando è calpestata, causando un certo disorientamento, espresso attraverso l’immagine della perdita dei chiodi delle scarpe e dei ferri delle bestie da soma.

Inoltre, la mandragora serviva per aprire magicamente le serrature, soprattutto quelle dei forzieri contenenti tesori, da cui il termine popolare tedesco Springwurz, da sprengen, “forzare”, “scassinare”, quindi “radice per scassinare” (Jordan & Jordan 2008). Inoltre, nel XVI secolo, vi era la regola che nelle prigioni non si potesse tenere la radice di mandragora, poiché avrebbe permesso di aprire ogni serratura (Jordan & Jordan 2008). Similmente, questo impiego magico trova corrispondenza nella proprietà dell’èrbo d’la deifèro di aprire un luogo in qualche modo chiuso.

In definitiva, la testimonianza sull’èrbo d’la deifèro a opera di Pons potrebbe costituire, sia per le Valli Valdesi che per il territorio italiano in generale, un importante documento relativo alla credenza popolare nelle proprietà magiche della mandragora.

Prossimamente, è prevista un’indagine sul campo, per verificare se la conoscenza dell’èrbo d’la deifèro sopravvive ancora e in quale forma. A tal proposito, qualsiasi proposta di approfondimento e collaborazione è ben accetta.

Riferimenti

-         Borghi Cedrini L., 1976, Appunti per la lettura di un Bestiario medievale. Il Bestiario Valdese, Torino

-         Borghini A., 1997, “L’estrazione della mandragola nel folklore pistoiese. A proposito di mandragola e quercia”, Le Apuane, 34: 116-121

-         Jordan H. & U. Jordan, 2008, Comunicazione personale (Runkel)

-         Morini L. (Cur.), 1996, Bestiari medievali, G. Einaudi Editore, Torino

-         Müller-Ebeling C. & C. Rätsch, 2004, Zauberpflanze Alraune. Die magische Mandragora, Nachtschatten Verlag, Solothurn

-         Pignatti S., 1982, Flora d’Italia, Edagricole, Bologna

-         Pons T.G., 1979, Vita montanara e tradizioni popolari alpine (Valli Valdesi) II, Claudiana Editrice, Torino

-         Rolland E., 1898 - 1914, Flore populaire de la France, Rolland, Paris

-         Rudgley R., 2000, Encyclopedia of Psychoactive Substances, Little, Brown and Company, UK

 

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