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Abelardo, Pietro (Pallet, Bretagna 1079 ca. - Châlon-sur-Saône 1142 ca.), filosofo e teologo francese. A Loches fu discepolo del filosofo nominalista Roscellino e a Parigi del filosofo realista Guglielmo di Champeaux. Divenuto maestro di logica e di teologia alla scuola cattedrale di Parigi, acquistò grande fama criticando le dottrine dei suoi maestri.
Dal 1117 fu precettore e in seguito divenne amante di Eloisa, nipote di Fulberto, canonico della cattedrale di Notre-Dame a Parigi. La coppia, sposatasi in gran segreto, subì la vendetta del canonico: Abelardo venne punito con l'evirazione e si ritirò nell'abbazia parigina di Saint-Denis, mentre Eloisa prese i voti presso il convento benedettino di Saint-Argenteuil.
Le sue dottrine sulla Trinità, esposte nell'opera De Unitate et Trinitate divina (1121), vennero accusate di eresia dal concilio di Soissons che impose ad Abelardo di bruciare di propria mano lo scritto. Abelardo si rifugiò nel monastero da lui fondato al Paracleto (un eremo situato a poca distanza da Provins) e nel 1125 fu nominato abate a Saint-Gildas-de-Rhuis, raccogliendo attorno a sé un gran numero di discepoli. A quegli anni risalgono lo scritto autobiografico Historia calamitatum mearum (Storia delle mie disgrazie, 1132) e l'epistolario con Eloisa, uno straordinario documento della letteratura medievale.(http://digilander.libero.it/dilucas2000/Abelardo2.htm)

ABELARDO E GLI UNIVERSALI (http://www.homolaicus.com/teorici/abelardo/abelardo.htm)

Nella disputa medievale sugli universali, il realismo rappresenta ciò che a partire dal XIX sec. ha preso il nome di idealismo, mentre il nominalismo rappresenta il materialismo volgare (pre-marxista), quel materialismo che dovrebbe essere attentamente riconsiderato.
Delle due correnti, in effetti, si sarebbe tentati dal preferire la seconda (il nominalismo), ma giustamente la prima (il realismo) ebbe la meglio. Benché il realismo di Scoto Eriugena, di Anselmo e della Scuola di Chartres esprimesse indubbiamente le posizioni più retrive e conservatrici, esso restava, dal punto di vista teoretico, più rigoroso del nominalismo.
Qui naturalmente si prescinde dal fatto che la suddetta disputa fosse più formale che sostanziale, più astratta che concreta; anzi, in tal senso, è davvero significativo che la cultura dominante non avesse altro di cui occuparsi e che restasse del tutto estranea ai problemi più urgenti della sfera socio-economica e politica.
E' fuor di dubbio, tuttavia, che se nella disputa il nominalismo avesse vinto, le forze della "ragione", rispetto a quelle della "fede", avrebbero tratto, col tempo, un certo giovamento.
La cosa però non è avvenuta, e per una semplice ragione: il nominalismo non è mai riuscito ad abbandonare il terreno della speculazione teologica. Non solo cioè esso accettò un dibattito accademico poco significativo, ma non fece neppure nulla per prescindere dall'"ipotesi" di Dio.
Quando un "realista" afferma che la verità dei propri enunciati è "assicurata" da Dio, ogni discussione è vana in partenza. Roscellino, limitandosi a sostenere che gli universali sono in realtà solo cose individuali, in quanto l'ante rem non esiste, contribuì allo sviluppo dell'ateismo, ma giustamente venne condannato. Il suo materialismo, infatti, era troppo convenzionale, troppo soggettivistico per essere credibile.
S'egli avesse affermato che gli universali esistono nella storicità degli uomini, nell'esperienza sociale ch'essi vivono, allora sì che il suo materialismo sarebbe stato credibile e la condanna immeritata. Non si può vincere l'idealismo in maniera superficiale, anche perché l'idealismo trae le sue origini dalla religione più sofisticata della storia: il cristianesimo. L'idealismo pre-cristiano non regge assolutamente il confronto con quello post-cristiano. Ecco perché il materialismo ha il compito di spostare radicalmente l'attenzione dell'osservatore da Dio all'uomo.
La differenza tra Roscellino e Abelardo sta nel fatto che per quest'ultimo il nominalismo doveva avere un valore logico, altrimenti diventava sterile, inutile. Per Abelardo il convenzionalismo doveva aspirare all'universalità, impedendo così al relativismo di assolutizzarsi.
L'universale, per Abelardo, non stava nella struttura delle cose, cioè in una loro qualità intrinseca, ma piuttosto nel loro modo di porsi (che lui chiamò status): un modo che poteva essere compreso razionalmente. Abelardo diceva che non c'è universale che non abbia rapporto con una cosa, però aggiungeva -sbagliando- che l'universalità delle cose dipende dal modo come queste cose si lasciano concettualizzare.
Abelardo non è mai stato in grado di chiarire se il senso dell'universale dipende da una pura convenzione o deriva dalla natura delle cose. Istintivamente egli preferiva la "causa comune" che si desume dalla natura delle cose, ma quando rifletteva filosoficamente ricadeva nel convenzionalismo (seppure in forma più elaborata rispetto a quella di Roscellino).
Bernardo di Chiaravalle non aveva tutti i torti quando criticava questi atteggiamenti intellettualistici, ma non aveva alcuna ragione quando lo faceva per impedire la ricerca e per imporre la verità della chiesa ufficiale.
Più interessante è il discorso etico di Abelardo, soprattutto laddove egli distingue tra "vizi dell'anima" (le inclinazioni naturali al male, i difetti oggettivi della persona, strutturali al suo esserci, secondo la terminologia cattolico-romana), e il "peccato" vero e proprio, che è il consenso intenzionale, soggettivo, alle proprie attitudini negative.
Infine -dice ancora Abelardo-, vi è "l'azione cattiva" (oggettiva), che non dipende dal consenso volontario, ma è il frutto di circostanze fortemente condizionanti.
Abelardo criticò la morale conformistica del suo tempo, che tendeva a dividere la società in "buoni" e "cattivi", sulla base di determinati comportamenti esterni, formali. Egli cercò di sottrarre all'arroganza del clero la libertà del singolo credente, ma non seppe dare alle rivendicazioni laiche del singolo (intellettuale) un contenuto sociale e politico (come invece farà uno dei suoi discepoli: Arnaldo da Brescia).
Tuttavia, Abelardo (involontariamente) cercò anche di giustificare le contraddizioni del suo tempo, affermando che le inclinazioni dell'uomo verso il male sono naturali, cioè inevitabili (tesi, questa, tipica dell'idealismo, religioso e laico).
Egli disse che il "vero peccato" sta nel libero consenso a tali inclinazioni, ma ognuno si rende facilmente conto che se tali attitudini al vizio sono costitutive, il consenso ad esse sarà libero solo fino a un certo punto.
Abelardo non ha mai saputo trovare nella realtà sociale le cause che possono indurre l'uomo al male. Ingenuamente, egli arrivò ad affermare che l'azione diventa buona o cattiva se deriva da un'intenzione buona o cattiva. Con molta difficoltà egli avrebbe accettato l'idea che un'intenzione buona può generare un'azione cattiva.

 

 

Bibliografia:

Abelardo:"Storia delle mie disgrazie" Newton Compton, Roma, 1994, pagg. 24-25

"Fra le due rupi. La logica della Trinità nella discussione tra Roscellino, Anselmo e Abelardo"
di
Anselmo d'Aosta (sant') - Abelardo Pietro - Roscellino-
Edizione Unicopli. 2000

Il libro: Negli anni che chiudono l'XI secolo e nella prima metà del XII, si assiste a una ripresa vigorosa della discussione sul significato e sul modo di concepire la Trinità divina. Roscellino di Compiègne, Anselmo d'Aosta e Pietro Abelardo sono fra gli autori di questa impresa; la discussione indiretta avvenuta fra i tre maestri viene ricostruita attraverso la traduzione dell'Epistola ad Petrum Abelardum di Roscellino, dall'Epistola de incarnatione Verbi di Anselmo e di alcuni significativi passi delle opere logiche e teologiche di Abelardo.

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