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Quello che desideriamo proporre è una passeggiata inconsueta alla ricerca di
uno dei simboli più interessanti e ricchi di significati complessi e
profondi che vanno a toccare corde ancestrali dell'animo umano: la "Triplice
Cinta", in un paesino un po' defilato, generalmente non toccato dai flussi
turistici, ma probabilmente proprio per questo è uno scrigno ancora
inesplorato per gli appassionati di storia, di misteri e di simbologie. Il
paese si chiama Villa Santo Stefano, in provincia di Frosinone ma confinante
con quella di Latina. Arroccato in posizione dominante sulla verdeggiante
Valle del fiume Amaseno, di virgiliana memoria, affonda le proprie radici
nel periodo storico del cosiddetto "incastellamento" nell'Alto Medio Evo. Ma
le sue campagne sono state abitate sin dalla notte dei tempi, come
testimoniano i ritrovamenti litici, risalenti a circa 70.000 anni fa,
verificatisi nel corso dei decenni presso la "Macchia Comunale", Punta La
Lenza sul Monte Siserno e, soprattutto, quelli di Colle Formale (o Fornale o
Fornaro).
Da sfatare quanto riportato su numerosi testi ancora in circolazione. Non è
mai stata rinvenuta la benché minima traccia di mura poligonali nel
territorio santostefanese.
Quanto al nome della bella Torre cilindrica, detta di Re Metabo (Sovrano dei
Volsci e padre della Vergine Camilla), che si erge al centro del paese,
questa risale al XIV secolo e faceva buona guardia della Porta Urbica, così
lo spiega il grande storico locale Arthur Iorio (scomparso nel 2004) ”Deriva
da un iscrizione che un letteratuccio del paese vi fece mettere nel secolo
scorso in commemorazione della vicenda virgiliana, fino agli anni venti
sorgeva più alta del presente e diroccata. Nella finestra di mezzo si
riconoscevano le linee di una bifora ed in basso , al limite della scarpa,
si aprivano feritoie ad archibugio praticatevi probabilmente al tempo dei
briganti.” (v.nota 1)
Presso la Torre si trova la
“Loggia”, che avremo agio di studiare più avanti in questa trattazione.
La presenza romana è attestata dai lacerti dei condotti ausiliari dell'
"Acquedotto di Traiano", che portava l'acqua a Terracina, dal “Ponte Romano
di Valcatora” e ancora la “Villa Rustica” di Colle Formale, mappata e
vincolata dalla Soprintendenza.
Particolare rilievo riveste il sito della diruta Chiesa di San Giovanni in
Silvamatrice, nella contrada campestre "di San Giovanni". L'attuale
struttura risale al XIV secolo, ma non è altri che l'ultima delle numerose
sovrapposizioni susseguitesi nel corso dei secoli.
L'area circostante, vicinissima a "Colle Formale" ed alla sua "Villa
Rustica", ha restituito tracce di un "pagus" di epoca romana. Gli enormi
blocchi tufacei che si notano sul lato sinistro della chiesa, basamento
delle strutture medioevali, indicano la presenza di un tempio pagano. Forse
già Italico e poi Romano. Su questo venne innalzata una chiesa
paleocristiana, probabilmente a cavallo del IV e V secolo d.C., quindi,
quasi certamente la più antica della vallata.
E proprio tra quelle vetuste, sacre vestigia, sopravvissute alla forza
devastatrice del tempo, degli agenti atmosferici e dell'incuria dell'uomo, è
stato trovato quello che potrebbe essere il più arcaico esemplare
santostefanese di
Triplice Cinta (fig.1).
Si nota appena, consunta com'è, incisa sopra un blocco sbrecciato di tufo,
ammucchiato assieme a tanti altri nella zona della chiesa dove, non molto
tempo fa, si ergeva la parete alle spalle dell’altare. Impossibile capire
come e dove fosse collocato il blocco e la Triplice Cinta. Molto
probabilmente si trovava in posizione verticale ed interna all'edificio; ma
sono soltanto ipotesi. Se così fosse, sarebbe il secondo caso di Triplice
Cinta all'interno di una chiesa dopo quella sul pavimento di Sant'Antonio
Abate a Priverno, appartenuta all'Ordine degli Antoniani.
Quella di San Giovanni in Silvamatrice potrebbe essere stata l'archetipo, il
modello che ha originato tutte le altre, almeno sette, presenti in giro per
il paese. Da tenere presente che alcune "croci a coda di rondine", rinvenute
recentemente, assieme ad altre attualmente scomparse ma documentate da
vecchie fotografie degli anni '50, oltre ad altri elementi oggetti e
svariati indizi anche da fonti medioevali, sembrano concorrere ad attestare
che San Giovanni in Silvamatrice sia appartenuta all’Ordine Ospitaliero di
San Giovanni di Gerusalemme o Cavalieri Giovanniti poi Cavalieri di Rodi e
poi di Malta. Ordine sorto in Terrasanta, qualche anno prima di quello dei
Templari, secondo la tradizione ad opera di Fra’ Gerardo da Sasso, ma, più
probabilmente, grazie ad alcuni mercanti amalfitani.
In questo nostro giro turistico molto particolare partiamo proprio dalla
Torre di Re Metabo e dalla "Loggia". A questa specie di "galleria", da poco
restaurata, si accede da piazza Umberto I°, attraverso la porta urbica,
rifatta nel XV secolo, e percorrendola tutta si sbuca nella caratteristica
piazza del mercato. Antico "arengo" cittadino. Sul lungo sedile di pietra
dentro la "Loggia", dietro alcune bacheche, si possono vedere tre (forse
quattro, ma una è illeggibile)
Triplici Cinte
(fig.2-3-4). La posizione orizzontale sopra un sedile, in un luogo coperto e deputato
alla socializzazione, tutto lascia pensare che siano state realizzate per
scopi ludici. Parimenti si può dire per la Triplice Cinta incisa sopra un
grande blocco in pietra sotto un porticato in via della Portella, nella
parte bassa del borgo medioevale e per quella visibile su di un gradino
delle scale interne dell’edificio privato noto come "Palazzo del Marchese".
Costruito nella seconda metà del Settecento, da tale Giacomo Jorio, sopra i
ruderi della vecchia rocca.
La estesa presenza del simbolo della Triplice Cinta in diverse località,
fuori da edifici o siti sacri, come, ad esempio, a Priverno, a Carpineto, si
potrebbe spiegare proprio con la passione del gioco della "Tria" o "Filetto"
Eventualità che sembra non reggere nel caso della Triplice Cinta individuata
sulla soglia dell’ingresso di un edificio indicato con il numero civico 23
di via San Pietro (fig.5). Alle spalle della Parrocchiale di Santa Maria Assunta in
Cielo e non lontano da una “Croce Potenziata” scolpita su strutture
basamentali medioevali.
Il monolite calcareo, certamente materiale di reimpiego, che funge da soglia
si trova in posizione orizzontale, ma l'attenta analisi del manufatto lascia
supporre che la posizione originaria fosse quella verticale. L'ipotesi pare
corroborata dalla presenza, fatta rilevare dalla dottoressa Alessandra Leo,
storica dell'Arte e l'archeologo Italo Biddittu, accanto alla Triplice
Cinta, di una "Croce Latina"; intagliata con il braccio principale parallelo
al lato lungo del blocco di pietra. Se fosse davvero così, allora anche la
Triplice Cinta si sarebbe potuta ammirare sita verticalmente, facendo
decadere ogni illazione sulla sua natura di semplice tavola da gioco.
Rimane quindi il mistero sul motivo di quella realizzazione. Semplice
simbolo apotropaico o qualcosa di più? Gli ignoti artefici erano a
conoscenza di tutti i significati sottesi da quel "signum"? Gli studi sulle
Triplici Cinte di Villa Santo Stefano sono ancora agli inizi per potersi
pronunciare con un certo margine di sicurezza.
Prima di concludere, rimane da sottolineare la presenza di altri simboli tra
le vecchie case del paese. Sempre presso il lato posteriore della Chiesa
Parrocchiale di Santa Maria Assunta in Cielo (l'aspetto attuale risale al
XVIII secolo, ma sorge su una struttura medievale, dedicata a Santo Stefano
Protomartire, compatrono del paese) in via San Pietro, non molto distante
dalla già menzionata "Croce Potenziata", si nota un'altra piccola, "Croce
Latina". Entrambe potrebbero circoscrivere un area , appunto attorno alla
chiesa, in cui vigeva il "diritto d'asilo".
Proseguendo lungo la via San Pietro si incontrano i resti dell'omonima
chiesa incompiuta, all'interno della quale, sopra un intonaco sbrecciato è
stato scoperto un "Fiore della Vita".
A lato si trova il cosiddetto "Palazzo o Casa dei Monaci Bianchi", antica
sede della "Confraternita di San Pietro" del XVI secolo, ma erede di una
medioevale chiamata "di San Giovanni" forse in riferimento proprio a
Silvamatrice, dove, secondo Arthur Iorio, venivano praticati “riti
antichissimi, anche pre-cristiani”. In paese, la confraternita è sempre
stata chiamata “dei Sacconi”, dai “sacchi” di colore bianco indossati dai
suoi membri ed aveva fini assistenziali.
La passeggiata per gli antichi vicoli, tra vetusti edifici, che ogni tanto
si aprono su deliziosi panorami della vallata, ci offre anche tantissime
singolari "chiavi di volta" sugli ingressi ed artistiche bifore, oltre ad
ambienti voltati, dove si svolgeva la vita del paese nei tempi che furono.
Un piccolo gioiello sconosciuto, quindi, Villa Santo Stefano, che ancora
attende, silenzioso, di svelare i propri segreti.
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Immagini
relative:
fig. 1
fig. 2
fig. 3
fig. 4
fig. 5 |