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Lo Studiolo di Gubbio
Metropolitan Museum - New York
L’ultimo sole aveva abbandonato
il cielo visibile e la restante luce testimoniava della sua essenza: una
luce ancora calda del suo amore, che si spandeva nell’aria di cristallo,
traccia intuibile, ma impalpabile delle superne sfere celesti, dove lo
spirito umano cerca asilo e ventura.
Immagini fantastiche, risolte
in sacre geometrie, colmavano l’immensa vertigine delle regioni siderali,
limite ultimo del conoscibile, nell’ora in cui i cieli svelavano il mosaico
degli astri.
Nel chiuso dello Studiolo, il
Sovrano anelava alla ricostituzione di quell’unità che la corporea discesa
nelle incombenze del quotidiano aveva dissolto. E lo spazio ristretto
diveniva il luogo del symbolon, il ricongiungimento, dopo che le
forze disgreganti del diabolon, la separazione, avevano imperato
sulla grezza materia scindendo il corpo dallo spirito.
Così sulle tarsie dello
Studiolo, Federico leggeva lo spartito dell’armonia perduta, e la suscitava
per forza dell’amore, ed essa, rispondendo puntuale al richiamo, mai mancava
di concedere le proprie grazie all’amato.
Nel gesto del raccoglimento e
dell’isolamento, il Sovrano ripeteva il rituale di una gestazione che lo
rigenerava spiritualmente, mostrando l’incorreggibile quanto straordinaria
perfettibilità dell’essere umano.
L’io si ricostituiva perciò
nella sua interezza, pur nell’illusione tridimensionale, simbolo essa stessa
di un finito enigmatico e beffardo. Il gioco generato dall’illusione ottica
è in sé metafora della fallibilità dei sensi e dell’ingannevole percezione
di una realtà destinata a superare la forma e il messaggio in essa contenuti
ed a trascenderli, divenendo la forma stessa parte di un lessico iniziatico
in cui l’araldica disposizione dei simboli è occulta espressione di una
verità ineffabile.
Il potere espressivo dei
simboli e la loro capacità di rivelare mondi e dimensioni altrimenti
inaccessibili, libera dall’uomo energie psichiche e spirituali in grado di
raccordarsi con il divino e, con questo atto, di recuperare la valenza del
symbolon, così com’era inteso, in origine, nella Grecia classica:
segno di riconoscimento ottenuto spezzando in due un oggetto. Grazie a
questa operazione, Dio si rende conoscibile all’uomo ed apre un varco,
seppure angusto, verso la sua dimensione. Per conseguenza le parole
diventano inutili, la lingua parlata e scritta supera la babelica
confusione, e si unifica nel simbolo, anche se non sempre univoco, perché
pregnato di messaggi esoterici, collocati su molteplici livelli di
conoscenza. Perciò la sua totale comprensione diviene cammino iniziatico e
ascesa spirituale.
Lo studiolo è, nella sostanza,
rappresentazione visibile, ma non tangibile, dell’anima di Federico e ogni
scansia mostra all’osservatore una tessera della sua humanitas, non
più dispersa, ma colta nell’interezza che il luogo, situato in una “terra di
mezzo” sospesa tra immanente e trascendente, ha contribuito a ricostituire.
Nell’anelito verso il divino,
lo Studiolo è luogo di intima riflessione, sia sulla caducità degli onori
terreni sia sulla miseria delle umane debolezze: perciò coloro che tra gli
uomini sono eccelsi nel sapere e nelle gesta, non possono che prostrarsi a
capo scoperto al cospetto della Veneranda Madre, loro genitrice, come recita
il fregio che corre lungo il perimetro dello Studiolo. Nell’umiltà del
riconoscere la caducità della propria condizione, l’unico conforto risiede
infatti nella Filosofia di cui gli uomini eccelsi si considerano eterni
alunni.
L’insegnamento della
Tradizione, fatto dai Filosofi, si avvale dell’intuitività del simbolismo,
come mezzo che supera la mediazione del linguaggio, anche se quest’ultimo ne
è, in sostanza, forma implicita attraverso la quale il pensiero umano si
esteriorizza e si rende palese, pur valendosi della capacità analitica.
Da una visione d’insieme delle
immagini che decorano lo Studiolo, l’osservatore è spinto a riflettere sulla
natura del symbolon: è questa divina o umana? Se le leggi naturali si
fanno discendere dalla volontà divina e se riconosciamo nella natura umana
il fondamento del simbolismo, dovremmo optare per la sua origine divina. Si
instaura perciò una forma di gerarchia: ciò che in natura è percepibile dai
sensi, è simbolo del soprasensibile e l’ordine naturale è metafora
dell’ordine divino. L’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, è perciò
proiezione della divinità. In questa accezione anche il corpo, citando
Aristotele, è maschera dell’anima.
In tempi moderni, lo
psicologo potrebbe interpretare lo Studiolo in chiave junghiana ritrovando
al suo interno quegli archetipi propri
del processo d’individuazione che si attua lentamente nell’inconscio e che
penetra nella coscienza in forma di rappresentazione simbolica, manifestando
tutta la sua forza trasformatrice.
In questa chiave, può essere
leggibile il pannello numero XI dove, appoggiato su un sedile, è raffigurato
il libro chiuso e, sullo schienale, la granata esplodente. L’anta
dell’armadio è anch’essa serrata, e nulla lascia intravedere del contenuto.
Si tratta forse di una metafora dell’inconscio, di ciò che è nascosto e
sedimentato nell’oscurità profonda della psiche e che può prorompere
irrazionale e inarrestabile come lo scoppio di una granata? Che cosa sia
scritto sul libro e che cosa contenga l’armadio non è dato sapere, ma
l’immagine della granata consiglia cautela.
In un luogo dove tutto, in
apparenza, è visibile, questo è invece l’unico angolo ermeticamente
inaccessibile. Chi volesse intraprendere la via della Conoscenza, potrebbe
percorrere le tappe dell’iniziazione valendosi del linguaggio occulto dei
simboli. Giunto però allo stipo chiuso, egli dovrebbe fermarsi. Qual è il
discepolo degno di aprire il libro e di leggerlo, sempre che sia possibile
farlo? Ciò che vi troverà scritto potrà mai consentirgli l’accesso alla vera
consapevolezza o sarà invece fonte di infinita dannazione? Dipenderà dal
discepolo e dalla sua probità.
Infine: che cosa cela lo stipo?
Forse il compimento di tutto, forse la negazione, il rovesciamento, il
diabolon, l’inizio di un nuovo ciclo dominato dal caos che scompone e
disarticola ogni armonia, affinché qualcuno, nuovamente raccogliendo le
sparse note, ne componga una nuova e più alta.
E ricostituisca l'unità. |