www.duepassinelmistero.com

 

TEMATICHE:

Aggiornamenti

Alchimia

Antiche Civiltà

Archeoastronomia

Architetture

Colonne e Nodi

Due passi nell'Italia nascosta

Due passi nei misteri esteri

Fenomeni Insoliti

Interviste

L'Uomo e Dio

Maestri Comacini

Medioevo e...

Mistero o Mito?

Personaggi

Simbolismo

Simbologia e Cultura Orientale

Storia e dintorni...

Templari "magazine

Ultimi Reports

UTILITY:

Archivio reports

Bacheca

Collaboratori

Extra sito

Libri del mese

Links amici

Ricerca veloce titoli per argomento

SERVIZI:

FORUM

Newsletter

Avvertenze/ disclaimer

 

 

     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA SPIRITUALITA’ PRIMITIVA e la sua evoluzione verso il pensiero religioso . Esiste un filo conduttore tra la nascita del senso magico e le religioni tradizionali dell’Africa? Elaborato gentilmente inviato da   Elena Serughetti, relativo al suo esame di Antropologia a.s.1999/2000.

                                         Sommario:

  1.       La nascita del pensiero primitivo, rapporti tra magia e religione:  il saggio di Giuseppe Masi

*Rapporti tra magia, spiritualismo, religione, scienza

*Origine del senso magico

*Il mito, tra magia e religione

*Conclusione

 

2.  Le religioni tradizionali d’Africa

*Habitat e religione

*L’Essere supremo: nomi, natura e relazioni con il mondo umano

*I mediatori

*Le forze negative

*Il culto

*Conclusione

 

3.  Appendice: alcuni miti e racconti africani

  1. La nascita del pensiero primitivo, rapporti tra magia e religione:

il saggio di Giuseppe Masi

(“Lo spirito magico. Saggi sul pensiero primitivo”, CLUEB Bologna, 1999)

  Per la magia non si dovrebbe parlare di spiritualismo, ma semplicemente di spirito (anzi di spiriti), in un’accezione naturalistica che a prima vista sembrerebbe non aver nulla in comune con lo spiritualismo vero e proprio, soprattutto nella sua forma religiosa. Eppure le implicazioni della magia con la religione sono moltissime e non riguardano soltanto l’antefatto, ma anche la persistenza di certi fattori magici, più o meno espliciti, anche nelle religioni più “evolute”. Dal mondo primitivo germogliano entrambe le branche della magia e della religione. Da intermediario fra le due si pone il mito, che ha una sua fisionomia distinta da entrambe e pur con esse connessa.

 

RAPPORTI TRA MAGIA, SPIRITUALISMO, RELIGIONE, SCIENZA

La magia, o pensiero magico, si considera di fronte allo spiritualismo vero e proprio, appartenente a una fase ben più evoluta del pensiero umano, più come uno spiritismo (in quanto basato sulla credenza nell’esistenza di uno “spirito” o spiriti nella natura). Il termine spiritismo ha acquistato con il tempo un significato esoterico, di carattere soprannaturale, anziché naturale (magico) come quello considerato qui. Anche il termine “spirito” ha nel pensiero primitivo un significato molto diverso da quello che acquisterà in seguito nel pensiero riflesso più evoluto. Esso non si riferisce all’uomo, ma alla natura, a quanto di misterioso agisce in essa e con cui l’uomo deve confrontarsi ogni giorno. In questo senso il termine “spirito” ha un significato pluralistico: il mondo oggettivo, la natura, è popolato da spiriti, cioè forze anonime, molte delle quali non identificabili, legate a particolari aspetti della natura (acque, foreste, ecc), che l’uomo, solo e inerme, si sforza di rendere amiche o di combattere. Ecco allora il mago e la magia: un modo di operare per vie eccezionali, così come eccezionale si presenta la figura del mago. Nel contesto sociale la sua figura è, almeno all’inizio, quella di un individuo d’eccezione, un isolato, in un certo senso un anomalo, che però proprio grazie ai suoi poteri straordinari, veri o presunti, la società adotta in vista della propria conservazione. L’apparire del mago nella società primitiva umana è in relazione al sorgere di una mentalità razionale, perché appunto egli è impegnato a combattere l’irrazionale, nello sforzo continuo, se non di comprenderlo, almeno di individuarlo, dandogli un nome ovvero un barlume di personalità. “Denominare” è già, in un certo senso, “dominare”, cioè riconoscere qualcosa per quello che è, o si suppone che sia. Questo tentativo di concettualizzazione corrisponde al primo sforzo speculativo dell’uomo nel cercare di rendersi conto del mondo, della natura che lo circonda. Più tardi, sarà lo sforzo di rendersi conto di sé, della propria natura, destinata poi a divenire prerogativa anche della divinità, cioè di quella parte dell’ineffabile a cui si tenta di dare un volto, una personalità. Con il sorgere della religione, la magia non cessa di operare, ma continua in una forma di subordinazione, come al suo sevizio. Anche l’elaborazione del mito appartiene a questa fase, in cui l’eterno sforzo dell’uomo di dominare la natura si compie con la fantasia, oltre che con la tecnica, con la scienza e la religione. 

Il problema fondamentale allora riguarda anche la religione, perché la magia si può considerare una prima forma, ancora rozzamente delineata, di religione, e perché quest’ultima non è che l’esplicitazione, in senso personalizzato e trascendente, di quel “sacro” legato ancora alle forze naturali, che la magia pretenderebbe di esorcizzare o di dominare.  Questa pretesa di dominio sulla natura è la velleità essenziale della magia, che in questo anticipa la scienza, così come anche nell’idea che per cercare di dominare qualcosa bisogna prima conoscerla, o averne almeno una percezione. Da ciò deriva quell’atteggiamento in un certo modo ambiguo della magia nei confronti della natura: amica-nemica da lusingare per poterla poi vincere o dominare. E’ questo duplice e ambivalente atteggiamento che caratterizza il “sentimento del sacro”, che dal canto suo anticipa quello della religione vera e propria, in cui il sacro assume ormai una dimensione specifica e definita, qualificandosi in divinità vere e proprie, dotate di “personalità”, o di qualità umane portate al massimo grado. Ecco che allora, nei loro confronti, non valgono più tanto “esorcismi”, quanto preghiere, non più riti umani spontanei, ma elaborati e organizzati, codificati, ma sempre e comunque con lo stesso intento di lusingare la divinità per ottenerne i favori. Magia e religione hanno in comune un altro fattore: quello segnato dalla coscienza o consapevolezza della finitezza umana, della fragilità e della limitazione delle forze umane rispetto a quelle del cosmo, della natura, di Dio, che spinge l’uomo a tentare con ogni mezzo di superare questo dislivello. E’ quindi la coscienza di far parte di un tutto e di condividerne, sia pur in maniera minima, alcuni elementi, che spinge l’uomo a cercare di potenziare in sé queste forze, per poter agire e reagire con esse su tutto. Questa è la base della magia simpatetica, fondata appunto sul concetto che il simile è in grado di agire sul simile, catturandone il consenso o vincendone l’ostilità. Spesso basta un minimo appiglio (come un amuleto) per credere di avere il controllo dell’insieme delle cose: è questo il principio secondo cui, essendo tutto nel suo insieme connesso, anche una parte può avere effetto sul tutto. Spesso basta per questo una parola, accompagnata magari da gesti intesi ad affermare il proprio potere magico, per credere di poter agire anche a distanza (dato che il tutto è connesso). Si tratta anche del riconoscimento di qualcosa di non fisico in grado di produrre effetti fisici, cioè di qualcosa di “spirituale”, di invisibile in grado di agire sul visibile. Da ciò la credenza negli spiriti, forze invisibili della natura: una credenza, in fondo, corrispondente al bisogno di personalizzare l’occulto.

Certe tecniche magiche tendono a combattere il mondo esterno, altre a conciliarselo, ma in ogni caso si cerca di padroneggiarlo. La magia può quindi avere un risvolto positivo oppure negativo, ma sempre nel presupposto di dover trattare con spiriti. L’evocazione di questi spiriti rappresenta il lato saliente della magia e la vera dimostrazione della forza del mago, da cui dipende il suo apprezzamento sociale: per questo è insieme venerato e temuto.

Per quanto riguarda il rapporto tra la mentalità magica primitiva e la scienza, si può sottolineare come entrambe muovano da una ricerca di cause concepite come immanenti alla natura (anziché trascendenti come è per la religione), sforzandosi di ricondurle a un principio (concepito come una specie di “spirito universale”). Lo scopo della magia è quello di conquistare un mondo dal quale ci si sente vinti. Questo sforzo di conquista è lo stesso che anima la scienza. La magia convive con la scienza prima ancora di avere a che fare con la religione, avvalendosi di tecniche (anche se molto spesso inadatte o di scarso valore scientifico) per ottenere certi risultati.

Più problematico e complesso è il suo rapporto con la religione. Per quanto impersonali, le forze con cui la magia è, o crede di essere, in rapporto tendono a personalizzarsi, a configurarsi in sembianze quasi umane, tanto da venire designate, in tempi più avanzati, addirittura con nomi propri. Le forze naturali divengono esseri soprannaturali, qualificandosi in modo ormai del tutto trascendente come “dei”. Questo corrisponde a un processo di idealizzazione e di spiritualizzazione, di cui la magia, con altre forme primitive di pensiero, si dimostra incapace.

 

ORIGINE DEL SENSO MAGICO

La magia si suppone diffusa ovunque e presso tutti gli uomini fin dalla preistoria: sarebbe inutile decretarne una sola origine storica o geografica. La magia corrisponde alle prime esigenze di far fronte alla natura, a quel cumulo di forze incombenti e spesso minacciose che circondano l’uomo dalla sua apparizione sulla Terra.  Lo testimonia la frequenza di immagini “magiche” disegnate e impresse un po’ ovunque sulle pareti delle grotte preistoriche, e in certi rituali funebri di cui si conserva traccia in depositi ancora più antichi. Queste suggestioni magiche appartengono per lo più al tipo della magia simpatetica, intesa a produrre effetti per mezzo di immagini o simboli, anziché di atti concreti. Il seppellimento ordinato dei defunti, addirittura con riti funerari, sembra aver avuto lo stesso scopo: quello di produrre certi effetti tesi più che a proteggere il morto, ad allontanare forze negative capaci di circolare tra i vivi.

Il problema della ricostruzione della mentalità dell’uomo primitivo consiste nel fatto che non bastano i ritrovamenti e gli indizi provenienti direttamente dalla preistoria attraverso gli scavi. Ma ciò che non è possibile storicamente, è possibile (almeno entro certi limiti) analogicamente, cioè per induzione, dall’osservazione di usi e costumi di popolazioni tuttora viventi, che conservano un certo modo di pensare considerato primitivo (ma non per questo inferiore a quello di chi studia questi popoli!). Si tratta allora di considerare quelle comunità che ancora vivono al di fuori del nostro ambito culturale, cioè che vivono in un loro mondo in cui il rapporto con la natura non si è mai interrotto, ma continua a fluire incessantemente.

Un errore da evitare durante questi studi è quello di considerare “panteistico” o anche “animistico” il pensiero magico primitivo, quasi come se esso fosse rivolto separatamente a una venerazione del tutto o delle semplici forze che lo animano, quando invece queste due realtà vanno assunte nel loro insieme. Altrettanto inadeguato appare il termine “mitico” riferito al pensiero primitivo, poiché l’elaborazione del mito (che va di pari passo con quella della religione) appartiene a una fase più avanzata della mentalità umana. Il mito infatti richiede una buona capacità logica di elaborazione dei dati che non sembra appartenere alla mentalità primitiva: si può parlare comunque di favole significative, trasmesse da una generazione all’altra.

Il senso magico deve essere nato nell’uomo nel momento in cui assunse un comportamento autonomo rispetto alla natura, tale da interrompere la dipendenza istintiva da essa, o meglio da non dipenderne completamente: cioè quando si ottenne una “vittoria” della razionalità sull’istinto. Questa vittoria può farsi corrispondere a una certa intuizione della totalità, non di una totalità generica, ma specifica, all’interno della quale, per reciproca attrazione o “simpatia” (syn- pathos), una cosa è vista trasformarsi di continuo in un’altra, una forza confluire nell’altra, le parti scambiarsi certe proprietà fra loro e col tutto (in quanto col tutto sempre collegate), la trascendenza convertirsi con l’immanenza, l’individuo col clan, ecc. Sono questi i caratteri che si ritrovano in tutte le religioni tradizionali d’Africa. Dunque l’uomo primitivo ha del soprannaturale il concetto di qualcosa che non oltrepassa la natura ma che vi sta dentro e la fa agire. In fondo anche il soprannaturale (o spirito vitale) è del tutto naturale: l’intuizione e il sentimento che vi corrisponde è infatti quello del tutto onnipresente nelle cose.

L’uomo primitivo ignora il concetto di “persona” come nozione distinta dalla semplice individualità. La “persona” è per la prima volta qualificata in base alle sue facoltà in ambito egiziano: l’intelligenza e la volontà costituiscono lo spirito. Nelle società primordiali l’individuo vale solo in quanto membro di un gruppo (clan), di una totalità organica socialmente organizzata. Egli è la cellula di un gruppo e le fasi della sua vita hanno valore non in quanto riferibili alla persona, ma al clan. Allo stesso modo il termine “spirito” per l’uomo primitivo indica gli spiriti della natura, forze invisibili in grado di produrre certi effetti visibili. Queste forze sono insite in oggetti, viventi o meno: animali, piante, acqua, terra, fuoco. Sono forze impersonali, che devono la loro individualità alle cose in cui sono presenti. Con simili entità, destituite di ogni personalità, non è possibile alcun colloquio, ma vale solo contrapporre forza a forza, come è appunto l’intento della magia. Non si può allora ancora parlare di una vera coscienza religiosa, se per religione si intende l’avere a che fare con entità personali.

Secondo J. G. Frazer (autore de “Il ramo d’oro”), la magia precede la religione. Quest’ultima infatti richiede maggior riflessione ed elaborazione di concetti astratti, atteggiandosi a poco a poco anche a filosofia, mentre la magia rimane legata a una fase istintiva. Il passaggio alla religione è collegato alla scoperta del concetto di “personalità”. Le forze oscure che il mago crede di poter dominare non hanno nome, si presentano in forma anonima e spersonalizzata alla stessa stregua della forza vitale che pervade tutte le cose e la quotidianità umana, vivificandole. In questo trapasso alla fase religiosa ha grande importanza la trasformazione del concetto di spirito vitale in quello di anima. Nella magia questo concetto sembra appartenere a tutti gli esseri viventi, in quanto partecipi dello spirito vitale e animati da esso. Nella religione invece acquista una prerogativa antropologica, qualificando “in senso nobile” solo l’uomo e la divinità.

 

IL MITO, TRA MAGIA E RELIGIONE

A un certo punto dell’evoluzione culturale umana si assiste a un fatto molto importante: la nascita del mito destinato ad accreditare certe credenze magiche ereditate dai tempi preistorici, convogliandole verso l’espressione di una spiritualità più matura, o a crearne di nuove, includenti una vera moralità. I miti di Osiride e quello di Adone, per esempio, erano in origine legati ai culti agrari intesi ad assicurare la fertilità, ma in seguito furono elevati a un più alto significato spirituale, come quello del perpetuarsi della vita dopo la morte, o ad alimentare la credenza nella resurrezione. Specialmente in certi miti (come quelli agrari) le divinità non sembrano in origine rivestire una vera personalità, tanto che i loro attributi spesso si confondono con quelli degli elementi che rappresentano (il grano per Osiride, il vino per Dioniso, la selvaggina per Adone, ecc). In altri casi la loro individualità rimane addirittura tuttora ancorata all’elemento naturale che l’ha suggerita, come accade per gli spiriti arborei, le ninfe delle acque, i fauni dei boschi. In questo caso non si parla di veri e propri miti, ma di favole o leggende. Con il sorgere della religione il mito si amplia, si articola razionalmente, si fa insieme più dettagliato e più astratto, prestandosi a incarnare ed esprimere una vera moralità. Il mito si distingue dalla semplice favola o leggenda perché non solo racconta, ma insegna; non si svolge semplicemente sul piano della quotidianità, ma intende valere oltre che per il passato anche per il futuro. La sua riflessione non è più pragmatica, ma assume carattere speculativo ed etico. Il mito insomma prende sempre più le distanze dagli elementi naturali, che pure possono averlo suggerito, cercando di inquadrarli in una visione più ampia e umana. Anche dopo il suo sorgere, il mito non perde i suoi contatti con la magia: spesso i miti si ricollegano a sacrifici (reali o simbolici) che hanno lo scopo, più che di ingraziarsi la divinità, di farla servire ai propri fini, come nel caso della magia.

 

CONCLUSIONE

La magia, senza potersi dire una religione (da “re-ligare”, il che presuppone elementi distinti e non ancora confusi come nell’accezione primitiva di sacro), prepara la strada alla religione, cioè a un’accezione distinta della nozione di divinità in senso trascendente: ben diversa cioè dalla natura, anche se a essa comunque collegata. La magia infatti ha a che fare non con personalità divine vere e proprie, ma con spiriti, geni, entità anonime sempre caratterizzate da una grande mobilità, sempre pronte a dissolversi nell’elemento che rappresentano, e di cui sono costituiti. La stessa idea di “spirito” non ha nulla che evochi qualcosa di permanente o costante (come è invece per il concetto di “anima”), o di separato dalla materia, ma vive con quest’ultima in uno stretto rapporto di fusione; oppure è concepito come un fluido vitale che scorre incessantemente in tutte le cose.

2.       Le religioni tradizionali d’Africa

(saggio di Romeo Fabbri, per conto della Campagna Chiama l’Africa)

  Le religioni tradizionali sono spesso state descritte in passato, da esploratori, missionari, etnologi, come un insieme di idee non organico, e anzi si credeva per lo più che i popoli africani non avessero alcuna religione, ma solo rudimentali culti idolatrici e superstiziosi. A loro parziale discolpa bisogna riconoscere la grande difficoltà che presenta lo studio delle religioni tradizionali: la gran varietà di popoli, l’inestricabile intreccio nella loro visione religiosa di aspetti concreti e astratti, profani e religiosi, simbolici e mitici;  l’assenza di un’elaborazione teorica del dato religioso, vissuto nella vita quotidiana e trasmesso oralmente; la naturale ritrosia a parlare con estranei di argomenti che toccano così in profondità tutto l’essere e l’agire umano.

Ci sono comunque tre principi di fondo comuni alle religioni tradizionali dei vari popoli africani:

- Monoteismo. Per molto tempo gli studiosi hanno pensato che le religioni africane fossero politeiste, tratti in inganno dalla moltitudine di nomi, che non rimandano a varie divinità, ma a diversi attributi-aspetti dell’unico Essere Supremo. Le religioni tradizionali presentano una concezione altissima e pura dell’Essere Supremo, che non ha prediletti e nemici, e non è nemmeno il Dio distante/scostante della religione greca. Le religioni africane hanno saputo coniugare lontananza e vicinanza, assoluta trascendenza e assoluta presenza.

- Forza vitale. I popoli africani leggono l’intera realtà in termini di forza vitale: conservazione, accrescimento, diminuzione, ristabilimento della forza vitale. La relazione che intercorre fra il mondo visibile e quello invisibile è una relazione di flussi o di bloccaggi di energie vitali. L’energia vitale cosmica fluisce dall’Essere Supremo continuamente, in modo diretto o indiretto attraverso gli spiriti subalterni, gli antenati, i capitribù, gli eroi civilizzatori. E’ bene tutto ciò che propizia la fecondità, è male tutto ciò che la ostacola. Riti e culti sono finalizzati a sviluppare la forza vitale e a bloccare le forze che la ostacolano o indeboliscono.

- Armonia. I popoli africani pongono sopra ogni iniziativa e ogni sforzo una visione armonica del mondo, e la realizzazione di relazioni armoniche a tutti i livelli: individuale, familiare, di villaggio, di tribù; relazioni armoniche con il mondo vegetale e animale, e con il mondo invisibile.

 

HABITAT E RELIGIONE

Un aspetto che colpisce in modo particolare delle religioni tradizionali africane è lo stretto rapporto esistente fra habitat, struttura sociale ed esperienza religiosa. I popoli dediti alla caccia e raccolta (pigmei, boscimani, ottentotti) sottolineano la relazione fra gli uomini da un lato, e animali selvatici e piante dall’altro. I popoli dediti alla pastorizia (tutsi, masai) pongono al centro della loro concezione religiosa gli animali domestici. I popoli delle grandi foreste (fang, bete) tendono a vedere l’Essere Supremo in relazione alla vegetazione rigogliosa e alle forze della natura. I popoli della savana (bambara) dipendono dalle colture e dal ritmo delle stagioni, e privilegiano il suolo e i campi. I popoli dediti alla pesca (bozo) e gli agricoltori della regione del sahel (dogon) pongono al centro della loro vita il problema dell’acqua. I popoli dei grandi imperi (benin, ashanti, yoruba) celebrano il ruolo di personaggi legati alla storia dell’impero, costruendo attorno a queste figure miti, riti e culti assicurati da una casta di sacerdoti.

 

L’ESSERE SUPREMO: NOMI, NATURA E RELAZIONI CON IL MONDO UMANO

Per tutti i popoli africani l’Essere Supremo è assolutamente unico, è la fonte di tutta la vita esistente nell’universo, vive lontano dagli uomini ma è al tempo stesso vicino a loro. Essi gli rendono raramente un culto pubblico ufficiale, più spesso si tratta di un culto privato. L’Essere Supremo non può essere rappresentato: in Africa si trovano moltissime statuette-feticcio che ritraggono uomini, animali e spiriti, ma nessuna raffigura l’Essere Supremo. Può solo essere oggetto di discorso, e i popoli africani gli hanno riservato una miriade di nomi, per tentare di coglierne il volto e determinarne la natura. Il termine Zambe, per esempio, ricopre con leggere variazioni (Zamba, Nyame, Nzambi, Anzambe) un’area geografica che si estende dalla Costa d’Avorio al Botswana. I pigmei chiamano l’Essere Supremo Epilipilia (signore della caccia), i boscimani Raggen (padre), gli ottentotti Tsuri-Goab (creatore del mondo visibile). Altri nomi diffusi sono: Mungu-Midunga (colui che sta in cielo), Yankompon (il grande amico) degli ashanti, che considerano il cielo il suo volto splendente, Aforun (colui che è per se stesso) degli yoruba, e Ngai (la pioggia) dei masai.

 

Gli attributi che tutti i popoli africani riconoscono all’Essere Supremo sono:

- E’ in sé e per sé: “ha preceduto la creazione degli uomini, non ha padre ne’ madre” (mbien), “colui che si è fatto esistere da solo” (zulu).

- E’ uno: anche quando si usano diversi nomi contemporaneamente, il verbo si usa al singolare.

- E’ eterno.

- Onnipresente.

- Onnisciente: “il grande occhio” (Uganda), “Nzambi non dorme, ti vede” (mbien).

- Onnipotente: “se Nzambi ci chiama, chi potrà resistere?” (kongo).

- Trascendente: “colui che abita al di sopra, nessuno è al di sopra di lui” (kongo).

- Creatore.

- Provvidente: “se l’Essere Supremo morisse, il mondo crollerebbe” (bambuti)

- Buono, saggio e giusto.

Tutti i popoli africani vedono l’Essere Supremo come lontano, assente dal mondo sensibile e al tempo stesso presente nella vita quotidiana e provvidente nei confronti dell’uomo. Si tengono saldamente insieme due affermazioni opposte: è trascendente, infinitamente lontano e inaccessibile; è immanente, infinitamente vicino a ogni uomo. Molti miti raccontano il breve soggiorno dell’Essere supremo nel mondo dopo la creazione, il suo allontanamento e i tentativi degli uomini di dare la scalata al cielo (pigmei, giziga del Camerun settentrionale, ila dello Zambia, chagga del Kenya). Per comprendere l’apparente paradosso del Dio lontano e vicino, sono utili anche i proverbi, altra produzione spontanea e antichissima dei popoli: “Nyamuzinda non dimentica i suoi” (bashi); “non esiste una valle così solitaria che l’Essere Supremo non veda” (Madagascar); “il sole non dimentica nessun villaggio” (Congo). L’Essere Supremo insomma è lontano dal mondo materiale ma nel contempo è vicinissimo all’uomo, sua creatura.

 

I MEDIATORI

Fra l’uomo e il mondo invisibile esiste una fitta e intricata rete di relazioni positive e negative, un complesso sistema di intersezioni, una sorta di scala i cui gradini inferiori stanno nell’ambito umano e quelli superiori raggiungono l’ambito del sovrasensibile e del trascendente (non l’Essere Supremo in sé). I due ordini di gradini si congiungono al centro, dove si trovano, sul versante umano, persone che svolgono un ruolo privilegiato, e sul versante divino, gli spiriti. Questa dialettica è perfettamente in linea con la prassi umana di servirsi di mediatori, quando si vogliono avvicinare persone superiori al proprio rango.

- Mediatori provenienti dall’alto: sono spiriti delegati dall’Essere Supremo a compiere determinate funzioni nel mondo e presso gli uomini. Hanno natura antropomorfica e incarnano forze dinamiche in continua oscillazione, per cui devono essere trattenute con offerte.

- Mediatori provenienti dal basso: sono tutte le persone che  svolgono un ruolo privilegiato nelle relazioni tra il singolo o la comunità e la realtà trascendente. Capofamiglia: mediatore a livello degli individui e delle famiglie. Anziano: nella saggezza africana occupa un posto importantissimo, perché è di più (non si nasce persone complete, ma lo si diventa con gli anni), sarà di più (è temporalmente più vicino allo stadio di antenato, per cui intrattiene legami più stretti coi defunti), sa di più (è come una biblioteca per la comunità), può di più (il sapere è potere). Capo della terra e capo del clan: spesso due capi distinti, uno ha potere sulla terra come fonte di vita e ricettacolo degli antenati, e interviene nei riti agrari, l’altro ha potere politico sul territorio e amministra la giustizia. Vasaia e fabbro: possono maneggiare senza pericolo la sostanza terrestre e hanno il compito di modellare gli strumenti per il culto degli antenati. Il fabbro è l’intermediario per eccellenza, poiché domina il fuoco e la terra, quando batte sull’incudine sprigiona forze cosmiche che poi orienta, è rispettato e temuto allo stesso tempo. Sacerdote: possiede le parole sacre e rappresenta il popolo di fronte al mondo trascendente. Re: ha origine semi-divina, attraverso lui la forza vitale di Dio giunge al popolo. Indovino: iniziato a un codice che gli consente di decrittare i messaggi che provengono dal mondo degli spiriti e degli antenati, scopre le cause degli avvenimenti e può interpretare i sogni. Guaritore: usa le piante medicinali, spesso è uno specialista che guarisce solo certe malattie, comunica intensamente con il malato e opera su un piano psicologico e religioso. Mago: cerca di captare e dominare certe forze, a volte ha un ruolo positivo, ma altre volte negativo, quando cerca di far del male a qualcuno.

- Due categorie privilegiate di mediatori dal basso:

1) Gli antenati: conoscono meglio di chiunque la condizione e i bisogni umani. Scrive Birago Diop: “Coloro che sono morti non sono mai partiti / Sono nell’ombra che si schiarisce / e nell’ombra che si ispessisce. / I morti non sono sottoterra: / sono nell’albero che freme / sono nel legno che geme / sono nell’acqua che scorre / sono nell’acqua che dorme / sono nella capanna, sono nella folla: / i morti non sono morti”. Gli antenati (chiamati morti-vivi) sono viventi di un genere particolare. La morte non ne ha alterato la personalità, solo il loro modo di vita è cambiato. Continuano a fare parte della comunità dei vivi. Alla base di questa concezione comune a tutta l’Africa sta il primato assoluto accordato alla vita: la vita è il solo bene reale, la forza stessa di Dio. E’ impensabile quindi che la vita possa cessare, che possa essere vinta dalla morte. Gli antenati sono le vere guide direttive della società. Sono fatti oggetto di un culto premuroso e costante, con offerte di cibo e rispetto da parte di tutti i membri del clan. Gli antenati assicurano la continuità del gruppo e quindi la fecondità, e conservano l’armonia tra i vivi e i defunti.

2) Gli eroi civilizzatori: trasmettono e accrescono la vita del singolo o del clan sul piano storico, culturale, spirituale. Sono ad esempio il re saggio, il guerriero valoroso, l’anziano riflessivo, l’inventore di una particolare tecnica. Non si tratta di una paternità fisica, ma una paternità che accresce la vita illuminandola, potenziandola.

 

LE FORZE NEGATIVE

Accanto agli intermediari positivi esistono anche delle forze del male. Può trattarsi di forze anonime, impersonali, o di persone che fanno del male, come per esempio i ritornanti (persone morte malamente, provando risentimento, che tornano per vendicarsi una volta divenuti potenti), gli aberranti (viventi che cercano di fare del male agli altri: omosessuali, uomini-leopardo, associazioni segrete di persone malvagie), gli stregoni (mentre la magia è una tecnica, la stregoneria è uno stato di vita, spesso inconscio. Nello stregone abita un’entità malefica che sottrae energia alle persone agendo a distanza. Lo stregone non usa strumenti e può essere smascherato dall’indovino).

 

IL CULTO

Manca quasi completamente il culto pubblico e ufficiale reso all’Essere Supremo: egli deve essere disturbato il meno possibile, solo in situazioni estremamente gravi (persistente siccità, epidemie, guerre), o in relazione con i grandi momenti della vita (nascita, iniziazione, morte). D’altra parte, l’uomo africano è convinto che Egli abbia affidato ogni cosa a entità subordinate. Il sacrificio fatto all’Essere Supremo mira alla salvezza del popolo. Si offrono in genere cose trascurabili, ma di alto valore simbolico, oggetti che simboleggiano la vita (uova, piante da frutto, colore bianco).

Il culto compare spesso nell’ambito della vita privata; le sue maggiori espressioni sono la preghiera e l’offerta. La preghiera ha una tipologia molto varia: ci sono preghiere abituali e occasionali, espresse in formule, spesso brevi esclamazioni, oppure preghiere consistenti in semplici gesti. L’offerta ha lo scopo di rigenerare la forza vitale del singolo o del gruppo. In genere viene fatta agli antenati e agli spiriti, la cui forza vitale non è costante perché non possiedono vita in proprio, come l’Essere Supremo, per cui donandola la perdono, si depotenziano, e hanno bisogno di rigenerarla. L’antenato possiede l’immortalità finché qualcuno si ricorda di lui; l’offerta serve a mantenerlo in vita, a vantaggio dei sopravvissuti.

 

CONCLUSIONE

L’uomo africano non è interessato a dominare, ma a comprendere, a farsi del mondo che lo circonda un’immagine in grado di guidarlo nelle sue scelte, e di rassicurarlo nei suoi smarrimenti. Si interroga continuamente sul perché di ciò che accade: una malattia, una siccità, un insuccesso nella caccia. Cerca personalmente o insieme al proprio gruppo una risposta in grado di rassicurarlo e di persuaderlo che tutto è in ordine, che tutto funziona a dovere. Quando, nonostante tutto, non si riesce a trovare una risposta, resta sempre come via d’uscita all’assurdo, al non-senso, l’Essere Supremo. La cultura africana è antropocentrica, non teocentrica. L’assenza di Dio, il suo “esilio” volontario, diventa la conditio sine qua non della libertà umana. Solo così l’uomo può passare dalla condizione di assistito, incompleto e irresponsabile, alla condizione di persona responsabile di se stessa e del mondo. La religione tradizionale africana proietta l’uomo più verso il passato che non verso il futuro. La conservazione e l’accrescimento della forza vitale richiedono che l’individuo, il clan, la tribù, restino aggrappati alle loro origini mitiche, rispettando le tradizioni sacrali e sociali stabilite dagli antenati.

 

 

• Da quanto esposto, e da altre letture qui non sintetizzate perché molto simili ai due saggi proposti, si può affermare che le religioni tradizionali d’Africa abbiano in un certo modo conservato una mentalità di fondo che le collega a una visione molto antica nell’uomo.

La religione africana si è ormai da tempo slegata dal puro ambito magico (nell’accezione discussa da Masi nel primo saggio), ma trattiene in sé una visione del mondo che si può definire molto arcaica, remota, specialmente per quanto riguarda il rapporto tra il mondo materiale e quello invisibile, tra l’uomo e l’unica Entità Suprema, e poi il concetto del flusso vitale che scorre incessantemente e ha bisogno di essere sempre rivitalizzato, il rispetto e il culto degli antenati come ancora facenti parte della comunità, l’importanza del mito e della tradizione.

Questa visione, questo sentire religioso, sembra porsi “a metà strada” fra il semplice pensiero magico primordiale e primitivo, e l’elaborazione teoretica e sistematica delle grandi religioni (cristianesimo, islamismo, ebraismo, induismo): l’uomo africano ha raggiunto la piena consapevolezza del dato divino, sa benissimo con quale tipo di mondo invisibile e trascendente ha a che fare, ma non ha bisogno della mediazione formale di una dottrina, di un dogma, di un sistema anche filosofico ordinato e magari scritto.

La funzione dell’anziano consiste anche in questo: trasmettere oralmente la religione tradizionale e il rispetto delle entità superiori (antenati e spiriti), e i loro profondi significati. Nella cultura africana i bambini e i vecchi sono le persone viventi più importanti: attraverso i bambini passa e si rafforza il flusso vitale che rinsalda la comunità, attraverso i vecchi la tradizione non morirà mai.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

1) G. Masi, Lo spirito magico. Saggi sul pensiero primitivo. CLUEB Bologna, 1999.

Contributi: J. G. Frazer, The golden bough. Londra, 1911-15 (tr. it. Il ramo d’oro. Torino, 1950)

                  R. Cantoni, Il pensiero dei primitivi. Milano, 1963.

                  E. B. Tylor, Primitive culture. Londra, 1871    

                  R. Otto, Il Sacro, tr. it. 1926.

2) R. Fabbri, Le religioni tradizionali d’Africa. (per conto della Campagna “Chiama l’Africa”).

Contributi: J. Mbiti, Oltre la magia. Religioni e culture del mondo africano. SEI, Torino, 1992.

                  Padre Maurilio Montefiori, I Burunge. Editrice Cesare Ferrari.

                  Padre P. Calloni, Tam tam. Editrice Cammino.

 

3.       Appendice: alcuni miti e racconti africani

 

  RACCONTO DEGLI EKONGA-BATOA SULLA CREAZIONE

Elima (la forza vitale attiva e personale) creò gli stagni, i corsi d’acqua e le foreste, e vi fece comparire gli animali che le popolano attualmente. Raccolse argilla umida e fece due statue, una di un uomo e una di una donna. Vi soffiò la vita e ordinò: “Parlate!”. Poi cominciò l’educazione dei primi antenati. Insegnò loro i nomi delle bestie e delle piante, mostrò come fabbricare una capanna e accendere un fuoco, come cercare frutti e tuberi commestibili. Regalò loro un arco e delle frecce, e una zucca come contenitore per l’acqua. Gli antenati non videro Elima, lo sentirono soltanto. Egli raccomandò loro di fare il bene e di evitare il male: il furto, la menzogna, la frode, l’omicidio, l’adulterio, la calunnia, la disobbedienza a genitori e capi-clan. Quando li lasciò, i primi uomini accesero il fuoco e partirono per la caccia.

 

·                     Si potrebbero notare moltissimi punti importanti in questo racconto (la divinità vista come forza e già personalizzata, l’uso del “soffio di vita”, l’insegnamento di Dio, l’impossibilità di vederlo, i comandamenti), ma qui è interessante rilevare che secondo questo popolo fu Dio a insegnare agli uomini tutto ciò di cui avevano bisogno, mentre per altri popoli (pigmei) Dio se ne andò dal mondo prima che l’uomo fosse autonomo da Lui, costringendolo in un certo senso a usare l’ingegno per sopravvivere: non è forse proprio quello che è avvenuto nella lunga storia dell’evoluzione umana ?

 

  MITO DEI PIGMEI

All’inizio del tempo Dio (cioè l’Essere Supremo) fece un certo numero di uomini e donne. Egli viveva fra loro, procurando loro tutto ciò di cui avevano bisogno: la legna, l’acqua, gli animali, ecc. Una donna era incaricata di portargli acqua e legna, ma non doveva mai alzare gli occhi per vederlo. Un triste giorno, vinta dalla curiosità, mentre deponeva la brocca al di là della porta semiaperta, gettò un timido sguardo. Nella penombra vide il braccio di Dio coperto di braccialetti, provò una gran gioia, ma non durò molto, perché Dio aveva notato la sua indiscrezione. Molto irritato da questa trasgressione umana, se ne andò e abbandonò tutti alla loro sorte. Tutto ciò che egli aveva donato un tempo agli uomini, cominciò a mancare. Alcuni di loro, con le loro mogli, se ne andarono nella foresta. Ebbero l’idea di curvare un legno verde e di legare le estremità con una liana, inventando così l’arco. Le donne impararono a intrecciare rami a forma di cupola e rivestirli di foglie, inventando così la capanna. Con la loro ingegnosità provvidero ai propri bisogni e seppero approfittare al massimo delle risorse della foresta. Questa è l’origine della razza dei pigmei.

 

·                     Dio ha creato per l’uomo la natura e le sue risorse, ma è l’uomo che ha dovuto usare il suo ingegno per costruire utensili e quindi inventare la tecnologia. Nota interessante: la donna fu “vinta dalla curiosità”. Il divino, il trascendente, il “totalmente altro” suscita insieme fascino, perché lo si vorrebbe poter conoscere, e timore (a volte persino un vero terrore reverenziale), perché la sua potenza oltrepassa qualsiasi visione e immaginazione umana.

  Ecco un altro mito interessante sulle origini dell’uomo:

 

MITO GIZIGA (Camerun settentrionale)

Un tempo il cielo era vicino alla terra. Bumbulvun viveva in mezzo agli uomini. Era anzi talmente vicino che essi potevano spostarsi solo con la schiena curva. Ma in cambio non dovevano preoccuparsi del loro sostentamento: bastava allungare la mano, strappare dei pezzi di cielo e mangiarli. Un giorno la giovane figlia del capo, che aveva un brutto carattere e faceva sempre il contrario degli altri, invece di prendere pezzi di cielo, cominciò a guardare per terra e a raccogliere i grani che trovava. Si fece un pestello e un mortaio per schiacciare i grani. Così inginocchiata, ogni volta che alzava il pestello, questo colpiva il cielo e Dio. Disturbata nel suo lavoro, la giovane disse al cielo: “Bumbulvun, non puoi allontanarti un po’?”. Il cielo si allontanò e la giovane poté alzarsi in piedi. Continuò il suo lavoro e man mano che schiacciava grani alzava il pestello sempre un po’ più in alto. Implorava il cielo, ed esso si allontanava ancora un po’. Allora cominciò a lanciare il pestello in aria. Alla terza implorazione il cielo, indignato, se ne andò lontano, là dove si trova ora. Da allora gli uomini camminano eretti. Non mangiano più pezzi di cielo, ma miglio. Ma Bumbulvun non si mostrò più agli uomini come faceva un tempo, quando tutte le sere veniva a risolvere le loro contese; ora gli uomini sono rimasti soli con le loro contese: è la guerra!

  ·   A parte la nota sulla grande efficacia, e a volte anche delicatezza, proprie di questi miti africani (da notare la confidenza, il rapporto molto intimo con Dio), bisogna rilevare anche qui la presenza dell’elemento “ingegno” come fattore primario (e straordinario) di evoluzione: l’uomo da assistito diviene autonomo e capace di libero arbitrio. Ma quale prezzo comporta questa conquista! La guerra, il male, vengono dall’uomo, e senza l’aiuto di Dio non c’è via di scampo, non c’è soluzione. (Interessante anche, e curiosa, la nota “da allora gli uomini camminano eretti”: un altro racconto che centra in pieno il nocciolo dell’evoluzione umana!).

  MITO ILA (Zambia)

Una donna, che viveva felice fra i suoi parenti, un giorno perse il padre, poi, poco dopo, la madre. Non era passato un mese che le morì il marito e poi, uno dopo l’altro, tutti i figli. Si ritrovò sola, prostrata dal dolore davanti a quelle tombe chiuse e mute. Allora, al limite della sopportazione, partì alla ricerca di Leza per chiedergliene conto. Attraversando una fitta foresta ebbe un’idea: “Costruirò una torre così alta da permettermi di salire fino a Leza!”. Cominciò ad abbattere alberi e costruire una torre enorme. Ci volle molto tempo: le stagioni passavano e i tronchi posti in basso imputridivano, e il tutto crollò proprio nel momento in cui stava raggiungendo il cielo. Allora riprese il viaggio e andò verso l’orizzonte, alla ricerca del punto in cui la terra finisce. Incontrò molti villaggi e sentì sempre la stessa domanda: “Donna, dove vai, e perché?” – “Vado a cercare Dio, per chiedergli conto di tutte le mie sventure: ho avuto un padre, ed è morto; ho avuto una madre ed è morta; ho avuto un marito ed è morto; ho avuto dei figli e sono morti!”. Ogni volta la gente scuoteva la testa: “E cosa c’è di straordinario in tutto questo? Tutti noi soffriamo degli stessi mali”. La donna infine comprese che ciò che considerava una cattiveria di Dio a suo riguardo, altro non era che la sorte di tutta l’umanità. Così si rassegnò a seguire la sorte normale senza rivoltarsi.

 

·                     Elementi comuni a molte altre religioni sono per esempio: il desiderio dell’uomo di capire il perché di avvenimenti tragici come la morte, la convinzione di essere l’unica persona perseguitata dal dolore quando invece esso è condizione comune a tutti gli uomini, il tentativo di dare la scalata al cielo per raggiungere Dio e l’inevitabile fallimento di questa ricerca (Dio è irraggiungibile). La saggezza di fondo di questo racconto indica chiaramente che esso costituisce un vero e proprio mito (nell’accezione discussa da Masi nel primo saggio): ne sono prova l’elaborazione del dato divino, l’insegnamento morale di fondo, l’universalità del messaggio.

  Ecco un altro mito molto simile a quello precedente nella sostanza, ma ovviamente distinto e unico per certe caratterizzazioni proprie di un popolo diverso:

  MITO CHAGGA (Kenya)

Un uomo che aveva perso tutti i figli concepì in cuor suo un gran risentimento contro Dio, così si fece costruire un arco capace di raggiungere il cielo e le migliori frecce per uccidere Dio. Poi si mise in cammino verso il sorgere del sole. Una volta giunto là, attese il sorgere del sole. Si sentì il rumore di una gran folla e molte voci: “Aprite le porte! Lasciate passare il Re!”. L’uomo vide una moltitudine di persone luminose, ebbe paura e si nascose. Il corteo passò e al centro c’era “Colui che brilla”. D’un tratto il corteo si fermò e quelle persone sentirono un odore spaventoso, che faceva pensare alla presenza di un abitante della terra. Alla fine scoprirono l’uomo e lo condussero da Dio. Questi gli chiese: “Che cosa vuoi?”, e l’uomo rispose: “Il dolore mi ha spinto a fuggire lontano dalla mia capanna”. “Ma perché quest’arco e queste frecce?” – “Oh, forse pensavo di andare a caccia…” – “Non volevi forse uccidermi? Ebbene, fallo!”. L’uomo esitò e disse: “E’ a causa dei figli che tu mi hai sottratto”. Dio rispose: “Se vuoi i tuoi figli, puoi prenderli. Guarda, sono lì dietro di te”. L’uomo si voltò e li vide; erano così radiosi e brillanti che riuscì a malapena a riconoscerli. Allora disse a Dio: “No! Tienili tu. Presso di te stanno molto meglio!”.

 

·         Simile nella forma e nel contenuto al mito precedente, questo mito chagga esprime con estrema delicatezza e semplicità il senso tutto umano di capire il perché degli eventi, e il bisogno eterno di credere in una vita post-mortem più bella e piena di quella terrena (anche qui siamo già in un pensiero religioso compiuto, poiché nel pensiero magico primitivo sembra non esistere la distinzione fra queste “due vite”, in uno stato confuso di ritorni e mescolamenti delle entità nel mondo). Da notare la “violenza”, l’immediatezza delle prime righe: quando non sappiamo con chi prendercela, perché non vediamo la causa di un evento tragico e inspiegabile, ricorriamo a Dio addossandogli una colpa inesistente (la morte è un fatto naturale, anche se per l’uomo di difficilissima comprensione, senza “l’aiuto” offerto dall’esistenza di una sfera divina). L’uomo africano è pienamente conscio di questo aspetto, e così come nelle religioni più “moderne” (in senso temporale), cerca di trovare l’unica soluzione possibile nel mondo dell’invisibile e del “totalmente altro” (altro nelle forme: i defunti non si presentano come persone normali; altro nei contenuti: i defunti appaiono felici e in uno stato di “pienezza”, portando al massimo grado la vita).

  (Elena Serughetti)