Il nome greco di Arpocrate deriva dall'egiziano antico 'Heru-p-khart' la cui
traslitterazione convenzionale è Harpachered, parola che letteralmente significa
Horus il Bambino, ovvero Horus il Giovane, il suo nome appariva così:
Nella tradizione greca, e poi in quella Romana, si interpretò l'ultimo glifo a
destra come il gesto tipico del 'silenzio', mentre invece si tratta del
determinativo 'il figlio', 'il giovane' riferito ad Horus.
Gli Egizi in questa immagine, nella quale un dio si porta le mani alla bocca,
raffiguravano il processo vitale che si dà con l'alimentazione e, nella metafora
mistica, la trasformazione dell'individuo conseguita con l'interiorizzazione
dei principi d'identificazione magico/iniziatica
che si
collegano all'emersione delle facoltà solari rappresentate dal sorgere di Horus
con il 'dito in bocca' sopra un fiore di loto, dalle acque primeve del Nu. Come
mostra il dattaglio di una piastra di faience della XXIII dinastia che si trova
al Royal Museum, in Scozia.
Oltre ad Horus, anche Hihi, dio adolescente,
figlio di Hathor, dea cosmica, è rappresentato con il 'dito in bocca'.
Nelle
celebrazioni di Nectanebo I a Dendera, durante le feste di Hathor,
che celebravano la rinascita dell'anno misterico al ventesimo giorno del
primo mese dell' inondazione del Nilo, il giovane Hihi è raffigurato mentre
ogni giorno, all'alba solare, suona il sistro guidando gli adepti verso un nuovo
inizio. Questo aspetto metalinguistico dell’immagine del ‘ dito in bocca’ è
riscontrabile nella X ora del Libro egizio degli inferi, che illustra il viaggio
del sole nella zona infera, dalla quale il principio solare rinasce dopo il
viaggio notturno, papiro n° 133 da Deir el - Bahari, XIX dinastia, oggi al Museo
del Cairo, tradotto da Boris de Rachewiltz:
in essa si vedono due dee con
la Corona dell'Alto e Basso egitto ( A) sedute su troni ( sottintesi) in atto di
porgersi il dito in bocca come nel più noto Horo il giovane.
A questa figura ne fa seguito un'altra analoga ( B) le due dee sostengono in una
mano il disco solare, posto sulla sommità dell'insegna degli dèi Nether. Nel
testo è detto che esse
'riuniscono le anime in terra e rendono puri gli spiriti potenti nella Duat... e
ingoiano le loro stesse anime' durante il processo di identificazione e
avanzamento delle ore magiche contestuali, al seguito dello sparviero Khenti,
chiamato 'colui che precede' descritto in (C) che conduce le due corone rossa e
bianca, in guisa di ipostasi rappresentativa formulata da quattro gambe
sottostanti lo stesso sparviero. Le gambe sono volte in direzione opposta,
visualizzazione della fase di polarizzazione delle energie sottili, fase già
espressa nei due serpenti volti anch'essi in direzione opposta tra le due dee
coronate ( A).
Riguardo le otto dee in barca nel secondo registro dell'immagine si dice nel
testo: 'O voi che causate l'entrare in essere del divenire delle cose create il
cui compito è far si che lo splendore radiante dell'Occhio di Horo promani ogni
giorno'.
Da questi riscontri sembra consequenziale interpretare l'immagine del 'dito in
bocca', come l'attivazione di un registro di interiorizzazione e di successiva
radianza della virtù di trasformazione delle forme attuata con l'animazione di
ipostasi - date dalle immagini/concetto degli dei- sottese al processo di
identificazione e di rinnovamento dell'anima in cammino che potrà 'illuminare il
cielo con Ra' come recita il testo in chiusa.
Quindi potremo leggere nel 'dito in bocca di Horo', come nelle due dee di cui
sopra, l'indicazione dello stadio di consapevolezza ancora in evoluzione,
essendo Horo ancora fanciullo, con le conseguenti metafore connesse alla
tradizione egizia.
L'associazione del dito in bocca con il silenzio iniziatico è posteriore alla
tradizione egizia e nasce nell'ambito dei misteri dionisiaci.
Questa accezione prende l'avvio dai culti palazziali della città di Tebe datati
intorno al XIV - XIII secolo a. C. secondo i quali, come riporta il greco Mnasea
( Scolium ad Euripidis Phoenissas, 651) ed anche Pausania come Euripide, '
Dioniso che si avvinghia alla colonna' è occultato ritualmente nelle sembianze
di un'edera, il cui succo inebriante veniva bevuto a Delfi come ad Atene durante
i misteri eleusini. La simbologia dell'edera è riproposta da satiri e baccanti
nel tirso avviluppato dall'edera sulla sommità.
Una conferma della discendenza egizia di questi misteri è attestata da Plutarco
che riferisce l'allegoria dell'edera avvolta ad una colonna lignea nel celare il
corpo di Osiride durante il processo di trasformazione del dio ( Plutarco, Iside
e Osiride, cap. 15). L'edera è intesa da Plutarco, nella etimologia egizia da
lui riferita, come pianta di Osiride (Plutarco, Iside e Osiride cap. 37). Anche
Erodoto afferma che 'il nome di Osiride nella lingua greca è Dioniso' ( Erodoto
II , 56) e così anche Diodoro (Diodoro I, 11, 1-5).
Si osservino quindi due immagini su una coppa del 540 a.C. proveniente da una
tomba di Capua a Napoli (Pittore di Callis, coppa attica a figure nere con busti
di Dioniso e Semele affrontati - Napoli, Museo Archeologico Nazionale, Stg.
172).
Siamo in Magna Grecia. Su un lato della coppa il busto di Dioniso è affrontato
al busto di Semele, come dall'iscrizione, mentre sull'altro lato della coppa
quattro giovani donne animano un rituale vicino ad un altare posto davanti al
simulacro di Dioniso e una di esse attinge da un vaso.
Si noti che Semele è coronata
di edera, e viene raffigurata con l'indice e il mignolo della destra volti verso
i propri occhi, mentre il medio e l'anulare sono piegati e tenuti chiusi dal
pollice all'altezza della propria bocca. Questo gesto sembra alludere al
silenzio iniziatico di chi ha visto, ha vissuto il rito e non parla. Il rito è
riconducibile alle iniziazioni che avvenivano a Delfi,ivi, nelle cerimonie
eleusine, un asino portava il cofano che avrebbe fatto da culla a Dioniso,
iniziatore e guida delle anime rinate al suo seguito, dopo avere egli liberata
la madre Semele dagli inferi per condurla agli dèi superni.
Come riferisce Aristotele (Atheniensium Republica, III,5) nella seconda delle
tre giornate celebrative la sposa del re-arconte, assistita dal sacerdote e da
quattordici ancelle compiva l'offerta di quattordici cesti misterici su
quattordici altari, al tempio di Dioniso, quindi la sera ivi dormiva celebrando
una ierogamia col simulacro del dio.
La nuova valenza del simbolo nell'ambito della mutazione su esposta è
comprensibile anche dall'etimologia delle parole greche connesse:la parola greca
“ mutos ” = mito, racconto, e contigua a “ muo ”= chiudo gli occhi, sto
silenzioso, nell’indicare il carattere segreto dei riti e con esso il silenzio
iniziatico. Il verbo greco “ mueo” = inizio ai misteri, significa, in modo
ambivalente, sia istruire sia consacrare l’esperienza in un “ corpo di gloria ”
sovraindividuale; l’iniziato produce in sé la propria trasformazione, secondo il
modello del rito.
(Autore: Umberto Capotummino. Per ulteriori
approfondimenti vedasi il suo libro "L'occhio della Fenice", Sapienza e
divinazione dall'antica Cina all'antico Egitto, Ediz. Sekhem, 2006).