A circa 800 m di altitudine, in
un bosco della Val Ponci (località Verzi) sopra l'importante borgo di Finale Ligure
(SV) e poco distante dal Ponte delle Fate, è situato un curioso
quanto enigmatico reperto: una scultura in forma antropomorfizzata, forse un personaggio divinizzato. Sicuramente fu
modellato dall'Uomo in epoche remote e imprecisate: la base emerge
direttamente dalla roccia, sottolineando il contatto eterno con la terra,
mentre il voluminoso capo si protende verso il Cielo, fissando forse un
evento astronomico significativo, oppure la levata del Sole. Il suo
orientamento, infatti, è al punto cardinale N-E. Non escludo che la parte
superiore del 'volto' possa essere stata concepita come sormontata da un
copricapo (regale?) modellato nella pietra.
Il pannello in loco lo
definisce 'menhir', pietra che evoca 'seppur sommariamente', fattezze umane.
Numerosi studi sono stati
condotti nel corso degli anni; anzitutto il curioso manufatto è situato
proprio al di sopra della cosiddetta 'Grotta dell'Orso', risalente al
paleolitico, che fu esplorata a più riprese. Ha un'altezza di circa due
metri e si trova all'inizio
di una mulattiera che conduce nella val Ponci, il cui toponimo deriva
dalla presenza di cinque ponti che, nel II sec. d.C., costituivano la via
Julia Augusta.
Molto prima dei Romani,
però, altre Culture avrebbero scolpito la roccia, forse Celtico-Liguri, ed è
arrivata incredibilmente fino a noi. Sculture del genere non hanno goduto di
grossa simpatia durante l'epoca paleocristiana ed alto medievale, fino ad
una vera e propria repressione anche in seguito. Le statue simboleggianti
divinità pagane talvolta venivano riconsacrate apponendovi delle croci,
oppure abbattute.
I Liguri pare adorassero un
dio denominato Pen o Pennin, venerato sicuramente dal
misterioso popolo dei Salassi,
sul Gran San Bernardo (che probabilmente in antico si chiamava
Montjou o Montjeu, derivante dall'antico Mons Jovis, cioè
Monte Giove!). I Salassi lo ritenevano il signore del luogo, un
protettore per i viandanti contro i pericoli della montagna. Quando i Romani
conquistarono la zona, operarono un sincretismo religioso, identificando (o
sostituendo) probabilmente Penn (che avevano ribattezzato Penninus) con
Giove (Pennino), cui eressero un tempio (v.
a questo link). Le Alpi Pennine, che dividono Francia ed Italia, è
probabile abbiano attinto il loro nome da questo. Sul Gran San Bernardo
venne scoperta un'iscrizione antichissima, pubblicata per la prima volta
dallo Sponio (Miscell.et in Aris Ignotor):
LVCIVS. LVCILIVS
DEO. PENNINO
O.M.
DONVM. DEDIT
Il pannello in loco parla
invece di "Giove Sabazio, in cui sono connesse la figura di Giove (re
e padre degli dei, divinità della Triade Capitolina), e Sabazio, nume
eponimo e tutelare del luogo. L'aspetto indigeno della divinità, indicato
dal nome "Sabazio", riconduce al culto di Pen, divinità eponima dei Liguri,
la cui religiosità tuttavia ben poco è nota, salvo il culto dei morti[...]",
come è testimoniato dai numerosissimi reperti rivenuti nelle grotte del
Finalese.
La parola 'Penn' significa
appunto 'cima' ed è analogo al vocabolo 'alp' (alto, spiccato). Di
quelle antiche origini, restano certamente i vocaboli Alpi, Appennini, Alpi
Pennine, Penna, etc.
Secondo autori antichi come
Catone, Penninus era una divinità femminile (Pennina Dea). Potrebbe
essere stata tale, in origine, a indicare la cima della montagna, la
signora, dunque, la terra protesa verso il cielo, e in seguito maschilizzata
per convenienza.
La divinità di Penn o
Penninus non sembra comunque essere appannaggio della sola Italia
settentrionale, come si legge in queste righe:
"Questo dio Pennino, ci fa
sovvenire del famoso Tempio, consacrato a Giove Appennino presso Gubbio, nel
bel mezzo di quella lunga catena di montagne onde Italia dall'un capo
all'altro è divisa. Su che sono da riferire tanto i versi di
Claudiano(Claudian, de Sexto Consul, Honor)che indicano il luogo del Tempio,
quanto un'iscrizione trovata presso lo stesso luogo, nella quale vedesi
attribuito a Giove l'epiteto di Apenino
IOVI
APENINO
T.VIVIS
COMO
GENES
SVLPICIA. EVFRO
SINE.CONIV
V.S.D.D.
Il Tempio di Gubbio si
reputa così antico, che credonsi appartenente a quello, le celebratissime
Tavole Eugubine scritte in lingua osca e ritrovate non dilungi dall'indicato
luogo del Tempio" (1)
Grazie all'amico Umberto
Cordier, preziosa guida alla scoperta del manufatto (ne ha scritto anche
nella sua "Guida ai luoghi misteriosi d'Italia", Piemme, 2002, scheda n. 90,
p.69), sappiamo che alcuni studiosi si sono interessati ad esso, ipotizzando
che si possa trattare di una divinità celtica databile tra il 3.000- 2.000
a.C. Tito Livio (Libro XXI,38 cap. 14, dice-riferendosi ai Liguri- 'sed
ab eo quod in summo sacratum vertice Peninum
montani appellant') menziona l'esistenza di un dio di pietra che veniva
adorato dai Liguri sulle vette più alte sottoforma di scheggione di roccia
variamente lavorato, ma bastava anche - per dare l'idea- un cumulo di
pietre.
Alla base della singolare
sculture, si notano dei segni incisi, forse ritualmente; si dice che vengano
anche ritrovati dei segni di offerta, il che vorrebbe dire che qualcuno
nutre ancora una forma di 'venerazione' per questa divinità...
Avvicinandosi a questa
scultura, ci si accorge che il volto non ha lineamenti, che potrebbero
essere stati erosi dal tempo e dalle intemperie o scalpellati via
intenzionalmente ma, ammesso che in origine ne avesse di definiti, oggi
difficilmente si potrebbe- a distanza ravvicinata - individuarvi delle
caratteristiche antropomorfe (forse animalesche?).
Dunque non pare fosse
importante la forma, quanto il luogo e la roccia, da sempre depositaria di
segreti ancestrali cui le antiche civiltà affidarono i loro messaggi
spirituali.
Il Museo Archeologico di
Finale
Ridiscendendo dalla Val
Ponci, è 'obbligatoria' una visita all'interessante raccolta del Museo,
allestito ni chiostri dell'ex monastero di Santa Caterina nel centro storico
di Finalborgo, dove
si ripercorrono millenni di storia e di archeologia del territorio finalese,
ricchissimo di testimonianze preistoriche e protostoriche. Le sue
caratteristiche geologiche, infatti, caratterizzate da un elevato numero di
caverne, grotte e ripari sotto roccia di origine carsica, hanno indotto
l'Uomo preistorico ad abitarle, a seppellirvi i morti, permettendoci di
ricostruire il loro Pensiero, le loro usanze e i culti funerari. Poco resta
invece delle abitazioni, che erano capanne, le quali -essendo all'aperto-
sono state cancellate dall'erosione, lasciando labili indizi della loro
presenza.
Con tutte queste grotte e
cavità misteriose, è logico che studiosi e appassionati si siano spinti alla
loro scoperta, specialmente nell' Ottocento, quando il fervore per la
conoscenza del passato era all'apice. Quanti ' passi nel mistero' devono
aver fatto! Immaginiamo la loro avventura, le loro aspettative, il loro
stupore e la soddisfazione nel venire ricompensati con reperti tanto
abbondanti e fondamentali per lo studio delle civiltà antiche nel territorio
ligure. Le grotte del finalese divennero per decenni una vera e propria
fucina per la nascita di una nuova scienza, la Paletnologia,
l'archeologia della Preistoria.
Dal punto di vista etico
siamo sempre davanti ad una domanda cruciale:facciamo bene a musealizzare le
sepolture o dovremmo -come umanità- lasciarle nei loro contesti dove furono
concepite al fine di rendere al defunto quell'immortalità in cui quella
cultura credeva? Chiaramente, questo vale per tutti (Egizi in primis).
Personalmente preferirei che riposassero in pace. Ma a parte che la Ricerca
attinge da questi studi ed analisi moderne importantissimi dati di
conoscenza, lasciarli in situ significherebbe perderli irrimediabilmente, o
farli disperdere da tombaroli senza troppi scrupoli. Certo, per millenni - i
più fortunati- sono rimasti nei loro luoghi di deposizione, ma se pensiamo
che la nostra società -dopo un certo numero di anni - estumula i defunti e
li pone in ossari comuni...c'è da riflettere.Avvicinarsi agli scheletri dei
nostri progenitori è comunque un'operazione da farsi con il massimo
rispetto, al di là delle curiosità che suscita.
In particolare, un sito
conosciuto a livello mondiale è quello delle Arene Candide,
grande complesso ipogeo che si apre a 89 m di quota s.l.m., all'interno del
promontorio della Caprazoppa che separa Finale da Borgio Verezzi. Il primo
ad intraprenderne degli scavi fu il geologo Arturo Issel (1842-1922), nel
1864, che per quarant'anni della sua vita si dedicò a questa e ad altre
grotte del finalese, con i suoi collaboratori, ritrovando migliaia di
reperti e dando al mondo fondamentali pubblicazioni utilissime ancora oggi.
La
caverna, scavata nelle acque del calcare giurassico, prende il nome dalle
dune di sabbia quarzosa che fino agli anni '20 del secolo scorso si
estendeva dalla riva del mare alle pendici della grotta, oggi purtroppo
andata perduta per l'infelice idea di realizzare una cava estrattiva.
L'importanza della grotta consiste nel fatto che racchiude la stratigrafia
più completa della Preistoria mediterranea, sedimenti che contengono tracce
di insediamenti umani ininterrotti, dal Paleolitico superiore (26.000 anni
fa) al V- VI sec. d.C.
Questo mi ha ricordato la
Grotta di
Vela Spila, in Croazia, che ho visitato nel 2009 e di cui
c'è una pagina dedicata in questo sito.
Nel Museo del Finale si possono
ammirare -suddivisi per sale disposte cronologicamente- i resti scheletrici
dell'Uomo di Neandertal, strumenti litici ed utensili paleolitici,
mesolitici e neolitici; vi è poi l'Età dei Metalli, quella Romana e
Bizantina, Altomedievale e Medievale. Una parte è in allestimento.
Risale a
24.000 anni fa la sepoltura nota come quella del 'Giovane Principe'(ritrovato
nella caverna delle Arene Candide),
ricoperto di ocra rossa e adornato di oggetti particolari, come una cuffia
di conchiglie, i bastoni del comando (quattro bastoni d'osso forati, trovati
in prossimità delle spalle,del torace e lungo il fianco sinistro), braccialetti e cavigliere.
Straordinaria, oltre che per la sua integrità, cura ed antichità, anche per
la considerevole altezza raggiunta dal ragazzo che era ancora in fase di
crescita.
Molto ricca la
documentazione del Neolitico, in particolare abbiamo ammirato le statuette
femminli di Grande Madre, che sono state trovate soltanto nel
Finalese, per quanto riguarda la Liguria, soprattutto nella Caverna delle
Arene Candide e nella Grotta Pollera. Appartengono tutte alla cultura
denominata 'Vasi a Bocca Quadrata' (5.000-4.200 anni fa).
Interessante
la sepoltura IV rinvenuta nell'Arma dell'Aquila nei livelli del Neolitico
medio, durante gli scavi condotti da C. Richard. Il corpo, femminile e di
età avanzata, fu deposto in posizione fortemente contratta in un interstizio
naturale di forma vagamente triangolare formato da due massi rocciosi ma la
cosa sorprendente è che questa donna subì un intervento chirurgico al
cranio, al quale sopravvisse benissimo. Lo evidenzia una depressione
circolare sull'occiptale che, confrontata con altri casi simili, ha permesso
di capire che era stata eseguita un'operazione di scarificazione con uno
strumento litico, il quale produsse un abrasione senza arrivare alla
perforazione (i fori presenti sono posteriori alla morte, e si sono prodotti
per la fragilità della lamina ossea residua). Le pratiche di trapanazione
cranica paiono noto nel Neolitico; in alcuni casi desunti dall'analisi degli
scheletri pervenutici, si è documentata l'asportazione di una parte del
tavolato osseo con sopravvivenza degli individui, dimostrando il livello di
conoscenze mediche e terapeutiche raggiunte da quegli antichi progenitori.
Lo scopo di tali tecniche, oltre a quelle a scopo curativo, potrebbe anche
trovarsi nelle finalità magico-religiose. Rimane comunque ancora un
bell'alone di mistero.
Il tratto toraco-lombo-sacrale della colonna vertebrale dell'individuo di 15
anni, della sepoltura V (provenienza Caverna delle Arene Candide), Neolitico
Medio.Essa mostra il più antico caso (e meglio documentato) di tubercolosi
ossea (Morbo di Pott), che costringeva l'individuo a camminare chino.
All'altezza del petto fu rinvenuto un punteruolo in osso (perchè?).
Tenerissima la sepoltura di una
donna di età giovanissima, risalente al Neolitico medio, che ha accanto i
piccoli resti di un neonato, forse ancora un feto giunto a termine e che
ella non riuscì a partorire, perchè podalico (ritrovamento fatto nella
Grotta Pollera).
Ed ecco un pezzo forte del
Museo (tra i tanti, ma dobbiamo sintetizzare...):un cosiddettotokens.
Così, almeno, è stata catalogato, sebbene permangano alcuni dubbi sul suo
utilizzo. E' infatti un 'unicum' in Italia ed è stato ritrovato nel deposito
neolotico del Riparo del Pian del Ciliegio. Si presenta come un
cilindretto di terracotta del diametro di 2,2 cm, e con altezza pari ad 8
cm. Su tutta la superficie laterale è stato inciso, prima della cottura, un
reticolo formato da 12 linee verticali e 13 orizzontali. Su un lato questo
reticolo è incompleto per frattura del reperto. In totale abbiamo 60
riquadri (5 file di 12 elementi): a cosa servivano? Nella foto si nota come
otto riquadri siano stati incisi profondamente con una punta triangolare;
sono presenti altri segni ma vengono interpretati come scalfitture casuali.
Gli studiosi ritengono sia un'antica forma di conteggio, simile a quella in
uso presso i popoli del Vicino Oriente (dove sono stati rinvenuti 'gettoni'
di terracotta, appunto chiamati tokens), dove sono attestati a partire dall'
8.000 a.C., assumendo forme sempre più complesse nel corso dei millenni.
Vengono considerate proto-scritture. Ma nel territorio ligure non sono
documentati, nè in altre zone d'Italia (tuttavia è noto che alcune piastrine
in ceramica ritrovate in contesti neolitici del centro-sud, fin'ora
considerate 'fusaiole', potrebbero essere in realtà dei tokens). C'è
un altro mistero che riguarda il piccolo e solitario reperto: il computo
sarebbe stato sessagesimale, metodo di calcolo impiegato presso i
Sumeri a partire dal IV millennio a.C. (che forse lo acquisirono da Culture
ancora più antiche?). Normalmente venivano usati per conteggi di animali o
prodotti agricoli. A Pian del Ciliego era fiorente invece l'attività
ceramica, forse il computo si riferiva a recipienti prodotti o da produrre.
Ma resta un interrogativo: perchè ce n'è solo uno, di esemplare? Forse il
proseguo di studi e ricerche faranno luce sui tanti lati oscuri che ancora
avvolgono il nostro passato.
Infine, una 'chicca' per gli
appassionati di giochi antichi: abbiamo trovato anche il 'nostro' filetto
tra le numerose esposizioni, pedine e astragali, e altri giochi romani come
quello delle 'nove fossette'. E tra le lapidi ritrovate nel vicino Castel
Gavone, sull'altura di Finale, che sono conservate nel magazzino del Museo,
ci dovrebbe essere anche quella che reca incisa una
Triplice Cinta.
La
Ricerca continua...
Si ringrazia la d.ssa Manuela
Saccone, resp. delle attività didattiche del Museo.
1)-Tratto da
"Dissertazioni della Pontifica Accademia romana di archeologia di
Pontificia Accademia romana di archeologia "(p.167, Tomo I,
Parte I), 1821, in Roma, nella Stamperia de Romanis (digitalizzato da Google
libri)