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Negli
ultimi tre secoli una serie di scrittori italiani ha affrontato un tema
che ormai rischia di andare dimenticato nel vertiginoso succedersi delle
mode letterarie: l’antichità dei popoli italici e la precedenza storica
della loro civiltà rispetto a quelle del bacino del Mediterraneo, civiltà
a cui questi scrittori dettero il nome di Terra
di Saturno, rifacendosi così all’Età dell’Oro di Saturno, della
quale gli scrittori classici, sia latini che greci, avevano parlato. I
loro lavori si appoggiano a questi classici, le cui citazioni vengono
collegate e riunite in modo tale da creare un discorso ordinato, anche se
a volte sviluppato sul filo della logica o contenente errori anche
grossolani per noi che, venuti tre secoli dopo, abbiamo a disposizione
nuove scienze e nuovi strumenti d’indagine, per cui a volte essi ci
fanno sorridere per la loro ingenuità ed il loro travolgente entusiasmo.
Ma non per
questo la loro opera deve essere sottovalutata e lasciata cadere
nell’oblio: costoro pubblicarono prima e durante il periodo del
Risorgimento le loro opere e vanno annoverati tra i promotori dell’Unità
nazionale, a cui davano l’esempio antichissimo di un Primo Risorgimento
che doveva essere fonte di speranza per la riuscita del nuovo tentativo di
riunire le regioni italiane e di cacciare lo straniero, austriaco,
spagnolo o francese che fosse.
Possiamo risalire indietro nel
tempo fino a giungere almeno ai primi anni del Settecento (in realtà
sarebbe possibile trovare ancora prima tracce di questa ricerca culturale,
ad esempio con Annio da Viterbo, che già nel Cinquecento parlava di una
“Prisca Sapienza” dei primi popoli italici ),
a partire da Giambattista Vico, il quale nel suo De
antiquissima italorum sapientia del 1710 affermò per primo
l’esistenza di una sapienza romana ed etrusca che aveva preceduto nel
tempo le altre civiltà, andando controcorrente, poiché già allora si
andava affermando quella concezione della supremazia civile e culturale
della Grecia, che con il Winckelmann troverà la sua codificazione fin dal
1755 con i Pensieri
sull’imitazione delle opere greche
per poi giungere alla critica distruttiva di Theodor Mommsen e
della “Scuola tedesca” nei confronti di tutto quanto riguardava la
storia arcaica di Roma.
Nel De
antiquissima Vico, considerando il linguaggio
come oggettivazione del pensiero, cercò di rintracciare, mediante
l'analisi etimologica
di alcune parole chiave latine, le originarie forme del pensiero dei
romani e quindi degli etruschi che erano la sorgente prima delle loro
conoscenze: applicando questo originale metodo,
Vico risaliva ad un antico sapere filosofico delle più antiche
popolazioni italiche.
Il fatto che Vico appartenesse alla
cerchia dei conoscenti di Raimondo De Sangro Principe di San Severo è a
nostro avviso molto interessante, visto che si può rintracciare tutta una
serie di personaggi che dal tempo del Principe portarono avanti questa
linea di pensiero fino all’Ottocento e forse anche oltre: parliamo di
suo figlio Vincenzo, del nipote Michele, dei suoi cugini Francesco e Luigi
D’Aquino, e poi degli affiliati alle Logge di Raimondo che parteciparono
all’effimera Repubblica Napoletana del 1799, proseguendo attraverso vie,
che non sappiamo se connesse o meno al suo pensiero esoterico ma
sicuramente affini, quali il Rito egizio di Misraïm e di Misraïm-Memphis
e quello che viene chiamato Ordine Egizio (ma di cui in realtà ben poco
si conosce di certo), ambedue Centri che ebbero a Napoli il loro punto di
forza.
Parlare di questo ci porterebbe
troppo lontano, per cui limiteremo il discorso ad un riassunto del “mito
di base” della Terra di Saturno,
dove con la parola “mito” non intendiamo favola o leggenda, come ora
si usa, ma quell’idea-forza che dà potenza al pensiero umano
collegandolo analogicamente ai piani superiori dell’Essere.
Dobbiamo iniziare, aiutandoci con
i risultati degli studi della moderna geologia e vulcanologia,
dall’ultima Era Glaciale: a quel tempo l’estensione dell’Italia era
molto maggiore di quella attuale (v. fig. 1):
Fig.
1 (cliccare per ingrandire l'immagine)
ad
oriente essa occupava buona parte dell’Adriatico, per cui le foci del Po
erano ben distanti da quelle attuali, ad occidente era direttamente
collegata all’isola d’Elba e al complesso Corsica-Sardegna mentre a
sud giungeva a comprendere la Sicilia, Malta e Gozo; sul versante
tirrenico le spiagge costituivano un’ampia pianura, dato che il livello
del Mare Tirreno era circa 100-120 metri più basso dell’attuale.
Questa era la Tirrenide,
una regione abitata da tribù italiche di alto livello di civiltà, di cui
Mazzoldi, il maggiore degli scrittori dell’Ottocento, ci dà nel suo Delle
origini italiche e della diffusione dell’incivilimento italiano del
1840 un’interessante ricostruzione, basata sulle notizie pervenute
attraverso i miti, la poesia epica e gli altri scritti degli antichi.
Secondo Mazzoldi esse sarebbero state di religione monoteista,
identificavano nel Sole l’aspetto visibile della divinità, lo Stato era
retto da un monarca e da un consiglio di aristocratici, l’architettura
era molto avanzata, tanto da consentire le costruzioni delle cinte murarie
di Alatri, di Segni e di altre “città ciclopiche”, che noi chiamiamo
megalitiche e che Mazzoldi chiama “saturnie”, l’arte della
navigazione aveva raggiunto alti livelli di perfezione, in un periodo in
cui le altre nazioni del Mediterraneo ancora non possedevano imbarcazioni
capaci di attraversare i mari.
Ravioli, che pubblicò i suoi
lavori poco dopo Mazzoldi a partire dal Ragionamento
del Foro romano e dei suoi principali monumenti del 1859, suppose
l’esistenza di una prima città nella zona dove successivamente sorgerà
Saturnia, la Roma di Saturno, che egli nel suo disegno dell’Italia-Tirrenide
chiamò “Metropolis”
(v. fig. 2):
Fig. 2 (cliccare
per ingrandire l'immagine)
questa
sarebbe quindi la Prima Roma, la Roma precedente la “catastrofe
italica”, il cui re potrebbe identificarsi con quel Camese
che rarissime citazioni dicono essere precedente anche a Giano, il quale
avrebbe da lui ricevuto il territorio che sarà il Lazio secondo la
testimonianza di Macrobio (Saturnalia
I, 7 19): “Giano ottenne di
regnare su questa terra che ora è chiamata Italia e, come scrive Igino
seguendo Protarco di Tralli, regnò condividendo il potere con Camese,
anch’egli indigeno”. In tal modo “l’epoca
aurea viene spostata al regno dell’oscurissimo Camese di cui resta poco
più del nome, che regnò ancor prima di Giano e condivise con lui il
regno” .
Intervennero a questo punto due
fattori a distruggere la Tirrenide, la velocità di accadimento dei quali
fu nell’arco di una o al massimo poche generazioni: la fine dell’Era
Glaciale, circa nel 6000 a.C., determinò lo scioglimento improvviso dei
ghiacci ed un rapido innalzamento del livello del mare, ma sicuramente più
imponente e più veloce fu l’azione dei vulcani nel mutare l’aspetto
dell’ambiente, messi in attività dal riassestamento della crosta
terrestre conseguente alla deglaciazione e alla redistribuzione dei pesi
sulla superficie del nostro pianeta (conseguente alla scomparsa di enormi
ghiacciai e all’aumento delle acque degli oceani e dei mari).
Fig. 3. La
catena vulcanica del Lazio e della Campania (v. fig. 3) eruttò milioni di
metri cubi di lava e di ceneri che ebbero l’effetto non solo di
modificare la superficie, ricoprendola di strati di rocce vulcaniche, ma
anche quello di scatenare terremoti e maremoti e di inabissare le regioni
costiere, sommerse anche dal rapido innalzarsi dei mari, rendendo
inabitabili zone fino allora popolate. Tra questi effetti vi fu la rottura
della lingua di terra che univa l’Italia alla Sicilia e la
trasformazione di questa in un’isola, avvenimento che era ben noto agli
scrittori classici e più volte raccontato da essi .
Ad essi si unì l’eruzione di
vulcani ora sommersi (ma le cui cime si trovano attualmente a soli 600 –
700 metri sotto il livello del mare), posti nel Tirreno tra il golfo di
Napoli e le isole Lipari, dei quali almeno uno, il Marsili, è tutt’ora
attivo.
Queste
eruzioni distruttive ed i terremoti che ne conseguirono sarebbero
ricordati nelle storie degli antichi nel mito della guerra tra Giove “il
giovane” e Saturno con la sua stirpe di Titani: anche se molti autori, a
partire dal Mazzoldi e dal Ravioli, furono fin troppo evemeristici nella
ricostruzione di questa guerra come di tutto il mito della Terra
di Saturno, quanto riportato nelle “favole” dei latini e dei greci
sembra coincidere in modo impressionante con tali lontanissimi eventi.
Che questo sia avvenuto in tempi
relativamente recenti lo conferma lo studio del Vulcano Laziale o Albano,
la cui ultima fase di attività fu intorno al 5000 - 3000 a.C., anzi
attività di minore intensità sono note anche in epoca storica e
ricordate dagli scrittori romani. L’innalzamento del livello dei mari ed
in particolare del Tirreno fu tale che le sue coste furono sommerse e per
lungo tempo le coste toscana, laziale e campana furono trasformate in un
arcipelago di isole, tra le quali primeggiavano il Vulcano Albano ed il
Monte Circeo.
Tali
sconvolgimenti, a cui gli autori della Terra
di Saturno dettero il nome di “cataclisma” o “catastrofe
italica” ,
determinarono importanti cambiamenti nella dislocazione delle popolazioni
della Tirrenide, parte delle quali si rifugiò sulle montagne e parte
invece preferì allontanarsi via mare per cercare terre più ospitali: i
primi presero il nome di Aborigeni, i secondi di Pelasgi. Gli Aborigeni si
trovarono compressi dai nuovi popoli giunti da nord-ovest (chiamati da
questi autori Iberico-Liguri o Celto-Liguri), mentre altri popoli,
anch’essi autoctoni come gli Aborigeni ma stanziati nelle regioni
interne dell’Italia, come i proto Umbri ed i Siculi, si impadronivano di
vasti territori dell’Italia centrale, cacciando gli Aborigeni sugli
Appennini.
Tra
le città conquistate nel Lazio dai Siculi vi fu anche la Seconda Roma, la
Saturnia fondata alla fine del periodo catastrofico da Saturno sul
Palatino con il consenso di Giano, signore del Gianicolo e della città di
Antipolis; di esse rimanevano secondo Virgilio solo alcuni resti che
Evandro mostrò ad Enea, alcuni dei quali vennero rinvenuti al tempo dei
Tarquinii, cioè le steli consacrate a Juventas e Terminus sul
Campidoglio, che per decreto degli Àuguri dovettero esser lasciate sul
posto al momento della costruzione del tempio di Giove Ottimo Massimo.
I Pelasgi invece approdarono sulle
coste di Creta e dell’Egitto e da qui passarono in Grecia, portando la
civiltà della Tirrenide e dirozzando i popoli con cui vennero in
contatto, e si spinsero fino alle coste della Turchia e della Mezzaluna
Fertile, secondo la ricostruzione del Mazzoldi.
Col
passare dei secoli i Pelasgi, ridotti numericamente perché ormai dispersi
in piccole comunità su di un territorio vastissimo, in parte furono
assorbiti dai popoli che avevano civilizzato, in parte vennero sconfitti
in guerre locali (e la storia di Platone secondo cui gli Ateniesi vinsero
gli Atlantidi sarebbe una testimonianza di ciò), per cui chiesero
all’oracolo di Dodona, da loro stessi fondato, cosa fare: l’oracolo
dette il responso, riportato
da Lucio Manlio e trascritto da Dionigi d’Alicarnasso (Rom
Ant I, 19, 3), di ritornare alla Terra Saturnia.
Raggiunta l’Italia, i Pelasgi
sbarcarono secondo gli autori antichi sulla costa laziale presso Ceri e da
lì si addentrarono nel Reatino fino a congiungersi con i loro antichi
parenti Aborigeni: l’unione delle due forze consentì di formare un
esercito poderoso che ricacciò a nord i Celto-Liguri e a sud i Siculi, i
quali allora occupavano il sito che sarebbe stato di Roma, sul quale
invece si insediarono i Pelasgi.
Fu
questo un vero e proprio Primo Risorgimento, che consentì di liberare
l’Italia dagli invasori e di ricostruire una nazione italica
comprendente gran parte dell’Italia centro-meridionale, abitata dai
Pelasgi a sud del Tevere e dagli Etruschi a nord di esso fino alla pianura
del Po.
Mazzoldi riconobbe in questa
ricostruzione storica di un’Italia nata dalla guerra degli Aborigeni e
dei Pelasgi contro i Liguro-Iberici ed i Siculi una prefigurazione la cui
prosecuzione era quel Risorgimento che ai suoi tempi (1844) prendeva vita
sotto la guida della casata piemontese dei Savoia: “Un
eloquente ma non mai compreso insegnamento, col quale si aprirono e si
conclusero i quattro grandi periodi [della storia d’Italia],
finì di determinarli nelle prime mosse di questo quinto periodo
che si è ora iniziato nella dominazione redentrice di Vittorio Emanuele
II” .
La
ricostruzione delle città dopo la conquista dei Pelasgo-Aborigeni ebbe,
secondo Ravioli, un particolare simbolo grafico come commemorazione delle
vittorie ottenute sugli invasori che avevano usurpato il loro territorio:
una divinità femminile armata di lancia e scudo in piedi tra due colonne
sormontate da galli o da altri animali, disegno che venne adottato come
emblema nei loro libri sia da Ravioli che da Ciro Nispi-Landi, il
prosecutore della sua opera;
questo dipinto si trovava sui vasi cosi detti Panatenaici ritrovati in Italia (v.
fig.4), i quali però non commemoravano, a detta di Ravioli, le
note feste in onore di Atena ma la redenzione da parte dei
Pelasgo-Aborigeni delle città cadute in mano agli invasori.
Fig. 4 (cliccare per ingrandire l'immagine)
Ai
Pelasgo-Aborigeni si unì in seguito un altro popolo, che sarebbe giunto
in Italia dall’ovest provenendo dalla Spagna e che contribuì alla
cacciata dei Liguro-Iberici: secondo Ravioli questo popolo, formato da
Argei e da Epei, sarebbe stato guidato da Ercole di Argo (questi autori
distinguono un Ercole italico da un più tardo Heracles greco, al quale
vanno attribuite le Dodici Fatiche) ed era composto anch’esso da
italici, quindi parenti dei Pelasgo–Aborigeni, ma sottomessi in passato
dai Celto-Liguri e deportati in Iberia. Il mito dei “buoi di Gerione”
nasconderebbe questa vicenda, poiché i “buoi” altri non sarebbero che
i “vitloi”, nome di un’antica popolazione stanziata nell’attuale
Calabria ed eponima dell’antico nome d’Italia come “la terra dei vituli,
dei buoi”. Il Foro Boario di Roma con la sua statua di un possente toro
sarebbe stata la commemorazione del riscatto di Roma da parte di Ercole.
La sconfitta del re siculo Caco e l’uccisione di questi per mano di
Ercole si situava al tempo della Terza Roma, la Pallantea di Evandro, ed
Ercole in tal modo restituì pienamente il territorio di Roma ai
Pelasgo-Aborigeni, tanto da venire da essi divinizzato (secondo le visioni
evemeristiche del Ravioli e poi di Guido Di Nardo ne La
Roma preistorica sul Palatino del 1934). Dopo Evandro iniziò la serie
dei Re divini del Lazio, Pico, Fauno e Latino, al cui tempo giunse in
Italia Enea, per proseguire con la dinastia dei Silvii, discendenti di
Enea, fino a Numitore re di Alba Longa: giungiamo così al periodo storico
che conosciamo, nel quale inizia la storia della Quarta Roma, la Roma di
Romolo, erede ultima della civiltà e della sapienza della Tirrenide.
Questa,
molto in breve, la storia dell’epopea della Terra
di Saturno: il primato della civiltà italica sulle altre nazioni
costituì uno stimolo importante per coloro che combattevano nelle guerre
risorgimentali e soprattutto l’opera di Mazzoldi ebbe grande eco nella
cultura del suo tempo, tanto da giungere addirittura ad ispirare opere di
argomento molto diverso, quale l’imponente Storia
della Medicina italiana di Salvatore De Renzi (pubblicata tra il 1845
ed il 1848 a Napoli in cinque tomi), fino ad influenzare autori come
Nispi-Landi (Roma monumentale dinanzi all’umanità – Il Settimonzio sacro, 1892), Di Nardo (La Roma preistorica sul Palatino, 1934) e Leonardi (Le
origini dell’uomo, 1937), anche se in questi ultimi due le tesi del
sempre più diffuso occultismo di marca teosofica cominciarono a mutare il
significato iniziale del tema della Terra
di Saturno.
In
ogni caso, non si può dimenticare proprio in questo 150° anniversario
dell’Unità d’Italia questa falange di autori, i quali con le loro
appassionanti opere, l’una concatenata all’altra e permeate da
influenze sottili della cui origine non sempre possiamo dare contezza,
rimangono una delle pietre miliari della storia letteraria e civile
d’Italia.
(Autore: Paolo
Galiano) |
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