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           IL MITO ITALICO DELLA TERRA DI SATURNO

                                                                                          (d i Paolo Galiano ©)

                                              (estratto da: Roma prima di Roma, di prossima pubblicazione per le Edizioni Simmetria di Roma)

 

Negli ultimi tre secoli una serie di scrittori italiani ha affrontato un tema che ormai rischia di andare dimenticato nel vertiginoso succedersi delle mode letterarie: l’antichità dei popoli italici e la precedenza storica della loro civiltà rispetto a quelle del bacino del Mediterraneo, civiltà a cui questi scrittori dettero il nome di Terra di Saturno, rifacendosi così all’Età dell’Oro di Saturno, della quale gli scrittori classici, sia latini che greci, avevano parlato. I loro lavori si appoggiano a questi classici, le cui citazioni vengono collegate e riunite in modo tale da creare un discorso ordinato, anche se a volte sviluppato sul filo della logica o contenente errori anche grossolani per noi che, venuti tre secoli dopo, abbiamo a disposizione nuove scienze e nuovi strumenti d’indagine, per cui a volte essi ci fanno sorridere per la loro ingenuità ed il loro travolgente entusiasmo. Ma non per questo la loro opera deve essere sottovalutata e lasciata cadere nell’oblio: costoro pubblicarono prima e durante il periodo del Risorgimento le loro opere e vanno annoverati tra i promotori dell’Unità nazionale, a cui davano l’esempio antichissimo di un Primo Risorgimento che doveva essere fonte di speranza per la riuscita del nuovo tentativo di riunire le regioni italiane e di cacciare lo straniero, austriaco, spagnolo o francese che fosse. Possiamo risalire indietro nel tempo fino a giungere almeno ai primi anni del Settecento (in realtà sarebbe possibile trovare ancora prima tracce di questa ricerca culturale, ad esempio con Annio da Viterbo, che già nel Cinquecento parlava di una “Prisca Sapienza” dei primi popoli italici [1]), a partire da Giambattista Vico, il quale nel suo De antiquissima italorum sapientia del 1710 affermò per primo l’esistenza di una sapienza romana ed etrusca che aveva preceduto nel tempo le altre civiltà, andando controcorrente, poiché già allora si andava affermando quella concezione della supremazia civile e culturale della Grecia, che con il Winckelmann troverà la sua codificazione fin dal 1755 con i Pensieri sull’imitazione delle opere greche  per poi giungere alla critica distruttiva di Theodor Mommsen e della “Scuola tedesca” nei confronti di tutto quanto riguardava la storia arcaica di Roma.  

Nel De antiquissima Vico, considerando il linguaggio come oggettivazione del pensiero, cercò di rintracciare, mediante l'analisi etimologica di alcune parole chiave latine, le originarie forme del pensiero dei romani e quindi degli etruschi che erano la sorgente prima delle loro conoscenze: applicando questo originale metodo, Vico risaliva ad un antico sapere filosofico delle più antiche popolazioni italiche. Il fatto che Vico appartenesse alla cerchia dei conoscenti di Raimondo De Sangro Principe di San Severo è a nostro avviso molto interessante, visto che si può rintracciare tutta una serie di personaggi che dal tempo del Principe portarono avanti questa linea di pensiero fino all’Ottocento e forse anche oltre: parliamo di suo figlio Vincenzo, del nipote Michele, dei suoi cugini Francesco e Luigi D’Aquino, e poi degli affiliati alle Logge di Raimondo che parteciparono all’effimera Repubblica Napoletana del 1799, proseguendo attraverso vie, che non sappiamo se connesse o meno al suo pensiero esoterico ma sicuramente affini, quali il Rito egizio di Misraïm e di Misraïm-Memphis e quello che viene chiamato Ordine Egizio (ma di cui in realtà ben poco si conosce di certo), ambedue Centri che ebbero a Napoli il loro punto di forza. Parlare di questo ci porterebbe troppo lontano, per cui limiteremo il discorso ad un riassunto del “mito di base” della Terra di Saturno, dove con la parola “mito” non intendiamo favola o leggenda, come ora si usa, ma quell’idea-forza che dà potenza al pensiero umano collegandolo analogicamente ai piani superiori dell’Essere. Dobbiamo iniziare, aiutandoci con i risultati degli studi della moderna geologia e vulcanologia, dall’ultima Era Glaciale: a quel tempo l’estensione dell’Italia era molto maggiore di quella attuale (v. fig. 1):

 

Mitoitalico1.jpg (360727 byte) Fig. 1 (cliccare per ingrandire l'immagine)

ad oriente essa occupava buona parte dell’Adriatico, per cui le foci del Po erano ben distanti da quelle attuali, ad occidente era direttamente collegata all’isola d’Elba e al complesso Corsica-Sardegna mentre a sud giungeva a comprendere la Sicilia, Malta e Gozo; sul versante tirrenico le spiagge costituivano un’ampia pianura, dato che il livello del Mare Tirreno era circa 100-120 metri più basso dell’attuale. Questa era la Tirrenide, una regione abitata da tribù italiche di alto livello di civiltà, di cui Mazzoldi, il maggiore degli scrittori dell’Ottocento, ci dà nel suo Delle origini italiche e della diffusione dell’incivilimento italiano del 1840 un’interessante ricostruzione, basata sulle notizie pervenute attraverso i miti, la poesia epica e gli altri scritti degli antichi. Secondo Mazzoldi esse sarebbero state di religione monoteista, identificavano nel Sole l’aspetto visibile della divinità, lo Stato era retto da un monarca e da un consiglio di aristocratici, l’architettura era molto avanzata, tanto da consentire le costruzioni delle cinte murarie di Alatri, di Segni e di altre “città ciclopiche”, che noi chiamiamo megalitiche e che Mazzoldi chiama “saturnie”, l’arte della navigazione aveva raggiunto alti livelli di perfezione, in un periodo in cui le altre nazioni del Mediterraneo ancora non possedevano imbarcazioni capaci di attraversare i mari. Ravioli, che pubblicò i suoi lavori poco dopo Mazzoldi a partire dal Ragionamento del Foro romano e dei suoi principali monumenti del 1859, suppose l’esistenza di una prima città nella zona dove successivamente sorgerà Saturnia, la Roma di Saturno, che egli nel suo disegno dell’Italia-Tirrenide chiamò “Metropolis” (v. fig. 2):

Fig. 2 - L'Italia secondo Ravioli.jpg (48991 byte) Fig. 2 (cliccare per ingrandire l'immagine)

 

questa sarebbe quindi la Prima Roma, la Roma precedente la “catastrofe italica”, il cui re potrebbe identificarsi con quel Camese [2] che rarissime citazioni dicono essere precedente anche a Giano, il quale avrebbe da lui ricevuto il territorio che sarà il Lazio secondo la testimonianza di Macrobio (Saturnalia I, 7 19): “Giano ottenne di regnare su questa terra che ora è chiamata Italia e, come scrive Igino seguendo Protarco di Tralli, regnò condividendo il potere con Camese, anch’egli indigeno”. In tal modo “l’epoca aurea viene spostata al regno dell’oscurissimo Camese di cui resta poco più del nome, che regnò ancor prima di Giano e condivise con lui il regno[3]. Intervennero a questo punto due fattori a distruggere la Tirrenide, la velocità di accadimento dei quali fu nell’arco di una o al massimo poche generazioni: la fine dell’Era Glaciale, circa nel 6000 a.C., determinò lo scioglimento improvviso dei ghiacci ed un rapido innalzamento del livello del mare, ma sicuramente più imponente e più veloce fu l’azione dei vulcani nel mutare l’aspetto dell’ambiente, messi in attività dal riassestamento della crosta terrestre conseguente alla deglaciazione e alla redistribuzione dei pesi sulla superficie del nostro pianeta (conseguente alla scomparsa di enormi ghiacciai e all’aumento delle acque degli oceani e dei mari).

 

Fig. 3 - La catena dei vulcani laziali.jpg (1293970 byte) Fig. 3. La catena vulcanica del Lazio e della Campania (v. fig. 3) eruttò milioni di metri cubi di lava e di ceneri che ebbero l’effetto non solo di modificare la superficie, ricoprendola di strati di rocce vulcaniche, ma anche quello di scatenare terremoti e maremoti e di inabissare le regioni costiere, sommerse anche dal rapido innalzarsi dei mari, rendendo inabitabili zone fino allora popolate. Tra questi effetti vi fu la rottura della lingua di terra che univa l’Italia alla Sicilia e la trasformazione di questa in un’isola, avvenimento che era ben noto agli scrittori classici e più volte raccontato da essi [4]. Ad essi si unì l’eruzione di vulcani ora sommersi (ma le cui cime si trovano attualmente a soli 600 – 700 metri sotto il livello del mare), posti nel Tirreno tra il golfo di Napoli e le isole Lipari, dei quali almeno uno, il Marsili, è tutt’ora attivo.

Queste eruzioni distruttive ed i terremoti che ne conseguirono sarebbero ricordati nelle storie degli antichi nel mito della guerra tra Giove “il giovane” e Saturno con la sua stirpe di Titani: anche se molti autori, a partire dal Mazzoldi e dal Ravioli, furono fin troppo evemeristici nella ricostruzione di questa guerra come di tutto il mito della Terra di Saturno, quanto riportato nelle “favole” dei latini e dei greci sembra coincidere in modo impressionante con tali lontanissimi eventi. Che questo sia avvenuto in tempi relativamente recenti lo conferma lo studio del Vulcano Laziale o Albano, la cui ultima fase di attività fu intorno al 5000 - 3000 a.C., anzi attività di minore intensità sono note anche in epoca storica e ricordate dagli scrittori romani. L’innalzamento del livello dei mari ed in particolare del Tirreno fu tale che le sue coste furono sommerse e per lungo tempo le coste toscana, laziale e campana furono trasformate in un arcipelago di isole, tra le quali primeggiavano il Vulcano Albano ed il Monte Circeo.

Tali sconvolgimenti, a cui gli autori della Terra di Saturno dettero il nome di “cataclisma” o “catastrofe italica” [5], determinarono importanti cambiamenti nella dislocazione delle popolazioni della Tirrenide, parte delle quali si rifugiò sulle montagne e parte invece preferì allontanarsi via mare per cercare terre più ospitali: i primi presero il nome di Aborigeni, i secondi di Pelasgi. Gli Aborigeni si trovarono compressi dai nuovi popoli giunti da nord-ovest (chiamati da questi autori Iberico-Liguri o Celto-Liguri), mentre altri popoli, anch’essi autoctoni come gli Aborigeni ma stanziati nelle regioni interne dell’Italia, come i proto Umbri ed i Siculi, si impadronivano di vasti territori dell’Italia centrale, cacciando gli Aborigeni sugli Appennini.

Tra le città conquistate nel Lazio dai Siculi vi fu anche la Seconda Roma, la Saturnia fondata alla fine del periodo catastrofico da Saturno sul Palatino con il consenso di Giano, signore del Gianicolo e della città di Antipolis; di esse rimanevano secondo Virgilio solo alcuni resti che Evandro mostrò ad Enea, alcuni dei quali vennero rinvenuti al tempo dei Tarquinii, cioè le steli consacrate a Juventas e Terminus sul Campidoglio, che per decreto degli Àuguri dovettero esser lasciate sul posto al momento della costruzione del tempio di Giove Ottimo Massimo. I Pelasgi invece approdarono sulle coste di Creta e dell’Egitto e da qui passarono in Grecia, portando la civiltà della Tirrenide e dirozzando i popoli con cui vennero in contatto, e si spinsero fino alle coste della Turchia e della Mezzaluna Fertile, secondo la ricostruzione del Mazzoldi.

Col passare dei secoli i Pelasgi, ridotti numericamente perché ormai dispersi in piccole comunità su di un territorio vastissimo, in parte furono assorbiti dai popoli che avevano civilizzato, in parte vennero sconfitti in guerre locali (e la storia di Platone secondo cui gli Ateniesi vinsero gli Atlantidi sarebbe una testimonianza di ciò), per cui chiesero all’oracolo di Dodona, da loro stessi fondato, cosa fare: l’oracolo dette il  responso, riportato da Lucio Manlio e trascritto da Dionigi d’Alicarnasso (Rom Ant I, 19, 3), di ritornare alla Terra Saturnia. Raggiunta l’Italia, i Pelasgi sbarcarono secondo gli autori antichi sulla costa laziale presso Ceri e da lì si addentrarono nel Reatino fino a congiungersi con i loro antichi parenti Aborigeni: l’unione delle due forze consentì di formare un esercito poderoso che ricacciò a nord i Celto-Liguri e a sud i Siculi, i quali allora occupavano il sito che sarebbe stato di Roma, sul quale invece si insediarono i Pelasgi.

Fu questo un vero e proprio Primo Risorgimento, che consentì di liberare l’Italia dagli invasori e di ricostruire una nazione italica comprendente gran parte dell’Italia centro-meridionale, abitata dai Pelasgi a sud del Tevere e dagli Etruschi a nord di esso fino alla pianura del Po. Mazzoldi riconobbe in questa ricostruzione storica di un’Italia nata dalla guerra degli Aborigeni e dei Pelasgi contro i Liguro-Iberici ed i Siculi una prefigurazione la cui prosecuzione era quel Risorgimento che ai suoi tempi (1844) prendeva vita sotto la guida della casata piemontese dei Savoia: “Un eloquente ma non mai compreso insegnamento, col quale si aprirono e si conclusero i quattro grandi periodi [della storia d’Italia],  finì di determinarli nelle prime mosse di questo quinto periodo che si è ora iniziato nella dominazione redentrice di Vittorio Emanuele II[6]. La ricostruzione delle città dopo la conquista dei Pelasgo-Aborigeni ebbe, secondo Ravioli, un particolare simbolo grafico come commemorazione delle vittorie ottenute sugli invasori che avevano usurpato il loro territorio: una divinità femminile armata di lancia e scudo in piedi tra due colonne sormontate da galli o da altri animali, disegno che venne adottato come emblema nei loro libri sia da Ravioli che da Ciro Nispi-Landi, il prosecutore della sua opera; questo dipinto si trovava sui vasi cosi detti Panatenaici ritrovati in Italia (v. fig.4), i quali però non commemoravano, a detta di Ravioli, le note feste in onore di Atena ma la redenzione da parte dei Pelasgo-Aborigeni delle città cadute in mano agli invasori.

 

mitoitalico4.jpg (99130 byte)

Fig. 4 (cliccare per ingrandire l'immagine)

Ai Pelasgo-Aborigeni si unì in seguito un altro popolo, che sarebbe giunto in Italia dall’ovest provenendo dalla Spagna e che contribuì alla cacciata dei Liguro-Iberici: secondo Ravioli questo popolo, formato da Argei e da Epei, sarebbe stato guidato da Ercole di Argo (questi autori distinguono un Ercole italico da un più tardo Heracles greco, al quale vanno attribuite le Dodici Fatiche) ed era composto anch’esso da italici, quindi parenti dei Pelasgo–Aborigeni, ma sottomessi in passato dai Celto-Liguri e deportati in Iberia. Il mito dei “buoi di Gerione” nasconderebbe questa vicenda, poiché i “buoi” altri non sarebbero che i “vitloi”, nome di un’antica popolazione stanziata nell’attuale Calabria ed eponima dell’antico nome d’Italia come “la terra dei vituli, dei buoi”. Il Foro Boario di Roma con la sua statua di un possente toro sarebbe stata la commemorazione del riscatto di Roma da parte di Ercole. La sconfitta del re siculo Caco e l’uccisione di questi per mano di Ercole si situava al tempo della Terza Roma, la Pallantea di Evandro, ed Ercole in tal modo restituì pienamente il territorio di Roma ai Pelasgo-Aborigeni, tanto da venire da essi divinizzato (secondo le visioni evemeristiche del Ravioli e poi di Guido Di Nardo ne La Roma preistorica sul Palatino del 1934). Dopo Evandro iniziò la serie dei Re divini del Lazio, Pico, Fauno e Latino, al cui tempo giunse in Italia Enea, per proseguire con la dinastia dei Silvii, discendenti di Enea, fino a Numitore re di Alba Longa: giungiamo così al periodo storico che conosciamo, nel quale inizia la storia della Quarta Roma, la Roma di Romolo, erede ultima della civiltà e della sapienza della Tirrenide.

Questa, molto in breve, la storia dell’epopea della Terra di Saturno: il primato della civiltà italica sulle altre nazioni costituì uno stimolo importante per coloro che combattevano nelle guerre risorgimentali e soprattutto l’opera di Mazzoldi ebbe grande eco nella cultura del suo tempo, tanto da giungere addirittura ad ispirare opere di argomento molto diverso, quale l’imponente Storia della Medicina italiana di Salvatore De Renzi (pubblicata tra il 1845 ed il 1848 a Napoli in cinque tomi), fino ad influenzare autori come Nispi-Landi (Roma monumentale dinanzi all’umanità – Il Settimonzio sacro, 1892), Di Nardo (La Roma preistorica sul Palatino, 1934) e Leonardi (Le origini dell’uomo, 1937), anche se in questi ultimi due le tesi del sempre più diffuso occultismo di marca teosofica cominciarono a mutare il significato iniziale del tema della Terra di Saturno.

In ogni caso, non si può dimenticare proprio in questo 150° anniversario dell’Unità d’Italia questa falange di autori, i quali con le loro appassionanti opere, l’una concatenata all’altra e permeate da influenze sottili della cui origine non sempre possiamo dare contezza, rimangono una delle pietre miliari della storia letteraria e civile d’Italia.


Note:

[1] Per le opere di Annio da Viterbo (1432 – 1502) sulla “Prisca Teologia” si veda come introduzione l’articolo di WALTER STEPHENS Gli Etruschi e la Prisca Teologia in Annio da Viterbo, in “Biblioteca e società” dicembre 1982.

[2] Altri autori considerano “Camese” nome femminile e identificano il personaggio con la sorella o sposa di Giano, la quale avrebbe regnato insieme a lui sul Lazio.

[3] MARIO POLIA Imperium, Rimini 2001 pag. 203.

[4] Si ricordi che gli autori latini e greci certamente non disponevano delle conoscenze della moderna scienza geologica e ci lascia meravigliati il modo in cui un evento realizzatosi migliaia di anni prima della comparsa della scrittura sia giunto fino a loro grazie alla trasmissione orale.

[5] Il Principe di San Severo aveva riportato nella Lettera apologetica (a cura di L. Spruit, Napoli 2002, pagg. 56-58 dell’edizione originale) una citazione da Giuseppe Flavio in cui si parlava di “due rovine, una cagionata dal fuoco e l’altra dalle acque” (Ant Giud I, 4) che secondo una profezia di Adamo avrebbero distrutto il mondo: si tratta proprio dei due cataclismi che colpirono l’antica Tirrenide.

[6] ANGELO MAZZOLDI Prolegomeni alla storia d’Italia, Milano 1862 pag. 16.

 

(Autore: Paolo Galiano)

 

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