Il sito di Lavinium e la Demogorgone
(di P.Galiano)
Come
il mito della fondazione di Roma nell’VIII sec. ha trovato puntuale conferma
con le recenti scoperte sul Palatino e sul Campidoglio, così anche il mito
di Enea e del ritorno della stirpe troiana in Italia sono stati confermati
da una serie di ritrovamenti archeologici nella zona di Torvaianica –
Pratica di Mare.
Abbiamo detto “ritorno”,
perché secondo gli antichi autori gli Aborigeni, denominati così da ab
origine in quanto popolazione originaria dell’Italia, in parte erano
fuggiti verso l’Egitto e poi la Grecia in tempi antichissimi a causa di quel
“cataclisma italico” che Nispi Landi pone tra il 1900 e il 1925 a.C. ”allorquando
l’Italia aveva la forma della folia quernus di Plinio, Solino e
Mela” (Storia dell’antichissima città di Sutri, Roma 1887 pag.
69), popoli che fecero ritorno in Italia come Pelasgi e Tirreni in più
ondate, ”figli di coloro i quali dalla penisola italica emigrati ebbero
nome di Pelasgi, o vaganti o sfuggiti alle inondazioni, ai sommovimenti
vulcanici e alle piogge diluviali” che avevano provocato
l’inabissamento della regione tirrenica e il distacco della Trinacria dalla
penisola (pagg. 76-77) .
Di questi spostamenti di
popoli già aveva parlato prima di lui Mazzoldi affermando che “allorché
si parla di trasmutamenti di popoli dall’un paese all’altro oltre mare,
parlasi necessariamente di terribili sovvertimenti terrestri, perché
soltanto per questi i popoli si riducono ad abbandonare le proprie terre… In
antico uno spaventoso sovvertimento aveva posta sossopra tutta l’Italia;
staccate dalla Calabria la Sicilia, e l’isole Eolie e subissato tutto il
paese intermedio” (Delle origini italiche, Milano 1840 pagg.
124-125).
Causa
di questa catastrofe fu il Vulcano Laziale, attuale Monte Albano, e la
catena di vulcani di cui questo è parte lungo una faglia che dall’Etruria
giunge a Napoli e oltre, fino a Vulcano, Stromboli e all’Etna, come diremo
più avanti (ne avevamo già accennato nell’articolo sui Teschi Cabirici in
questo sito).
Confermano questo
“cataclisma italico” i dati scientifici, secondo cui nel periodo dell’ultima
glaciazione, che si completò in corrispondenza della cessazione di attività
del Vulcano Albano intorno a 18.000 – 20.000 anni fa, la profondità del
Tirreno era di circa 120 metri inferiore a quella attuale (Quaderni di
Pomezia n° 3 pag. 14), per cui molto più ampia di oggi doveva essere la
piana laziale. Ciò che non sappiamo è la velocità con cui si effettuò un
tale abbassamento del fondo marino, se gradualmente o bruscamente.
Vediamo quale sia la
testimonianza giunta a noi del ritorno di Enea sul suolo della patria
originaria, come gli era stato vaticinato dalla Sibilla: a nord di
Torvaianica, a circa quattro chilometri dall’attuale linea del mare, ma un
tempo molto più vicina ad esso, sorge la città di Lavinium, il cui sito è
stato scavato a partire dagli anni ’50, e gli scavi sono tutt’ora in corso,
ma era stato supposto fin dal 1500 quando Pirro Ligorio lo identificò con
l’attuale Borgo di Pratica di Mare, nel quale è oggi poi riconosciuta
l’acropoli della città.
Secondo il mito trasmesso da
Dionigi d’Alicarnasso e da altri autori fu qui che Enea approdò, presso la
foce del fiume Numico (ora solo un ruscello con il nome di Fosso di
Pratica), mentre Virgilio nell’Eneide riferisce l’approdo del condottiero
troiano più a nord, proprio alla foce del Tevere.
La
corretta interpretazione di Pirro Logorio (il grande architetto
cinquecentesco riscopritore di parte dei tesori di Villa Adriana) ha
consentito, ai nostri giorni, di riportare alla luce un grande santuario,
che si ritiene costituisse il centro religioso della Lega Latina, risalente
nelle sue forme attuali ad un periodo compreso tra il VII ed il IV o III
sec. a.C., avente come centro di culto la tomba di un Re le cui
suppellettili in ferro datano al VII sec. a.C., connesso a due importanti
aree sacre: l’una posta presso la costa dove si ergeva un tempio dedicato a
Sol Indiges, dal quale si partiva una strada che passando accanto al
Sacrario o Heroon attribuito ad Enea giungeva a Lavinium e di lì proseguiva
fino ai Colli Albani, l’altra, sempre lungo questo asse viario, costituita
dal cosiddetto “Santuario meridionale delle XIII are”.
L’Heroon
di Enea (FIG. 1) presenta almeno due fasi di
costruzione: la prima più antica (VII sec.) è la tomba vera e propria,
disposta secondo un asse nordest-sudovest, la quale conteneva solo alcuni
resti ossei (il che fa pensare che nella ricognizione effettuata nel VI sec.
parte dello scheletro fosse stato portato altrove) con un ricco corredo
funebre, tra l’altro comprendente i resti di una biga, armi di ferro e
stoviglie per il banchetto, tutti elementi che denotano la tomba di un
personaggio illustre. Il particolare più interessante è però la pietra
circolare posta in corrispondenza del capo (FIG. 2): questa
pietra ha fatto pensare ad un rituale di sepoltura esplicitamente connesso
con un rito solare, e ciò sarebbe confermato dal collegamento viario con il
tempio di Sol Indiges.
Nel IV sec. la tomba viene
affiancata da una piccola costruzione, costituita da una camera chiusa da
una falsa porta in tufo che incide in parte all’interno della tomba ed uno
spiazzo aperto antistante pavimentato per le offerte, il tutto ricoperto
forse da una volta e poi da un grande tumulo di terra (FIG. 3).
Che
la zona litoranea sia stata frequentata fin dal tempo dell’Età del Bronzo,
età a cui si fa risalire la caduta di Troia e l’arrivo di Enea in Italia, e
ancora prima è testimoniato dalla recente scoperta nel maggio 2009 di un
sepolcro del III millennio sulla battigia (segno del progressivo
arretramento della costa laziale) nella zona di Torre Astura, cioè solo
quaranta chilometri a sud di Lavinium,: si tratta di una sepoltura dell’Eneolitico
scavata nell’argilla in cui era deposto un guerriero con pugnale e frecce in
selce e un piccolo corredo di vasi.
Ad occidente dell’Heroon si
situa il Santuario delle XIII are (FIG. 4):
un grande complesso scoperto dove si innalzano tredici altari in tufo
rivolti ad est (a nordovest rispetto a questi è stata identificata la base
di un quattordicesimo altare con orientamento forse verso nord), disposti
secondo un arco che sembra costituire un progressivo riallineamento delle
are con il punto esatto del sorgere del sole.
Gli
altari sono di forma greca (a “C”) ma hanno un piano rialzato di tipo
laziale e non greco: alcuni isolati, altri riuniti su di una stessa
piattaforma, la loro costruzione non segue un andamento progressivo da nord
a sud ma risultano costruiti in modo disordinato e in epoche diverse
comprese fra il VI e il IV sec. (FIG. 5), il più antico di
essi è del VI sec. ed è quello che sorge al limite nord della fila, il
numero 13 (FIG. 6) secondo la numerazione degli archeologi
(che è soltanto di comodo ma non rispecchia le fasi costruttive del
complesso), quasi perfettamente in linea d’aria con l’Heroon distante circa
un centinaio di metri.
Mentre tutti gli altari sono
in buone condizioni, anche se abbandonati come tutta l’area nel IV - III
sec., cioè in coincidenza con l’assorbimento della Lega Latina da parte di
Roma, si segnala la voluta distruzione di uno di essi, il numero 3, quasi
una damnatio memoriae per chi l’aveva fatto costruire (o forse per
la città della Lega dal quale esso era stato dedicato).
Il
Santuario di Sol Indiges, posto alla foce del Numico –
Fosso di Pratica e la cui scoperta risale al 1966-1967 (FIG. 7),
è di epoca tarda rispetto all’Heroon (circa IV sec.) ma, ciò che è più
importante, accanto ad esso sono stati ritrovati i due altari, con chiara
disposizione solare essendo rivolti l’uno ad oriente e l’altro ad occidente,
su cui secondo Dionigi di Alicarnasso Enea, appena sbarcato, fece i suoi
sacrifici di ringraziamento, altari che sono stati datati proprio all’Età
del Bronzo, cioè coincidenti con il tempo della venuta di Enea sul suolo
italico.
Accanto al culto di Enea -
Sol Indiges Lavinium aveva un altro culto non meno importante: quello di
Minerva, la Dèa protettrice di Troia e di Enea, la quale
aveva un tempio subito fuori delle mura ad est della città, del quale sono
stati trovati i resti del podio ma soprattutto una ricca favissa,
la fossa nella quale venivano deposti i materiali sacri che non potevano
essere distrutti, quali gli ex voto e in particolare le statue delle
divinità, tra cui due splendide statue della Dèa.
L’una (FIG. 8)
è giustamente considerata una riproduzione in terracotta del Palladium
portato da Enea (o come vuole una variante, restituito ad Enea da Diomede,
il quale insieme ad Ulisse lo aveva rubato a Troia per togliere alla città
la protezione di Minerva): la rigidità della statua, la semplicità della
decorazione e l’aspetto quasi cilindrico della statua suggeriscono l’idea
che essa non sia altro che la trasposizione in creta di un antico simulacro
in legno ottenuto da un tronco d’albero appena sbozzato (assai diverso da
quello d’epoca imperiale ritrovato a Sperlonga).
La
seconda, sempre in terracotta ma alta circa due metri (FIG. 9),
raffigura una insolita variante della divinità: si tratta della cosiddetta
Minerva Tritonia, perché, caso unico nella statuaria (forse un frammento di
esemplare simile sarebbe stato ritrovato nella Magna Grecia) la Dèa, armata
di una corta lancia simile al pilum italico e romano, è coperta di
serpenti che circondano anche lo scudo ed è affiancata da un piccolo
tritone: l’accostamento insolito di Minerva con un simbolo di acqua qual è
il tritone (divinità collegata in genere a Nettuno il Signore delle acque
avversario di Minerva come dimostra proprio la storia troiana) potrebbe far
pensare ad un voler sottolineare il rapporto tra Minerva e il viaggio per
mare dell’eroe da lei protetto, il quale sbarcato in questa località volle
erigere, per i presagi ricevuti, la città di Lavinium.
La corazza di Minerva sia
nella prima che nella seconda statua è ornata dalla testa di Medusa, la
figlia di Forcio, divinità marina, sconfitta da Perseo, il quale donò alla
Dèa che lo aveva protetto nell’impresa la testa mozzata della Gorgone.
Secondo il mito Medusa
(“l’astuta”), come le sue due sorelle Stino (“la forte”) e Euriale (“la
ampio vagante”), figlie di divinità marine, era una fanciulla bellissima che
aveva avuto rapporti carnali con Poseidone in un tempio di Atena, per cui la
Dèa la punì dandole un volto mostruoso ed anguicrinito che impietrava
chiunque la vedesse. Ma nel Lazio come presso gli Etruschi la Gorgone ha un
significato più complesso, che si rivela non solo dall’utilizzo in
architettura e in pittura della testa di Medusa a scopo apotropaico (spesso
ha la funzione di antefissa nei tetti delle costruzioni etrusche), ma
soprattutto nel carattere infero e vulcanico attribuito a questa divinità.
Il Lazio è stato in tempi
antichissimi una delle zone vulcaniche di maggiore attività in Italia e il
Vulcano Laziale, attuale Monte Albano, con la sua immensa caldera posta alla
fine di una vera e propria “linea di fuoco” che passa per Bolsena, Vico e
Bracciano per giungere ai Colli Albani, è rimasto in attività almeno fino a
25.000 – 30.000 anni fa, per cui delle sue eruzioni fu testimone anche
l'uomo, almeno nella fase dell’Aurignaciano (Paleolitico superiore), come
testimoniano le ricerche al C14.
La formidabile potenza
eruttiva del Vulcano Laziale ha fatto sì che le sue lave giungessero a
decine di chilometri di distanza: ad esempio proprio Lavinium si trova su di
un banco tufaceo proveniente da esso, così come dalla parte opposta (e cioè
poco dopo l’inizio della Via Appia) è stato ritrovato il fronte “nord” della
colata lavica, proprio nel terreno sottostante la cosiddetta tomba di
Cecilia Metella. Sulla cima dell’attuale Monte Cavo (caratterizzato da una
infinità di grotte tufacee di enormi dimensioni e da gallerie che affondano
per chilometri nella profondità della terra) esistono ancora, soffocati
dalle antenne e dai ripetitori TV, i residui del tempio di Giove Laziale,
dove le popolazioni della Lega Latina confluivano annualmente per una prisca
liturgia, che precedeva sicuramente quella di epoca Tarquinia di Giove
Capitolino.
Gli
uomini che vi assisterono tramandarono alle generazioni posteriori il
racconto degli avvenimenti distruttivi connessi alla sua attività, che
secondo alcuni autori, come si è detto all’inizio, potrebbe essere stata la
causa di uno slittamento verso il basso di tutta la costa tirrenica seguita
da un lento e graduale rinnalzamento che è tutt’ora in corso.
Il ricordo della mostruosa
potenza del Vulcano Laziale venne coagulato in un’immagine che dai tempi più
antichi ricorre nell’iconografia tusco-laziale, proprio il volto della
Gorgone, i cui capelli serpentini sono le colate laviche che discendono dal
monte e la lingua esposta fuori della chiostra dentaria la fiamma
dell’esplosione eruttiva, come si può vedere in un’immagine coeva al
Santuario di Lavinium (FIG. 10), ad imitare il vomito della
terra. Il Vulcano Laziale nella sua totalità venne raffigurato come
un’immensa Gorgone i cui occhi sono i due laghi di Nemi e di Albano e i
capelli i fiumi di lava che scendono dai Castelli Romani verso Roma: Guido
Di nardo nel suo disegno la chiamò “Il Drago muggente”, la Demogorgone
infernale che solo il potere degli antichi Dèi può controllare e rendere
inoffensiva (FIG. 11).
La Gorgone non è solo la
raffigurazione mostruosa ricordo dell’attività del Vulcano Albano ma ha
anche un altro significato interessante: essa è figura del Sole, però nel
suo aspetto negativo e distruttivo, e sotto questo aspetto trova forse il
suo corrispondente dall’altra parte dell’Atlantico, nella cultura Azteca,
secondo la quale il mondo è stato distrutto per quattro volte da cataclismi
universali ed è iniziata una quinta era nella quale la fine del mondo sarà
causata dal potere distruttivo del Sole. La sua raffigurazione nella “Piedra
del Sol”, recuperata sotto la pavimentazione della Plaza Mayor di Città del
Messico (FIG. 12), presenta aspetto analogo alla Gorgone
italica, viso mostruoso con la lingua pendente di fuori, simbolo per gli
aztechi del coltello sacrificale col quale si estraeva il cuore della
vittima per offrirlo agli Dèi onde acquietarli e posporre il più possibile
l’ultima distruzione.
Teniamo presente che altre
raffigurazioni inquietanti della “lingua” come mezzo “eruttivo” di
distruzione (ma anche di ripristino della giustizia divina) li troviamo in
altre tradizioni assai più tarde, come quella cristiana, dove, il giudice
apocalittico con gli occhi fiammeggianti ed in mezzo ad un ruggito di tuono,
estrae dalla bocca una lingua a forma di spada.
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