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L'ENIGMA DEL LABIRINTO DI ALATRI (FR)

(di Giancarlo Pavat)

Premessa

Risalgo la montagna in un silenzio ultraterreno. Gli unici suoni sono soltanto quelli del vento tra le rocce e del mio respiro. Il battito è accelerato, ma molto probabilmente non è dovuto alla fatica delle ore di camminata, ma per l'emozione di trovarsi in un sito magico. Un luogo in cui uomini, dei quali ignoriamo quasi tutto, di cui non conosciamo la voce, i volti, le usanze, sono riusciti comunque a lasciare una traccia, a tramandare il proprio ricordo. Almeno una flebile scintilla dei loro pensieri, dei sentimenti, delle emozioni è giunta sino a noi, eternata nelle rocce delle montagne.
Mi fermo. Una vertigine mi coglie, sprofondo nella consapevolezza di trovarmi davanti a qualcosa che ha a che fare con la parte più profonda, più oscura degli Esseri senzienti. Da sopra un gigantesco masso mi osserva, dopo aver attraversato gli oceani del Tempo, un simbolo antico come l'Uomo stesso.

Le linee si attorcigliano su se stesse, con andamento regolare, sinuoso. Sembrano i meandri di un grande  fiume oppure le spire di un serpente o, ancora, la rappresentazione del cervello umano.
Qualunque sia stato il significato attribuito a quel disegno dagli antichi abitatori della Val Camonica, e che ebbi modo di vedere nel 1996, qualunque concetto, qualunque aspirazione, speranza, atto di fede, abbia presieduto alla realizzazione di quell'incisione, rimane un dato inconfutabile. Quell'enigmatico intreccio di solchi, righe, a volte irregolare, altre perfettamente geometrico, è rintracciabile in tantissime culture e civiltà, anche lontanissime tra loro, nel Tempo e nello Spazio. Dal Paleolitico Superiore in poi.

In Val Camonica, tra le decine di iscrizioni che ci raccontano mondi e vicende di genti che dormono, ormai, un sonno di innumerevoli eoni, oppure nei deserti della Siria. Da monumenti megalitici della Francia a quelli della Sardegna. Dalla Cina all'India. Nell'America Precolombiana, dal Perù all'Arizona, nelle Isole Britanniche e sotto la lava del Vesuvio a Pompei.
Il Faraone Egizio Amenemhat II, attorno al 1797 a.C. ne fece costruire uno presso il Lago Meride. Secoli dopo meravigliava ancora insigni viaggiatori dell’antichità come Plinio e Strabone. I Signori Rinascimentali ne realizzarono alcuni, spesso vegetali per abbellire le proprie sontuose dimore e stupire gli ospiti. E' il Labirinto. Sogno ed incubo, archetipo e matrice, della memoria ancestrale dell'Umanità.

Il labirinto della roccia n. 1 (Naquane, Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri, Val Camonica, BS. Foto di M. Uberti)

Il Labirinto di Cnosso

La parola evoca le gesta degli Eroi, un' Epoca in cui tutti gli uomini erano Achille o Ulisse e le donne Elena o Penelope. L'epoca in cui l'Umanità per esorcizzare i propri fantasmi, le proprie paure, le rivestivano delle sontuose vesti dei Miti. Quello di Teseo, di Minosse, di Dedalo e del Labirinto. Termini, questi ultimi due, che oggi pronunciamo come sinonimi, ma che in realtà indicavano la prima, il geniale artefice e la seconda la sua opera più famigerata e famosa.
Un' epoca in cui gli dei camminavano fianco a fianco con gli uomini e con i quali condividevano sentimenti e pulsioni. Libidine, amore, rabbia, desiderio, vendetta.

Il vigoroso dio degli oceani, Poseidone, al momento della spartizione dell'Universo aveva ricevuto tutti i mari e le isole che li costellavano. Tra cui la più bella, la più fortunata. Creta. E la ricoprì di favori e ricchezze. Vi regnava un re saggio e giusto, Minosse. Faro degli uomini, vanto degli dei, con cui Poseidone fu prodigo di amicizia e doni. Tra cui uno splendido, possente, toro bianco. Ma se con una mano gli dei concedono, con l'altra levano. Il lucente animale, dono ben degno di sovrani che dominavano incontrastati i mari ed innalzavano effigi a forma di corna lunate, divenne il tormento e l'incubo. La più crudele e sconvolgente delle nemesi. Pasifae, la Regina, moglie di Minosse, fu colta da insani desideri. E chiamò al suo cospetto il sagace architetto Dedalo.La richiesta era blasfema, da scatenare le Erinni per l'Eternità. Ma l'Uomo, da sempre apprendista stregone, da sempre attirato a cimentarsi con forze, situazioni, più grandi di lui, accettò la sfida, scatenando - e non sarebbe stata certamente l'ultima volta - l'Inferno sulla Terra. Creò un simulacro di giovenca mediante la quale la regina poté consumare il suo mostruoso connubio con il toro divino. Dal quale nacque un ibrido spaventoso ed insaziabilmente antropofago: il Minotauro. Il Toro di Minosse.

Dedalo fu di nuovo chiamato nella Reggia, ma stavolta al cospetto del Sovrano. Il suo compito fu quello di costruire un luogo in cui rinchiudere il mostro. Un luogo da cui non sarebbe stato possibile uscire: un Labirinto.

(riproduzione del labirinto di Cnosso, emidracma-argento, 350-200 a.C., conservata al Museo Archeologico di Bergamo. Foto di M.Uberti)

"Il primo ad utilizzare il termine “Labirinto” per indicare e descrivere un luogo “dove è facile perdere l’orientamento” fu Erodoto di Alicarnasso (484-425 a.C.). Ma non sappiamo come venisse denominato all’epoca della Civiltà Cretese. Forse non possedevano nemmeno un lemma per definirlo. Secondo Plutarco (45-125 d.C.), la parola “Labirinto” deriverebbe da “Labrys”, che nelle lingue dell’Asia Minore starebbe ad indicare la “Scure Bipenne”, rappresentazione delle corna lunate dei tori sacri e simbolo della stessa Monarchia Minoica. Secondo A.J. Evans (1851-1941), l’archeologo inglese scopritore di Cnosso e della Civiltà Cretese e autore del libro “The palace of Minos at Cnossos” del 1935, dal disegno di una scure stilizzata si può ricavare la pianta di un labirinto. Ma si tratta anche della raffigurazione dell’utero femminile. La Grande Madre, venerata in Età Arcaica in tutto il bacino mediterraneo. Quindi il Labirinto sarebbe stato il sito della Scure Bipenne ma anche della Divinità generatrice.

Oggi si tende a non dare troppo credito all’ipotesi dell’autore delle “Vite parallele”, le 46 biografie di eminenti personaggi greci e romani. I glottologi ci fanno notare, come ben sa qualunque studente di ginnasio e di liceo classico, che “scure” in greco si dice “Pelekis”, mentre a Creta si adoperava il vocabolo “Wad”. Lo studioso Michael Ventris (1922-1956) al quale si deve, assieme a John Chadwick (1920-1998), la decifrazione negli anni ’50 del XX secolo, della scrittura nota come “Lineare B” (l’altra scrittura, conosciuta come “Lineare A” è ancora indecifrata. Parimenti è un mistero quella contenuta nel celebre “Disco di Festo”, risalente al 1.600 a.C. circa, oggi conservato al Museo Archeologico di Iraklion. Legioni di eruditi, archeologi, linguisti, epigrafisti, semplici dilettanti, sognatori e deliranti paranoici, si sono cimentati nel tentativo di sbrogliare l’enigma. Ma senza alcun frutto positivo), ha individuato una parola che i Minoici adoperavano in relazione alle divinità ctonie. Il termine è trascrivibile come “Da-bu-rin-tho”" (1).

La mitologia greca narra che, ogni anno, Atene doveva inviare sull'isola sette fanciulli e sette fanciulle. Spaventoso tributo cui era sottoposta la città della dea con l'Egida, sconfitta in guerra dallo stesso Minosse. Gli sventurati venivano dati in pasto proprio al Minotauro. Solo un Eroe, un semidio, avrebbe potuto porre fine a tanto orrore. Ed il Fato decise per Teseo. Il figlio del re di Atene, sbarcato a Creta, riuscì nell'impresa di uccidere il mostro e di uscire dal labirinto grazie all'aiuto di Arianna, figlia di Minosse, e del suo celebre "Filo".

Il problema principale dei labirinti è, dunque quello, una volta entrati, di trovare la via del ritorno. Oppure riuscire a raggiungerne il centro. A seconda se siano multicursali oppure unicursali.

Labirinto e medioevo

Nelle Cattedrali Medioevali si trovano sui pavimenti delle navate enormi labirinti, (come quello di Chartres, con un diametro di circa 12 metri ed è lungo 200 metri, o quello di Amiens di forma ottagonale) considerati percorsi simbolici del pellegrinaggio in Oriente. In Italia sono celebri quello rinascimentale di San Vitale a Ravenna, quello pavimentale di Santa Maria di Trastevere a Roma, quello posizionato verticalmente all'ingresso della Cattedrale di Lucca.
Alcuni labirinti, soprattutto quelli non percorribili materialmente, come quello di Lucca, fungevano, forse, da "segnali", presso le grandi vie di comunicazione percorse nel Medio Evo da mercanti, religiosi, pellegrini, semplici viandanti. Dal percorso che conduceva a Santiago di Compostella in Galizia, alla "via Romea", alla Francigena.
I labirinti pavimentali erano i “Cammini Gerosolimitani”, percorsi simbolici del pellegrinaggio in Oriente. La via che il pellegrino percorreva per raggiungere il centro rappresentava la ricerca della Verità, della Fede, di Dio.

Per approfondire la vastissima e, visto l'argomento, complessa e tortuosa tematica dei significati allegorici, metaforici, antropologici del simbolo del labirinto, si rimanda ad altre sezioni ed articoli di questo sito.

Il labirinto di Alatri

Viene da sè che in un simile mare magnum è decisamente improbo trovare la corretta chiave di lettura, sempre che ce ne sia una soltanto, dell'incredibile opera d'arte che si trova ad Alatri, antichissima città in provincia di Frosinone famosa per le mura megalitiche.

Si tratta di un enorme affresco che occupa una parete di un cunicolo, o meglio in un intercapedine (v. foto a sinistra), presso il chiostro della chiesa di San Francesco.

Vi è raffigurato un "Cristo in Gloria" o "Benedicente", posto al centro di un enorme labirinto di dodici cerchi concentrici bianchi e neri. Il diametro del cerchio più esterno è di cm 140, mentre quello del cerchio interno misura 75 centimetri. Nel dipinto Cristo, con la mano sinistra, regge un libro di cui si distinguono alcuni dettagli, come due fibbie ed una placca, posto quasi in corrispondenza con il cuore. All'anulare della mano sinistra stessa porta un anello. Con la mano destra stringe un’altra mano che esce da un’apertura dello stesso labirinto. Il Suo volto è barbuto, con un "nimbo" che circonda la testa. Indossa una tunica scura ed un mantello dorato.
Si sa poco o nulla dell'affresco. Scoperto nel 1997, anche se pare che la sua esistenza fosse nota da tempo, va considerato come un vero e proprio unicum nella storia dell'arte. Non risulta che esistano altre raffigurazioni di un labirinto con la figura di Cristo al centro.

                     

Ad Alatri, un simbolo remoto come quello del "Labirinto", è stato unito con l'immagine del "Cristo storico". Come lo conosciamo dopo quasi duemila anni di storia dell’arte, ma iconograficamente non attestato prima del IV secolo d.C. E questo per sgombrare il campo da una delle numerose ipotesi suggerite per identificare gli artefici di una simile meraviglia. Quella della presenza di una setta cristiana del I° secolo d.C.. Il Cristianesimo delle origini, subendo ancora l’influsso della religione mosaica, che aborriva le immagini, non rappresentava mai il Salvatore con le sue sembianze umane. Bensì tramite raffigurazioni allegoriche e simboli. Ad esempio il cosiddetto “Buon Pastore", che reca sulle spalle una pecorella e simboleggia Gesù Salvatore delle anime. Più tardi Cristo apparirà come un giovane ed imberbe, per indicare il suo essere "Senza Tempo", la sua dimensione eterna e quindi Divina. Moltissimi i simboli. Come la colomba, l'orante che tra l’altro con le braccia aperte ricorda la croce del “Tau”, la “Vera Croce” del Golgota, oppure l' àncora. Per non parlare poi della prima e dell’ultima lettera dell’alfabeto greco, l’Alfa e l’Omega. Ma anche il disegno di un “pesce” (in greco pesce si dice IXTHYS, “Ichtùs”. E con queste lettere si forma un acrostico della frase “Iesùs Christòs Theòu Uiòs Sotèr”, ovvero “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”).Infine, il Monogramma di Cristo, formato dalle lettere greche Chi e Rho.

Secondo la tradizione e l'agiografia l’imperatore Costantino, nel 312 d.C., prima della decisiva battaglia di Ponte Milvio contro l’usurpatore Massenzio, sognò un angelo che recava una Croce (come mirabilmente affrescato da Piero della Francesca nella chiesa di San Francesco ad Arezzo). Secondo un' altra versione, avrebbe invece visto nel cielo un simbolo fiammeggiante, che altri non era che il Monogramma, con la celebre scritta “In hoc Signo Vinces”.
Costantino fece porre il “Monogramma”, composto appunto dalle due lettere greche, sui labari e sopra gli scudi. Ove rimase per secoli come insegna delle Armate Bizantine.
E si è voluto identificare proprio questo “Monogramma” o “Crismon” in un altro simbolo antichissimo presente sulle pareti dell’intercapedine del chiostro di San Francesco ad Alatri: il “Fiore della Vita”. Altro “signum” arcaico e misterioso. Che dai siti celtici, alle tombe etrusche, dalla Cina all’India, dai pavimenti musivi romani alle grandi cattedrali cristiane, sino ai Codici Leonardeschi, accompagna il cammino dell’Uomo. Attorno all’affresco del “Cristo nel Labirinto” compare molte volte assieme a “stelle”, “spirali” ed altre decorazioni geometriche (v. foto sotto). A confermare la profonda valenza simbolica legata alla Fede.

                  

Scartata l’ipotesi della setta eretica paleocristiana, si è fatta strada quella che attribuisce l’intero ciclo di pitture all’Ordine dei “Pauperes Commilitiones Christi Templique Salomonici”, meglio noti come “Templari”. Sorto nel secondo decennio del XII secolo ed annientato dal Re di Francia Filippo IV il Bello con la complicità del papa Clemente V nel XIV secolo.
Il prof. Gianfranco Manchìa, autore nel 2002 dell'articolo pubblicato sul numero 1 del periodico “Antichità Alatrensi”, ed all’epoca Direttore del Museo di Alatri, non scartava tale ipotesi. “Vi sono consistenti indizi che in questo settore urbano vi fosse in insediamento Templare. Una croce Templare è dipinta sulla parete della controfacciata della Chiesa di San Francesco; sulla scalinata che conduce alla chiesa sono incisi tre simboli raffiguranti la Triplice cinta Sacra. Inoltre la presenza di una fortificazione medievale circolare in corrispondenza della Portella di San Benedetto e l’attestazione di un Ospedale limitrofo all’insediamento francescano lasciano supporre un sito templare fortificato entro le mura di Alatri”.


La croce patente sulla parete della controfacciata

Le TC all'esterno della chiesa


Anch'io sono convinto che i "Cavalieri del Valcento" furono insediati nella città che tanto aveva sconvolto il Gregorovius, viaggiatore ed erudito ottocentesco tedesco (2).
Esistono altri indizi, oltre a quelli proposti dal Manchìa. Ad esempio, sulla controfacciata della chiesa di San Silvestro (risalente al X secolo), una mano ignota ha realizzato alcune croci molto particolari ed interessanti. La prima (per chi guarda da destra verso sinistra) spunta da sotto un intonaco successivo (anch’esso ricoperto da dipinti databili al XIV secolo) e si tratta di una croce trilobata (o trifogliata) rossa. La seconda è una piccola croce patente di colore scuro, appesa al collo di una figura femminile orante. Probabilmente la Madonna oppure la Maddalena.
L’ultima, forse la più intrigante, è una croce patente, sempre di colore rosso, dipinta sopra la barba di un volto virile aureolato. E’ evidente che la croce è stata pennellata in un momento successivo, tanto che, quasi fossero in filigrana, sotto il colore rosso si vedono chiaramente i peli della barba del personaggio. Certamente un santo, ma quale? Forse San Bernardo di Chiaravalle, il grande “sponsor” dei Templari? Oppure San Giovanni battista, Patrono dell’Ordine?

Proprio le “Triplici Cinte” sui gradini della chiesa intitolata al poverello d'Assisi, potrebbero essere il sottilissimo filo che unisce l’Ordine Templare, che le utilizzarono, all’affresco in argomento.
Lo scrivente concorda con vari studiosi nel ritenere che l’archetipo della “Triplice Cinta” sia proprio il simbolo del “Labirinto”.
Così come al centro della Triplice Cinta, scolpita sopra un basolo del pavimento della chiesa di Sant'Antonio Abate a Priverno (LT), appartenuta all'Ordine degli Antoniani, c'è una Croce. E, parimenti, al centro di un altro petroglifo simile, sul sagrato di Santa Maria della Libera ad Aquinum, in Ciociaria, qualcuno, non si sa quando, incise la figura dell'otto rovesciato (3), che noi oggi interpretiamo come rappresentazione dell’Infinito e che comunque va collegato ai significati allegorici dei “nodi”; e al centro del triplice ordine di mura del Tempio di Salomone a Gerusalemme, nel Sancta Sanctorum, era custodita l’
Arca dell’Alleanza; così al centro del Labirinto di Alatri, giganteggia Cristo. La cui centralità, nel sinuoso simbolo, risulta coerente con la metafora del difficile e complicato cammino dell’Uomo alla ricerca della Salvezza, e, quindi, di Dio stesso.

Ovviamente si tratta di supposizioni, ipotesi. Certamente plausibili, ma sempre e comunque ipotesi. Ed a mano a mano che si continua la ricerca , che si cerca di scandagliare questo enigma, sorgono altre domande, altri quesiti.
Se la funzione sacra, spirituale, forse anche esoterica, dell’opera d’arte appare incontestabile, restano nell’ombra gli artefici e persino la reale natura del sito in cui si trova. Quello che oggi potrebbe sembrare un cunicolo, un intercapedine, in realtà in passato non lo era di certo.
Forse sala di un edificio mondano adibita a luogo di culto, oppure la navata di una chiesa o cos’altro?

L'affresco del Labirinto di Alatri tace. Continua ad osservarci, muto, dagli abissi dell'Eternità, custode geloso dei propri segreti.
Non sappiamo se un giorno si riusciranno a sciogliere tutti i suoi enigmi. Se il velo che cela ai nostri occhi le sue recondite Verità, sarà dissolto.
Al momento continua a turbarci ed a inquietarci. Per la sua unicità e per il fatto di unire simboli così particolari e profondi della memoria collettiva del genere umano. Per essere una metafora stessa della nostra esistenza.


Note:

(1) "Valcento" Seconda edizione aggiornata, di G. Pavat – Edizioni Belvedere 2009.
(2) Ferdinand Gregorovius (1821-1891), storico tedesco, autore della monumentale “Storia di Roma nel Medio Evo”. Quando nel 1858, visitò Alatri e si trovò davanti alla cinta poligonale della "Civita", così si espresse “Allorquando mi trovai dinanzi a quella nera costruzione titanica, conservata in ottimo stato, quasi non contasse secoli e secoli, ma soltanto anni, provai una ammirazione per la forza umana assai maggiore di quella che mi aveva ispirata la vista del Colosseo. Se si dovesse stabilire una proporzione esatta fra la forza degli uomini e le dimensioni delle loro opere, si dovrebbe supporre essere stati i giganti coloro che costruirono quelle mura o che le assaltarono con nemico furore, ma queste costruzioni appartengono al periodo delle opere colossali. Con le quali si iniziò la civiltà umana presso tutti i popoli ed in tutte le parti del mondo”.
(3) Questo simbolo venne utilizzato per la prima volta dal matematico inglese John Wallis (1616-1703) nel “Tractatus de sectionibus conicis”.


NOTA DELL'AUTORE

Ho avuto il privilegio di vedere diverse volte l'affresco con il Cristo al centro del Labirinto. E per queste opportunità non posso che essere grato, in primis al sindaco di Alatri, dott. Costantino Magliocca.
La prima occasione in cui ebbi la ventura di entrare in quel cunicolo (o intercapedine, che dir si voglia) fu nella primavera del 2007, grazie all'allora assessore alla cultura avv. Remo Costantini, quando la prima edizione di "Valcento. Gli Ordini monastico-cavallereschi nel Lazio meridionale", stava per andare in stampa.
Ero assieme a mia moglie Sonia, al professor Biddittu ed alla dottoressa Alessandra Leo, storica dell’Arte. Guidati dalla cortesia e competenza dell’architetto Cestra.
Sebbene sia stato parecchie volte in luoghi incredibili ed affascinanti, rimasi particolarmente colpito e, non sembri retorica, sconvolto, dal dipinto. D'altronde non capita certamente tutti i giorni di trovarsi davanti ad una simile realizzazione del genio umano, ammantata di mistero, vista sino ad oggi da pochissime persone. Chiamai subito l'editore e bloccai tutto. Proprio per avere tempo per buttare giù un capitolo, che parlasse del manufatto, ed inserirlo nel mio libro. Ne uscì l'ampio "box" dal titolo "Il Cristo nel labirinto di Alatri" che ha suscitato interesse, stupore ed anche polemiche.
Successivamente sono ritornato nel chiostro anche assieme al dottor Antonio Agostini, dirigente comunale e direttore della Biblioteca Civica.
Che io sappia (e se qualche navigatore e fruitore di questo sito avesse informazioni diverse, sarei davvero grato se me lo segnalasse), a parte la pubblicazione “Antichità Alatrensi”, il primo libro a parlarne è stato proprio "Valcento". In seguito sono usciti un articolo per la prestigiosa rivista mensile ufficiale del Corpo della Guardia di Finanza "il Finanziere" del novembre 2007; ed una monografia sull'argomento per "Le Foglie", periodico dei Laboratori di educazione Ambientale che fa capo all'Assessorato dell'Ambiente e Pianificazione Territoriale della Provincia di Frosinone. Tutti e due i lavori a mia firma ed in entrambi i casi hanno fatto, come si suol dire, "rumore".
Anche questo breve articolo vuole andare in questa direzione, non per voler fare scoop o sensazionalismi a buon mercato, ma al fine di tenere alto l'interesse su quel sito. Ad incentivare, spronare altri ricercatori, storici dell'arte, docenti, archeologi, a dare vita oppure a proseguirne studi e ricerche.
In modo tale che possa essere messa in sicurezza e preservata, prima che scompaia per sempre. Nell'auspicio che quel cunicolo possa essere aperto al pubblico, per permettere a tutti di godere di una simile meraviglia della mente, dei sentimenti e della fede dell'Uomo (Autore: Giancarlo Pavat; tutte le immagini sono dell'autore del testo, salvo dove diversamente indicato).



                                      
 

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