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Con
le sue 150 anime appena, Bidonì non è certo uno dei paesi più grandi
della regione storica del Barigadu, né tantomeno della provincia
oristanese. Per dirla tutta, è anzi uno dei comuni più piccoli di tutta
la Sardegna. Ci si arriva dopo essersi lasciati alle spalle alberi di
sughero, querce e tanta macchia mediterranea, superando un ponte sul fiume
Tirso ed una serie di tornanti non propriamente notevoli che,
gradualmente, conducono la strada fino a 260 metri di altitudine sul
livello del mare. Dopo aver imboccato la strada provinciale che da
Ghilarza porta a Tadasuni e, di qui, a Sorradile ed infine nel Mandrolisai,
si riesce a scorgere un riflesso d’acqua. E’ il lago Omodeo,
artificialmente nato dallo sbarramento delle acque del Tirso ed inaugurato
nel 1924 alla presenza di Sua Maestà Re Vittorio Emanuele III quale lago
artificiale più grande d’Europa grazie ai suoi 403milioni di metri cubi
d'acqua di capacità complessiva. Adagiato sulla sponda meridionale
dell’Omodeo riposa Bidonì. Un paesino con un paio di chiese (la prima
delle quali appartiene all’unica parrocchia, S.Giovanni Battista, mentre
l’altra sorge a ridosso del camposanto), ed un novenario campestre
edificato nel lontano 1632.
Uno scorcio di Bidoni, in prov, di Oristano, in
Sardegna
Di
recente, sulla sommità del limitrofo colle periferico di Onnariu sono
stati rivenuti i resti di un tempio dedicato a Giove, da subito aggiuntosi
alle attrattive archeologiche più canoniche dell’area, alcune domos de janas sparse tra
le colline ed un nuraghe detto di Bentosu. Completano il quadro uno studio
medico, una biblioteca, e perfino un sito web che ricorda l’esatta
posizione – o probabilmente l’esistenza stessa - del paese a chi
ancora non abbia avuto la ventura di visitarlo o di imbattervisi. Se si
escludono alcune volenterose attività sociali e sportive (per lo più
messe in piedi dalla locale parrocchia), una sagra annuale ed un paio di
celebrazioni religiose, il tempo libero della popolazione se ne va tra le
soste in piazza e quelle presso l’immancabile bar centrale. Si
affacciano sempre più raramente ormai, i bidonesi, in via Monte 9,
all’ingresso ristrutturato di quello che una volta era il municipio del
paese. A distanza di un anno appena, non provoca loro più così tanta
curiosità il convivere con S’Omo
‘e sa Majarza. La Casa della Maliarda, della strega, in vernacolo
oristanese. Non
poteva esistere titolo più azzeccato per un’esposizione permanente
dedicata alla stregoneria, al diavolo e perfino agli innumerevoli esseri
fantastici e fate che tante case - o domos
- sembrano aver abitato nell’isola. Impressionanti riproduzioni di
xilografie a tinte forti, realizzate tra il 1300 ed il 1500 ed impiegate
qui per adornare le pareti, gli originali di molte delle quali ornano le
pagine dell’arcinoto Malleus
Maleficarum che tanto materiale donò agli scrupoli degli inquisitori.
Racconti ed illustrazioni legati alle divinità infere di epoca romana.
Una xilografia dal Malleus Maleficarum (fonte:
neptun8.ru)
Teche
contenenti amuleti di popolana memoria. Materiale da contus
de foxili, racconti di focolare sulle favolose
janas, sui folletti, sui diavoli e le streghe delle notti più
selvagge di Sardegna. Visto tutto questo, si arriva presto al culmine del
museo. Che non è sa Filonzana,
la donna vestita di nero che, in un angolo, reca saldo tra le mani il fuso
del destino alla stregua di una Moira greca o di una Norna bretone. Il
pezzo forte di tutta l’esposizione è un latro. L’antro di una
fattucchiera, per la precisione. Una ricostruzione, non orfana tra
l’altro di una certa oculatezza di dettagli, riferita ad una storia
esemplare. Una storia vera. La storia, soprattutto, di una strega. Julia
Casu Masia Porcu, assurta agli onori delle cronache semplicemente come
Julia Carta. 35enne, nata in un paese di pastori del sassarese, Mores.
Forse la coga, la megera più
famosa di Sardegna. Un personaggio liminare, a metà strada tra la
demonizzazione di cui è stata oggetto secoli fa ed una non trascurabile
rivalutazione postuma, compiuta in epoca più recente da storici e
studiosi di folklore locale. E’ da lei che prende il nome il museo. La
Casa della Strega, insomma, è la sua.
Se ci si allontana da Bidonì e si
inizia a risalire l’isola, dopo un’ora e 15 minuti circa di automobile
si raggiunge la provincia di Sassari. In 90 chilometri esatti si arriva
nelle colline del Meilogu, tra rilievi di origine vulcanica come la mesa
del Monte Santu o il Monte Ruju. Qui sorge Siligo. Non è un percorso
troppo lungo. Ma il tragitto è bastevole per dare una forma ed un
contesto concreto alle pur suggestive ma evanescenti ricostruzioni
leggendarie contenute nel Museo delle streghe perduto nell’oristanese.
Siligo ha poco meno di 1000 abitanti, ed un’origine immensamente più
antica di quella di Bidonì. Viene ad esempio citato, ricorrendo a
denominazioni varie quali Siloque, Siloghe, Syloge, da San
Nicola di Trullas e da San Michele di Salvenero nel testo dei loro condaghi,
raccolte di atti riguardanti negozi giuridici e similari, risalenti al
XIII secolo o, addirittura, ad un paio di secoli prima. A differenza di
Bidonì, Siligo ha quattro chiese storiche. Un santuario nuragico. Un
parco archeologico. Sul territorio di sua giurisdizione si trovano inoltre
sei differenti aree ricolme di ruderi di edifici di culto. Più
ventiquattro nuraghi in differente stato di conservazione. Un osservatorio
astronomico in località Coas e, non ultimo, un planetario gestito dalla
Società Astronomica Turritana di Sassari che si affaccia proprio su una
delle piazze principali del paese, Piazza Maria Carta. Siligo vanta
inoltre tra i suoi concittadini illustri un poeta ed un’attrice, uno
scienziato ed una cantante, uno scrittore e perfino un doppiatore. Al
paese sono legate le origini dell’attore Gianni Agus, per non parlare di
quelle del politico, picconatore
ed ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
Soprattutto, per quel
che ci riguarda, Siligo è la patria d’adozione di Julia Carta, la
strega. Una donna processata dal tribunale dell'Inquisizione
nell’autunno del 1596. Tornata a sottomettersi all’impietoso giudizio
dei supremi purificatori nel 1606 come relapsa,
cioè recidiva. Sopravvissuta per ben due volte alla spaventosa prossimità
del rogo ecclesiastico ed all’inferno in terra di cui esso era
primigenia espressione. Il 1492 è un annus
mirabilis. Si apre con la caduta dell’ultima roccaforte moresca in
Spagna, Granada, che segna ufficialmente la fine della Reconquista
e la conseguente riunificazione del regno sotto l’egida di Ferdinando II
d'Aragona ed Isabella di Castiglia. Nel mese di aprile, un’uricemia
ereditaria presto degenerata in letale infezione pone fine ai giorni di
Lorenzo il Magnifico, mentre questi viene vegliato da Michelangelo
Buonarroti e dal frate domenicano Girolamo Savonarola, che si prodiga nel
somministrare al magnate e princeps
l’estrema unzione. Natura non
produrrà mai più un simile uomo, commenterà Caterina Sforza,
Signora di Forlì ed Imola. In luglio si spegne anche Innocenzo VIII, cui
succede il 214esimo Papa della Chiesa di Roma, Alessandro VI. Tra agosto
ed ottobre, si compie l’impresa di Colombo e del suo erroneo viaggio
verso le Indie, che cambierà il corso della storia in modi che il
navigatore genovese non immagina minimamente. Mentre un meteorite da 120
chilogrammi solca i cieli di Alsazia per schiantarsi con fragore al suolo,
tramonta l’epoca medievale per far posto all’Evo Moderno. Entro il
mese di luglio, gli ebrei vengono espulsi per regio decreto dal suolo di
Spagna, fatta eccezione per coloro che accettino di convertirsi al
cattolicesimo. Medesimo procedimento si applica, al 31 dicembre dello
stesso anno, ai 100mila figli di Israele che risiedono in Sicilia. La
guardia della Chiesa si fa insomma più serrata in tutte le provincie
spagnole e nelle terre cattoliche, che in questo frangente storico
coincidono quasi alla perfezione. La Sardegna non fa eccezione. E’ il
1492 quando il priore del convento della Santa Cruz di Segovia e
confessore dei Re Cattolici, un domenicano di nome Tomas de Torquemada,
elegge Sancho Marin. Con lui, si radica formalmente nel Regno di Sardegna
il tribunale dell’Inquisizione, ufficialmente inaugurato in terra
spagnola già 14 anni prima. La branca sarda opererà da Cagliari, ed a
Marin non rimane che individuare una sede consona alle esigenze del
venturo istituto di suprema purificazione.
Francisco Goya, Scena di
inquisizione, 1812-1819, Accademia Reale delle Belle Arti di San
Fernando (fonte: summagallicana.it)
Il luogo prescelto dal
neonominato inquisitore è uno stabile da ristrutturare che si trova in
località La Stellada, nella
zona oggi inquadrata tra va Bacaredda, via dei Giudicati e viale Ciusa. Il
singolare tribunale funziona fin troppo alla perfezione, con competenza
esclusiva in materia di ortodossia della fede nella strenua lotta contro
infiltrazioni giudaizzanti o islamiche, cui si va progressivamente
aggiungendo anche l’opposizione, sempre più feroce, nei confronti degli
eretici per eccellenza, i
protestanti. Per più di settant’anni Cagliari fa da cornice agli oscuri
offici del Santo Ufficio. E’ il 1563 quando si decide di cambiarne la
sede. Frattanto, è mutato anche l’inquisitore. Presiede ora il giudizio
padre Diego Calvo, che opta per la migliore allocazione offerta dal
trecentesco castello aragonese di Sassari capace di ospitare, oltre alla
sede più propria dei processi, anche la residenza dell’inquisitore
stesso, le carceri e, inutile precisarlo, una sala di tortura con mura
spesse, bastevolmente almeno da evitare eventuali, sgradite interferenze.
Soprattutto, Sassari risulta una roccaforte strategicamente più
importante, prossima come risulta essere nei confronti dei porti della
Sardegna settentrionale, e dei conseguenti contagi ideologici, filosofici
e massimamente religiosi che di qui potevano transitare. Calvo è
implacabile. In appena tre anni semina il panico in tutta l’isola,
giungendo ad organizzare una due giorni in cui vengono spiccate senza
sosta feroci condanne contro 70 poenitentiati
e, culmen dell’evento pubblico, ben 13 condanne al rogo purificatore.
In un secolo e mezzo – tra il 1550 e la fine del 1600 - la Santa
Inquisizione indaga ed accerta sul suolo sardo 165 casi di stregoneria e
magia, additando un totale di 105 streghe e 60 stregoni. Da cifre simili
ci si potrebbe forse attendere una carneficina sul campo. In realtà, i
condannati non vengono praticamente mai consegnati nelle mani del potere
secolare. Dunque, alle condanne non seguono pene capitali né roghi di
sorta.
Il Castello Aragonese di Sassari, acquerello (fonte: blogosfere.it)
Il tribunale sembra piuttosto avere manica larga. Pene e sanzioni
vengono in sostanza erogate con una certa mitezza, e sempre più di
frequente si ricorre a confisca dei beni, traduzioni moderate in carcere o
esilio, temporaneo o perpetuo, dal paese di residenza. I processi più
noti e documentati risultano tutti coronati dalle sconcertanti confessioni
minuziosamente estorte dagli ecclesiastici, nelle quali misteriose valli
dell’inferno si mescolano con boschi popolati da nugoli di adoratori del
demonio, oscuri gentiluomini vestiti con abiti sgargianti o addirittura
ricerche pilotate di favolosi tesori scomparsi. Caterina Curcas da Castel
Aragonès, Angela Calvia da Sedini, Anna Collu da Oristano. Nomi e
provenienze delle principali imputate di queste antiche istruttorie.
Altrettante voci di una lista interminabile, lunga più di duecento anni.
Un elenco nel quale spicca Julia Casu Masia Porcu. La strega Julia Carta.
A Siligo, sul finire del 1500, le faccende religiose sono appannaggio di
un parroco che si chiama Baltassar Serra y Manca. Uomo di Chiesa e, al
contempo, commissario dell’Inquisizione.
Un giorno come tanti, mentre
somministra le confessioni, il parroco viene a conoscenza di una diceria
che lo mette sulla difensiva. Dall’altro lato dello scranno c’è una
donna del paese, Barbara de Sogos. Una che si confessa e si comunica
regolarmente, onesta donna di casa sul conto della quale non circola mezza
voce in tutto il paese. Quando la de Sogos si alza e se ne va, dopo aver
vuotato il suo pesante sacco, don Baltassar suda freddo. Dopo Barbara
arrivano Jagomina Zidda e Jagomina Enna. E poi Joana Pinta, Joana Seque
Malizia ed alcune altre. Negli sfoghi di tutte fa capolino quel nome.
Julia Carta. Vicina di casa di molte. La stessa, soprattutto, che sembra
andare dicendo in giro che i peccati, per veri o supposti che siano, non
vanno necessariamente riportati in confessione. Non tutti quanti, almeno.
E non sempre.
C’è qualcosa che non va in quella donna. In quello che
dice, che non è certo ortodosso. E nelle cose che fa, soprattutto. Perché,
adesso, mezzo villaggio di colpo inizia a lamentarsi col parroco delle
singolari pratiche di quella strana donna.
Dicono che fabbrichi pungas,
amuleti. Che possieda strane rezettas,
ricette. Che pratichi suffumigi, cioè affumentos,
ed utilizzi verbos, formule, che
altro non sono che fortilesas,
sortilegi, hechisos,
incantesimi, e malefìci, perfino. Tutti operati da Julia. Siligo è poco
più di un ammasso di stamberghe di pastori ed agricoltori, che si
spaccano la schiena su di un terreno che Dio non ha voluto poi così
fertile. La monotonia della vita - e perfino della morte - qui è scandita
da un potere straniero che tiene il popolo alla catena. Ma nessuno ha più
voglia di sollevare vespai. Soprattutto, sulle coscienze e sulle anime
regna ancor più salda la Chiesa di Roma, per mano della spada del vicerè
che, a sua volta, deriva il suo potere dai sovrani di Spagna. Le bugie
hanno le gambe corte, è vero. Ma le dicerie procedono in fretta. E’ una
bomba, che deflagra tra le mani di una donna umile, analfabeta, povera.
Julia è figlia di un muratore. Moglie di un contadino. E madre di sette
figli. Tutti morti eccetto uno, Juan Antonio, che le sarà di conforto
negli anni di carcere. Ma negli angoli bui del paese, e di fronte ai foxili,
i focolai che riscaldano le notti fredde e ricolme di stelle
dell’interno, si sprecano i racconti di Julia indovina, di Julia
guaritrice, di Julia detentrice di arti antiche.
Proprio come sua nonna.
Proprio come tante donne del vicinato, amiche dei gitani di passaggio e,
perciò, introdotte alle loro dottrine misteriose ed ai servigi che queste
garantiscono senza nemmeno necessitare di una remunerazione di sorta a
chiunque tra la popolazione abbisogni di un supporto in più nella
miserevole fatica che è, in quei tempi oscuri, sopravvivere. Julia Carta
viene arrestata il 18 ottobre 1596 a Mores, in casa del padre, mentre le
voci si fanno sempre più incontrollabili e sono sempre più le persone
che la additano, di volta in volta e con sempre minore cautela, come coga,
hechizera, magarcha, maghiaglia,
o bruja, per dirla all’ispanica. “Brussa!”
gli urlano alcuni, i più sfacciati, in strada. E’ la stessa espressione
che sopravviverà ai secoli per indicare chi si è dato al malaffare,
smarrendo sé stesso e la propria anima come solo una strega può fare.
L’Inquisizione, già sistematasi nel forte sassarese, ha buon gioco
nelle indagini. Ma Julia è giovane e testarda. Nega. Ritualmente, le
vengono indirizzate tre moniciones.
Inviti a liberare la coscienza dicendo la verità. L’avvocato fiscale
Thomàs Pitigado, che assiste al processo, le contesta come da copione le
accuse formali. Tutti sinonimi di un solo capo, che le verrà formalmente
addebitato il 21 novembre. Stregoneria. Avrebbe perfino provocato la morte
di una donna di Siligo, Maria Virde.
Così, tra l’autunno 1596 e
l’anno successivo, compare in tre differenti occasioni davanti agli
inquisitori. Ma rimane restìa. E de Arguello, l’inquisitore incaricato
di saggiare la sua colpevolezza, si gioca l’ultima carta. Minaccia di
tortura ed avviamento alla càmara
del tormento. Julia viene legata, e mentre i suoi aguzzini le mostrano
con perizia il braccio meno clemente della Chiesa, snocciolando di fronte
ai suoi occhi esterrefatti i tanti strumenti che il Santo Ufficio ha
saputo creare per mondare i corpi e le menti, la sua anima scricchiola.
E’ un attimo, e la fortezza del suo intimo cede. Provata dalla
gravidanza e dal mal di pietra che le dilania le viscere, non resiste più
di tanto. Gettata nelle latebre delle prigioni del Santo Ufficio, presto
confessa. E’ vero, pratica le arti della madre terra. Lo fa in ossequio
al lascito ancestrale della sua famiglia, che da epoche immemori dialoga
con le stelle, ed addirittura con il demonio. La bestia l’ha tentata
senza sosta, piegandola a rapporti di vario genere, anche sessuali, in
quella zona d’ombra che separa il sonno vero e proprio dalla veglia
semicosciente. Tutto mentre Costantino Nuvole, il suo sposo, le dormiva
placidamente accanto. Ammette tutto. Nuovi incantesimi realizzati, altri
rapporti con il demonio consumati perfino tra le mura del fortilizio. De
Arguello vorrebbe per lei una pena esemplare. Più del castigo sinora
inflittole da una Chiesa di santo ha ben poco. Julia è colpevole. E’
una strega di quelle autentiche. Non considera nemmeno come fondante il
valore della confessione. E allora, è peggio che strega, è strega e
luterana. Due termini che, nella Sassari figlia della Controriforma, che
si batte con le unghie e con i denti contro la piaga del luteranesimo e
dei riformati attivi in Corsica e Provenza, diventano un unicum,
ed un’icona del male assoluto.
Tutto sembrerebbe condurla in fretta alle
fascine del santo rogo. Ma il giudizio nella sua terra è più lieve che
altrove. Il prezzo delle sue malefatte sono tre anni di carcere. E
l’ammonizione formale una tantum
a non ricadere nella colpa. Un avviso che, tuttavia, non la salva dal
secondo processo, intentatole tra il 1604 ed il 1606. Ancora una volta,
finisce davanti agli inquisitori. Ancora una volta, si salva. Perché le
supposte arti oscure patrocinate da quella quarantenne, madre di una prole
defunta e giunta in carcere recando in braccio un unico bambino abbigliato
di stracci, sembrano essere appannaggio di tante altre donne del
villaggio. Giovani, mature, anziane. Non si può processare un paese
intero. Anche se è il villaggio stesso che lo reclama. Così muore anche
il principio caro ai famigli di
cui l’Inquisizione avidamente si nutre, la delatio.
Proprio mentre lo stesso sacro tribunale di Spagna, soverchiato dalla fama
nera che si è costruito intorno in secoli di sopruso, vede la sua autorità
perdere di mordente e di utilità, fino a decadere temporaneamente. Dopo
il 1614, di Julia Carta si perdono semplicemente le tracce. Sicuramente
esce di scena, e guadagna la pace che attendeva da troppo. Forse, si
tratta della pace eterna. Di lei, donna umile di un più umile villaggio
sperduto tra le colline dell’interno della Sardegna di fine ‘500, non
resta molto. Nessuna rappresentazione. Soltanto cronaca giudiziaria,
resoconti infamanti. Ed un segno incerto, tracciato con mano tremante alla
fine di un foglio ormai ingiallito e consunto dai secoli. La sigla
all’abiura ufficiale che i suoi detrattori hanno voluto attribuirle a
fine-calvario, e che suona così:
“Eo Julia Carta, naturale e habitadora de sa villa de Siligo, que ynogue
so presente dainantis de sa Señoria sua, comente Inquisidore qui sunu,
contra sa heretica pravedade et apostasia in custu regnu de Sardiñya et
su districtu sou po auctoridade appostolica et ordinaria. Postu de inantis
meu custu sinnu de sa rugue et sos sacrossanctos Evangelios qui cun sas
manos mias corporalmente toco, reconosquende sa verdadera catholica e
appostolica fide, abjuro, detesto et maleygo tota ispecie de heregia qui
si pesat contra sa sancta fide catolica et lege evangelica de nostru
Redemptore et Salvadore Jhesu Christu et contra sa Sancta Sede Appostolica
et Ecclesia Romana, specialmente a ycudda qui eo, comente et mala, so ruta
et tengo confessado daenantis sa Señoria Sua, qui ynogue publicamente si
mi est lehido, et de su qui so ystada acusada, et juro et promitto de
tenner et bardare semper cudda sancta fide qui tenet, bardat et insiñat
sa Sancta Mater Ecclesia, et qui semper appo como esser obediente a Nostru
Señore su Paba e a sos sucessores suos qui canonicamente suseden in sa
Sancta Sede Appostolica, et a sas determinaçiones suas; et confesso qui
totus cuddos qui contra sa sancta fide catholica han como venner son
dignos de condenaçione, et promitto qui may mi appo acompañare cun
cuddos et qui cantu in me hat como esser los appo a perseguire et sas
heregias qui de cuddos appo como isquire, los appo a revellare et
notificarelu a quale si quergiat Inquisidore dessa heretica pravedade et
perladu de sa sancta Mater Ecclesia in hue hat qui mi acate, et juro et
promitto qui appo a rezier humilmente et cum paçiençia sa penitençia
qui mi est istada o hat como esser posta cun totus sas forzas e pudere meu
et la deppo cumplire in totu et per totu senza andare nen venner contra a
issa nen contra cosa nexuna nen parte de issa , et quergio et consento et
mi piaguet que, si algunu tempus, su qui Deus no quergiat, esseret o hat
como venner contra sas cosas subra naradas o contra quale si quergiat cosa
o parte de issas siat appida e tenta po impenitente relapsa, et mi somitto
assa correptione, in veridade de sos sacros canones, pro qui in me,
comente et persona culpada dessu dictu delictu de heregia, sian executadas
sas çensuras et penas in cuddas postas, et dae como pro tando et tando
pro como consento qui cuddas mi sian dadas et executadas et las appo a
suferrer cando si siat si alguna cosa si mi prohare de haver rupidu de su
subra naradu pro me abjuradu; et pregu assu presente notariu qui mi lu
diat pro fide et a sos presentes qui siant de custu testimonjos.”
[T.Pinna,
Storia di una strega.
L’Inquisizione in Sardegna.
Il processo di Julia Carta,
Sassari, Edes, 2000.]
(Autore:
Simone Petrelli)
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