Entrando nella bellissima città di Avila, con le sue caratteristiche Mura che circondano la città casigliana, noi non possiamo non passare per il
Monastero Reale di S. Tommaso, noto nei secoli dell’Inquisizione spagnola,
al tempo d’Isabella e Ferdinando,per essere stato la dimora dove Tomas de Torquemada studiava i casi da sottoporre all’Inquisizione.
In genere il frate (perché tale era) viveva all’interno di questo monastero in perfetta armonia, cella scarna dove riposava, uno studiolo decisamente spartano dove filtrava peraltro poca luce, insomma nulla che facesse intendere contatti con il “devastante mondo civile”.
Pregava molto e spesso, riceveva le visite importanti come quelle meno importanti allo stesso modo, cioè facendo accomodare la persona di fronte a lui
su d’una sedia rudimentale; non temeva nessuno ed era sempre rispettato da tutti, non solo per la
paura che incuteva, ma perché chiunque poteva leggere in lui un’eticità ed uno
spirito molti forti, sebbene spesso spinti all’estremo.
In genere i colloqui non duravano molto; Torquemada era essenziale, evitava giri di parole e veniva
al dunque immediatamente; questo metteva indubbiamente- tra sé ed il
visitatore- un invisibile muro difficile da rompere anche perché il frate era solito osservare lo sguardo di chi gli stava di fronte proprio perché basava molto il suo approccio sulla sensibilità visiva.
Il caso che gli era sottoposto era studiato per moltissimo tempo, poteva prendere settimane
intere; egli era contrario alla fretta e spesso interveniva duramente perfino con i reali e con il messo
papale; nel suo lavoro non ammetteva interferenze. Potreste anche sorridere, ma
dal punto di vista del diritto dava senz’altro più fiducia lui di un normale tribunale.
Veniamo al personaggio e cerchiamo di descriverne meglio i caratteri psicologici.
Egli aveva sempre presente, nei suoi scopi, l’obbedienza cieca ai canoni della fede cattolica, logico quindi che nella sua mente non v’erano spazi per “voli pindarici” filosofici durante l’istruzione di un processo: ogni mezzo per lui diventava quindi lecito pur di riuscire negli intenti che, si badi bene, non erano
quelli di mandare a morte un giudicato, ma di redimerlo se possibile; alla punizione avrebbe pensato successivamente il
potere secolare.
Questo è un particolare importante, da non dimenticare: la chiesa “non condannava mai” ufficialmente, era il potere laico che lo
faceva; dovere ecclesiastico era dimostrare che il reo aveva agito contro la morale ed i canoni
cristiani;se confessava e si pentiva, il reo veniva senz’altro perdonato anche se poi doveva rispondere al tribunale civile, che nella maggioranza dei casi non andava tanto per il
sottile.
Infatti, Torquemada spiegava che il suo dovere era di riconvertire gli eretici della Spagna (moriscos ed ebrei per esempio) per esempio, prima attraverso la predicazione e la preghiera e solamente di fronte ad un rifiuto costante egli si sentiva libero di passare altra prassi.
In realtà il frate non fece quasi mai nulla contro gli ebrei ed i moriscos. Egli, infatti, partiva dal presupposto, piuttosto corretto, che chi non apparteneva ad altra religione
non era perseguibile (lo erano solamente i cristiani), ma poteva essere espulso dalla regione, il che- pur grave- era senz’altro meglio che subire un processo inquisitivo.
Anche qui la meta prefissa normalmente era quella di riportare sulla giusta Via le persone che in qualche modo avevano contravvenuto alle scelte approvate dalle
leggi canoniche che potevano annidarsi tra gli agitatori ed i propagandisti del popolo, i riformatori del cattolicesimo: cioè persone certamente non gradite al Re ed alla Chiesa, v’era quindi una venatura sociale piuttosto importante.
S’è detto più sopra delle conversazioni, spesso alterate, del frate con i sovrani che egli considerava i suoi veri
“comandanti”.Il Papa per lui non aveva lo stesso impatto psicologico che avevano Ferdinando ed Isabella, infatti divenne ben presto lo strumento del loro potere, la cacciata di ebrei e moriscos (le due categorie che più incidevano sull’economia di
Castiglia ed Aragona) la dice lunga su questo “entente” politico-religioso.
Dai sovrani egli ebbe il titolo di Inquisitore Generale di tutta la Spagna, cosa di cui andava fiero indubbiamente e per prima cosa egli fece una piccola rivoluzione nel consiglio che sovrintendeva all’Inquisizione.
Infatti, anche dei laici ebbero il loro “scranno” e potevano seguire ed intervenire nel dibattito: l’atto era senza dubbio innovativo e di fatto
evitate grandemente le pericolose dispute tra il Papa ed il Re; ognuno aveva i suoi uomini di fiducia nel “Gran Consiglio” anche se poi gli uomini del Re ebbero quasi sempre l’ultima parola che decideva anche pesantemente.
Torquemada aveva una profonda sfiducia nel Papato, che riteneva un’istituzione vetusta e superata, piena di boriosi cardinali dediti più alle feste che al lavoro spirituale: a suo modo era anche lui in netta contrapposizione con la Chiesa ufficiale, ma poteva permettersi questi atteggiamenti perché protetto dal Re e dalla Regina.
Anche il concetto relativo all’espiazione per lui era da ritenersi legato al Creato, a Dio ed alla bellezza della vita: infatti tanto la punizione era lunga e dolorosa tanto il reo poteva assaporare la bellezza della vita e del Creato, pure se ciò avrebbe portato alla morte come atto liberatorio ed alla conquista della Vita Eterna.
Egli si rendeva certamente conto che il mondo esterno lo odiava, o meglio odiava ciò che lui costruiva, ma non se ne diede mai cruccio ed anzi sottolineava spesso come l’Inquisizione fosse il primo ente giuridico supremo che avesse una procedura regolare e scritta.
Infatti, ed anche questo era innovativo, i testimoni dovevano essere di provata fede cattolica e non dovevano essere nemici dell’imputato, questo rispetto alla procedura civile era veramente un grosso passo in avanti.
La procedura sottolineava come l’interrogatorio dell’imputato dovesse essere redatto da un notaio con l’obbligo di annotare qualsiasi cosa, pro o contro l’imputato.
Ad ogni interrogatorio dovevano essere presenti al minimo due testimoni in qualsiasi momento con facoltà di parola e questi testimoni non dovevano essere nemici dell’imputato o aver avuto dispute con lui.
Anche se veniva provata la colpevolezza (quasi sempre) v’era un successivo grado di consiglio che prevedeva la partecipazione di religiosi, avvocati, giureconsulti proprio per decidere la proposta della pena.
Parlando chiaramente: da un processo di Torquemada non sarebbe mai potuto uscire una persona totalmente immacolata, la Chiesa non avrebbe potuto permetterselo, così solitamente un “innocente” se la cavava con un viaggio a Santiago di Compostela o
a Gerusalemme.
Torquemada non era uomo da cadere in facili tranelli, per cui anche le provocazioni spesso usate contro di lui non facevano l’effetto desiderato, quasi tutte incentrate sul fatto che egli avrebbe utilizzato
l’escamotage della cacciata dei mercanti e possidenti ebrei o moriscos per rimpinguare
le esauste casse del Re e della Regina.
L’atteggiamento che noi abbiamo come raffigurazione collettiva di questo frate domenicano ci mostra un personaggio tetro e chiuso in sé, forse un po’ sadico, forse un po’ senza molto senno, tipico
cliché dell’oscurantismo di quell’epoca.
Lungi da me l’idea di spezzare una lancia a suo favore, come Cristiano mi ripugna che fossero usati sistemi assurdi per imporre la nostra religione (dei Cristiani,
n.d.a.), devo però constatare che dal punto d vista giuridico questo tipo di processo aveva un approccio molto interessante e dava l’idea d’un ottima esposizione se parliamo in termini di diritto.
Torquemada non era né violento, né ieratico, era un frate funzionario che sapeva fare il suo lavoro molto bene e le sue allocuzioni processuali erano certamente dei piccoli capolavori di diritto civile ed ecclesiastico, egli non era d suo né violento né odiava, semplicemente era pragmatico e realista, e da questa visione nascevano le sue “condanne” a noi tramandate in maniera decisamente errata.