VITA E RICERCHE DI UNO DEI PIU' GRANDI SCIENZIATI CATANESI
di Ignazio Burgio.
“Se l'uomo sente tremarsi sotto a' piedi la terra, e vede una montagna eruttar
dalla cima, immezzo ad enormi colonne di fumo, masse di infocate materie, ed
aprire i di lei fianchi per dar uscita ad orridi torrenti di lava brucianti e
desolatrici, non può non riguardare i fenomeni de' vulcani come i più grandiosi,
come i più sorprendenti della natura...”. Così si esprime Carlo Gemmellaro
all'inizio della sua “Relazione dei fenomeni del nuovo vulcano sorto dal mare
fra la costa di Sicilia e l'isola di Pantelleria nel mese di luglio 1831”.
Frutto di una ricognizione scientifica ufficiale verso quella che sarebbe stata
più comunemente nota come Isola Ferdinandea, essa venne letta dal medesimo
scienziato nell'aula magna dell'Università di Catania il 28 agosto dello stesso
anno e rappresenta il resoconto scientifico più dettagliato di quel curioso
fenomeno naturale destinato a concludersi nel giro di pochi mesi con
l'inabissamento della medesima isoletta.
Nato il 4 novembre 1787, nella prima parte della sua vita questo geniale “figlio
dell'Etna” girò in lungo e in largo l'Europa e il Mediterraneo, prima come
medico nell'esercito inglese contro Napoleone, poi in veste civile di semplice
studioso di cose naturali e umane. Nonostante infatti avesse conseguito la
laurea in Medicina, i suoi interessi andavano dalla geologia e vulcanologia fino
alla zoologia, la botanica, la paleontologia e la climatologia. Persino
l'archeologia, la filosofia, la letteratura e la numismatica rientrarono nel suo
campo d'indagine. Nel 1823 pubblicò il suo primo studio avente come argomento
l'Etna, “Sopra alcuni pezzi di granito e di lava antica trovati presso la cima
dell'Etna". Nel 1824 fu uno dei fondatori dell'Accademia Gioenia, in onore di
Giuseppe Gioeni, il pioniere degli studi di geologia e vulcanologia a Catania.
Due anni dopo nel 1826 vinse un concorso a cattedra, ma le autorità borboniche
sospettose delle sue amicizie con gli intellettuali, anche radicali, di tutta
Europa gli impedirono d'insegnare all'Università. Ciò nonostante grazie alle
pubblicazioni delle sue prime ricerche, la sua fama travalicò ben presto i
confini della sua città e l'Università di Catania pensò per tempo di tenersi ben
stretta una tale mente geniale nominandolo, per meriti speciali, proprio nel
1831 docente di Storia Naturale, Geologia e Mineralogia. Proprio in tale veste
fu incaricato di recarsi nel mare antistante la costa di Sciacca (Ag) dove dai
primi giorni del mese di luglio numerosi spettatori – pescatori, navi siciliane,
napoletane e inglesi – erano stati testimoni dell'improvvisa comparsa di un
vulcano dalle profondità marine. Mentre infatti la dinamica delle eruzioni
vulcaniche sulla terraferma era già stata ampiamente descritta da molti
naturalisti, l'attività di un vulcano sottomarino era ancora totalmente
sconosciuta a quei tempi in cui la vulcanologia era una scienza ancora in fasce.
Dunque il neo-professore catanese si affrettò a recarsi in quelle acque
infuocate “onde aver finalmente la vera storia de' fenomeni di un Vulcano, che
nasce sotto le acque del mare” (p. 5).
Come riferisce lo stesso Gemmellaro, tutto era iniziato poco più di un mese
prima. Tra il 28 giugno e il 10 luglio la cittadina di Sciacca venne turbata da
ripetute scosse sismiche e da un forte odore di idrogeno solforato proveniente
dal mare, in quantità tale da annerire anche gli oggetti d'argento. Nei giorni
successivi mentre era ben visibile da Sciacca una colonna di fumo levarsi dal
mare a circa 30 miglia di distanza, coloro che si avventuravano nella zona di
mare in questione - come Francesco Trafiletti capitano del brigantino “Gustavo”,
Mario Provenzano, comandante della bombardiera “Madonna delle Grazie” il
capitano Corrao di Sciacca e numerosi pescatori - potevano osservare la medesima
colonna di fumo alta 15 metri levarsi dal mare in ebollizione ed una gran
quantità di pesci morti o tramortiti. Intorno al 17 luglio iniziò una vera e
propria eruzione di lapilli, pomici e scorie incandescenti che accumulandosi
l'una sulle altre crearono un isolotto in rapida crescita. La Deputazione
sanitaria di Sciacca spedì allora ufficialmente sul luogo un peschereccio
comandato da Michele Fiorini, il quale – a quanto si dice – sarebbe riuscito a
piantare un remo sulle falde del nuovo vulcano, come per rivendicarne la
scoperta. Era questa la prima avvisaglia dello scatenarsi di un interesse, oltre
che scientifico, anche politico e strategico attorno alla nuova isoletta da
parte della monarchia Borbonica, degli Inglesi e successivamente anche dei
Francesi.
Tra il 18 e il 24 luglio i fenomeni eruttivi furono molto intensi, contribuendo
alla crescita dell'isola in volume e altezza, dopodichè cominciarono a perdere
d'intensità fino a ridursi notevolmente nei primi giorni di agosto. Secondo la
Gazzetta di Malta del 10 agosto, otto giorni prima, il 2, il capitano inglese
Senhouse del vascello Hinde avrebbe messo per primo piede sull'isola, e dopo
avervi piantato una bandiera britannica l'avrebbe battezzata Graham. Questa
notizia suscitò molta perplessità nello stesso Gemmellaro, anche perchè aveva
saputo che il 7 agosto un altro viaggiatore inglese avvicinatosi privatamente
con una barca di pescatori nei pressi dell'isola avrebbe voluto piantarvi
anch'egli la bandiera di Sua Maestà, ma ne sarebbe stato impedito dall'attività
vulcanica ancora vigorosa. Da interessi esclusivamente scientifici vennero
invece condotti in quelle acque il geologo tedesco Karl Hoffman ed il fisico
Domenico Scinà, i primi scienziati a dare sommarie notizie sul nuovo evento
naturale.
Carlo Gemmellaro giunse nei pressi dell'isola vulcanica l'alba del giorno 11
agosto insieme al fratello Antonino e allo studioso domenicano Padre Gallo. I
tre poterono rendersi conto che l'isola era poco più di una collinetta quasi
circolare corrispondente al cono vulcanico emerso, più alto dalla parte di
levante (63 metri all'incirca) e meno dal versante meridionale (8,5 m.). Verso
settentrione tuttavia il cono risultava aperto fino alla superficie del mare,
tanto da permettere alle onde di penetrare regolarmente dentro il cratere. A
causa dei materiali di cui era composta – scorie e ceneri nere di natura
vetrosa, stratificate – Carlo Gemmellaro si rese subito conto che l'isola era
piuttosto friabile e soggetta all'erosione del mare che “...rodendo la base del
nuovo cono, produce ne' fianchi di esso delle frane che ne scoprono la
struttura; ed il caduto materiale unito a quello, che le forti esplosioni
rigettano sul mare, vien trasportato dalle onde fin sulla spiaggia di Sicilia,
come io stesso ho potuto osservare lungo il litorale, da Sciacca sino a
Terranova (oggi Gela, n. d. r.)...” (Relazione..., op. cit. p. 24). Lo
scienziato catanese ne descrisse inoltre, in dettagliato stile scientifico, le
spettacolari eruzioni – miste di vapore e di materiale eruttivo - della durata
ognuna di mezz'ora/tre quarti d'ora, intervallate da due o tre minuti di pausa
fra l'una e l'altra.
L'imbarcazione con a bordo i tre studiosi rimase in quelle acque per quattro
giorni, poi riprese la via del ritorno. Nella relazione che scrisse, e che
avrebbe letto alla fine di quel mese nell'Ateneo catanese, Carlo Gemmellaro
giunse a due fondamentali conclusioni: che non vi era sostanziale differenza tra
eruzioni sottomarine e terrestri (arrivando ad essere il primo a fare questa
affermazione); e che se l'attività eruttiva del nuovo vulcano si fosse esaurita
di lì a poco tempo, come tutto lasciava presagire, l'isola non sarebbe stata
sufficientemente consolidata nella sua struttura e avrebbe subìto l'erosione del
mare fino alla totale scomparsa. Di lì a qualche giorno dopo la sua ripartenza
infatti, tra il 19 ed il 20 agosto il vulcano cessò di eruttare, e l'acqua del
mare potendo finalmente ristagnare sul fondo del cratere formò due laghetti: il
primo della circonferenza di 20 metri di colore rossastro; l'altro, più piccolo
di colore giallo-sulfureo.
Ma l'acquietamento del vulcano provocò anche il riaccendersi delle dispute
internazionali attorno ad esso. Il medesimo 20 agosto alcuni ufficiali della
nave britannica Ganges misero piede sull'isola e issarono la bandiera di Sua
Maestà sulla cima del cratere. Ciò provocò il risentimento di re Ferdinando II
di Borbone che per parte sua aveva già incluso quella collinetta di ceneri fra i
suoi domini, battezzandola, su suggerimento dello stesso Gemmellaro, Isola
Ferdinandea (a differenza della Royal Society e della Geological Society di
Londra che avevano già adottato il nome di Graham). Poco più di un mese dopo, il
29 settembre, anche i Francesi nel corso di una spedizione scientifica diretta
dal Prof. Prèvost issarono la loro bandiera sulla parte più alta dell'isola,
battezzandola Giulia. Ma il medesimo Prof. Prèvost si accorse che le dimensioni
di questa si erano già parecchio ridotte a causa dell'azione delle onde. Appena
un mese dopo, verso la fine di ottobre, l'isola si era talmente rimpicciolita
che emergeva appena di un metro al di sopra della superficie del mare, e l'8
dicembre Vincenzo Allotta, comandante del brigantino Achille, al suo posto trovò
soltanto una piccola colonna di acqua calda emanante odore di bitume. Qualche
giorno dopo, il 17 dicembre, due ufficiali dell'Ufficio Topografico di Napoli,
constatarono ufficialmente che tutta l'isola era stata ricoperta dal mare.
Quanto a Carlo Gemmellaro in quel periodo era solo all'inizio della sua
sfolgorante carriera. L'anno seguente nel 1832 dotò l'Università di Catania di
un Osservatorio Meteorologico, fornendolo anche di un pluviometro di sua
invenzione, e fondò nel medesimo Ateneo un Istituto di Storia Naturale. Nel 1834
presentò a Strasburgo una carta geologica della Sicilia che suscitò unanime
interesse nel mondo scientifico, mentre al Congresso dei Fisici a Stoccarda
corresse le teorie sull'antica formazione della “Valle del Bove” sull'Etna, da
lui correttamente attribuita allo sprofondamento di un altro arcaico cono
vulcanico. S'interessò anche di questioni agronomiche chiarendo i motivi della
naturale fertilità della Piana di Catania, e pubblicando anche un progetto di
rilancio dell'agricoltura siciliana. Insistette sulla necessità di costruire un
porto a Catania (a quei tempi ancora inesistente) indispensabile per lo sviluppo
economico della città, e contribuì inoltre anche alla fondazione dell'
Osservatorio Astronomico e dell'Orto Botanico sempre a Catania.
Ma nonostante tutti i suoi impegni di studio e la produzione di saggi
scientifici trovava anche il tempo di dedicarsi alla letteratura e alla poesia.
Nei momenti liberi era sua piacevole occupazione tradurre dal latino i versi di
Orazio, e nel 1844 scrisse “Il Martirio di S. Agata”, dramma in versi dedicato
alla patrona della sua città.
Gran parte delle sue energie vennero naturalmente dedicate allo studio
dell'Etna, il vulcano da cui fin da bambino era stato affascinato, e che, come
già detto, aveva iniziato a studiare anche prima di divenire cattedratico. Le
sue ricerche sul vulcano più grande d'Europa vennero riassunte nella monografia
“Vulcanologia dell'Etna 1859-1860”.
Particolarmente delicato fu il suo rapporto con le autorità borboniche,
improntato alla prudenza, come da suo carattere di tranquillo studioso e non di
animoso rivoluzionario, ma anche da una obiettiva consapevolezza che i mali
della Sicilia derivavano dal malgoverno di Napoli. Nella raccolta di scritti che
compongono “Gli avvenimenti notabili successi in Catania nel 1837” egli ricorda
tra l'altro “...quei martoriati decenni nei quali la cecità politica, la
cupidigia dei governanti, l'intolleranza del Governo di Napoli stremarono la
sopportazione del popolo”. Proprio a causa di queste sue critiche cadde ancora
più in sospetto presso la polizia borbonica che gli impedì di partecipare nel
1839 al famoso congresso degli scienziati italiani a Pisa. Forse fu anche per il
risentimento provocato da questo fatto che una decina di anni più tardi in
occasione della rivoluzione del '48, aprì le porte dell'Università, di cui era
diventato rettore l'anno prima, al Comitato rivoluzionario che vi si insediò. E
quando infine i garibaldini giunsero a Catania nel 1860, Carlo Gemmellaro fu
naturalmente tra coloro che compresero e approvarono la grande svolta
risorgimentale.
Negli ultimi anni della sua vita fu tormentato da una grave malattia che lo
costrinse a restare segregato fra le sue mura domestiche. Non per questo
tuttavia cessò di studiare e di scrivere. L'ultima sua opera, “Addio al maggior
vulcano d'Europa” oltre che una sintetica autobiografia, è anche un commosso
saluto al principale oggetto dei suoi studi scientifici, prima di spegnersi il
21 ottobre del 1866.
Bibliografia.
Sciacca, L.: Fatti e misfatti
catanesi – Tringale Editore, Catania, 1989 (pp. 167-172).
Bentivegna, G.: Carlo
Gemmellaro, uno studioso europeo nella Catania dell'800 – Bollettino d'Ateneo,
1/1997 (l'Autore localizza la nascita di Carlo Gemmellaro a Nicolosi (Ct)
anzichè a Catania. La questione è ancora aperta ma la maggior parte degli
studiosi è di parere che sia nato nel capoluogo etneo. Anche per la data di
morte – spostata di un giorno, il 22 ottobre – il Bentivegna si discosta dalla
biografia ufficiale).
Di Franco, S. - I primi
geologi siciliani e i Gemmellaro – in: Archivio storico per la Sicilia
Orientale, Catania, 1933, pp. 102-108.
Fuochi, V. - Le scienze a
Catania nel primo Ottocento e l'opera di Carlo Gemmellaro – Tesi di laurea
presente nella Biblioteca Universitaria di Catania. (Anche per questo autore
Carlo Gemmellaro è nato a Nicolosi il 14 novembre 1787, anzichè il 4
novembre).
Gemmellaro, C.: Relazione dei
fenomeni del nuovo vulcano sorto dal mare fra la costa di Sicilia e l'Isola di
Pantelleria nel mese di luglio 1831 – Edizioni dell'Università di Catania,
1831.