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Fig. 1. Posto
nella valle Magrera, allo sbocco della valle dell'Oro, Civate è lambito
dal torrente Rio Torto. Si trova ai piedi del monte Cornizzolo con
dirimpetto la mole del monte Barro. Nell'immagine il Cornizzolo osservato
dal Monte Rai
Il
territorio di Civate ci ha tramandato numerose tracce della presenza umana
che risalgono sino al terzo
millennio avanti Cristo, a partire dall'antica presenza del Liguri
(1) sulle pendici dall'altura che Plinio il Vecchio chiama monte
Pedale - il Cornizzolo -
e dei riti
solari di cui essi hanno lasciato traccia visibile.
Fig.
2
Abbarbicato
sulla impervia roccia a strapiombo prospiciente il lago d’Annone, sul
versante sud orientale del Cornizzolo vi è proprio uno dei luoghi
interessati a questi riti,
il Bus
de la sàbia (Buco
della sabbia),
un importante ritrovamento in cui si è sviluppata una vera e propria
cultura originale dell’età del
rame, tale da poterla designare con il titolo di
cultura
di Civate,
che costituisce un anello di congiunzione unico ed insostituibile per
conoscere lo sviluppo della storia del vasto periodo
eneolitico nella nostra regione, riferibile all'età del bronzo, che a
nord della penisola italica ci rimanda addirittura alla civiltà dei
Camuni
Fig. 3
Si
tratta della
testimonianza più antica di questo territorio, inserita
ancora nell’ambiente naturale che l’ha vista nascere nel periodo eneolitico,
utilizzata praticamente fino all’esaurirsi dell’insediamento romano:
una caverna
funeraria con tracce d'ossa, una serie di utensili e qualche graffito,
composta da tre successive sale di cui l'ultima fornita di camino
verticale di ventilazione che fuoriesce nella roccia soprastante.
Sinora
considerato un elemento isolato ed anomalo, si ritiene che il Buco
della Sabbia costituisca parte di un complesso più ampio, avente
chiara valenza simbolica.
Al
suo ingrasso infatti, si trova una sorta di primitivo portale d'accesso, composto da una coppia di steli tozze e massicce rivolte ad occidente (verso il sole
morente), identiche ad altre due
coppie di steli d'ingresso ritrovate nelle vicinanze.
Risalendo
la costa della montagna, sul sentiero quasi in disuso che s’arrampica
impervio e dritto sul crinale, tra quello di Linate e quello principale
per San Pietro al Monte, una trentina di metri prima del poggio in cui
sono state collocate le corde (i
tralicci a sostegno delle funi d’acciaio), in uno spiazzo ideale per
costruirvi un altare, si incontra una seconda
coppia di steli d'ingresso,
che costituisce
una specie di rozzo portale.
A
destra dello stesso poggio delle corde,
attraverso altre due più massicce
ed importanti steli
litiche,
di cui quella di destra probabilmente naturale, si accede ad un piacevole
pianoro riparato, denominato prato
rossino, un pianoro circolare delimitato da basse muraglie di
pietrame a secco, ideale per la collocazione di un piccolo insediamento
umano di capanne in legno e
paglia o di casotte.
La
prima coppia di steli, posta a livello inferiore, è rivolta ad est, verso il sole nascente, mentre quella d’ingresso
all’insediamento vero e proprio (prato
rossino) è volta al sole di
mezzogiorno: esse potrebbero introdurre in un luogo sacro, riservato a particolari cerimonie religiose,
appunto come in uso presso i Liguri.
Considerando
la particolare collocazione e configurazione dei manufatti e dello spazio
centrale di prato rossino,
l’interpretazione immediata della simbologia, nella dimensione di un
primitivo culto solare, richiama la celebrazione
dei tre momenti fondamentali della vita: ad oriente la nascita,
volta all’immagine del sole nascente; a meridione la maturità,
come pienezza dell’esistenza, nel mezzogiorno solare; ad occidente la morte, cui è destinato
ogni essere vivente, nel tramonto solare.
Ma il vero e proprio
inizio dell’insediamento abitativo di Civate, ebbe luogo, indubbiamente,
con i Celti (2) che occuparono
il territorio ai piedi del Cornizzolo, scegliendo quella che oggi è la
frazione di Tozio come
insediamento primitivo. I celti
orobici, dovevano essere per lo più tranquilli agricoltori, dediti
alla pacifica coltivazione della valle che si estendeva rigogliosa sotto
di loro. Purtroppo non sono stati mai ritrovati, o meglio, non sono mai
stati conservati reperti di origine celtica ritrovati nel territorio di
Civate.
Fig.
4
La
prima conquista romana, a danno degli Insubri (a cui corrisponde la presa
di Como, Comum
oppidum,
da
parte del console Claudio Marcello), avviene nel 196 a.C., quando i romani
si impadroniscono della Gallia
Cisalpina, un territorio che si estendeva dalla pianura del Po sino
alle Alpi, facendo riferimento a quella capitale che si sarebbe poi
chiamata per sempre Mediolanum.
Si
dà così avvio ad una riorganizzazione del territorio (3),
nonché alla costituzione di un sistema
difensivo che proteggesse i territori collinari e della pianura da
eventuali incursioni od invasioni provenienti dalle Alpi.
Ma
è nella fase tardo antica dell'occupazione romana (tra il III e il IV sec.
d.C.), che gli invasori furono veramente in grado di stabilire il controllo
definitivo sul territorio, con una organizzazione amministrativa e una
rete di comunicazioni stabili e con l'insediamento di strutture
militari.
Fig.
5.
Benchè non ancora perfettamente individuato, il tracciato della
direttrice Pedemontana, via militare romana nota come Strada
della Regina, congiungeva l'antica Aquileia,
nel Veneto, con la Rezia,
passando per Verona, Brescia, Bergamo e, passando per Clavis (Civate), Como
Infatti,
dal territorio di Civate (Clavis), posto ai piedi
del Cornizzolo,
transitava
l’importante strada
romana
(glarea
strata,
cioè una strada caratterizzata da un fondo predisposto con cura, ma
ricoperto di semplice ghiaia) proveniente dall'antica Aquileia,
nel Veneto, e passante per Bergamo (la Pedemontana) allacciata al
tracciato stradale diretto verso i passi alpini lungo le rive del lago di Como
(4).
Un
territorio inserito nello scacchiere difensivo creato appunto con
l’elezione al rango di capitale dell’impero di Milano, che fungeva da
via di collegamento tra numerosi castra
di epoca tardo antica disseminati lungo un ampio tracciato che costituiva
un limes,
un confine dell’insediamento romano a ridosso della regione alpina.
La
catena montuosa e l’estensione del Lario offrivano la configurazione
ideale per la collocazione di una linea
difensiva settentrionale di tutto il territorio brianteo ed oltre,
contrassegnata da un'articolata struttura militare che si snodava lungo il
limes attraverso fortificazioni
poste ai piedi delle alture: il Castrum
Leucum, l’attuale Lecco (il Castello di Santo Stefano, il più
importante della zona), Castelmarte, vicino ad
Erba, Comum, che era anche porto della flotta lacuale, l’Isola
Comacina e Castelseprio (la fortezza edificata presso Santa Maria di Castelseprio),
sotto Varese (5).
Collegate
con il resto delle roccaforti principali della linea confinaria, sorgeva
una microrete di sorveglianza composta da piccole guarnigioni stanziate in
fortilizi
minori dislocati a triangolo a mezza costa sui monti, ad
assicurare i collegamenti e l'accumulo di viveri.
Mentre
il Castrum Leucum controllava l'imbocco della Valsassina ed i passaggi
lungo l'Adda verso sud, i romani erano anche stanziati nel punto chiave di passaggio (Clavis, ovvero Civate), laddove sorgevano
il ponte sul Rio Torto e
un piccolo luogo di culto (6),
che da quasi due millenni è denominato la
Santa, dove sorgeva un posto di guardia e di controllo sui
passeggeri e sulle merci, e dove v'era anche un' osteria, cauponŭla,
che ha conservato poi incontrastata la sua funzione nei secoli.
Fig.
6.
Isella,
era collegata alla terraferma da
due manufatti: uno, di più sicura e probabilmente molto più antica
fattura, si trovava nel primo tratto che costituisce ancora l’odierno
collegamento con l’agglomerato urbano civatese sul Cornizzolo (allora
chiamato Pedale); l’altro, una specie di lungo pontile, longus
pons,
in pietrisco e legname, che con due tratti univa prima Isella alla sponda
settentrionale del lago e quindi alla sponda meridionale di Annone, luogo
circondato da paludi infide e intelligentemente preposto alla raccolta e
conservazione dell’annona, la
tassa pagata in natura (granaglie) dagli abitanti di tutto il territorio
circostante
A
protezione invece dell'accumulo di viveri coltivati e conservati per il
pagamento dei tributi a Isella
(l’originaria
insula, la striscia di terra che
separa il lago di Oggiono dal lago di Annone), v'erano stanziati, nella
stessa Isella e ad Annone,
ulteriori posti di controllo, supportati nel tempo da altre strutture militari
di più tarda edificazione: il fossatum
(vallo di Isella), nonché, sulle alture circostanti (Barro e Pedale),
il castrum (Castello) e una
torre di controllo al di sopra dell’isola originaria, la Turris in Isellam, che ancora oggi indica in dialetto il luogo della
sua costruzione: Tur’niselö (7).
La
via Bergomum-Comum,
con un percorso di quasi 60 km, si snodava lungo la stretta fascia
pedemontana nella Lombardia centrale, attraversando le attuali province
di Bergamo, Lecco e Como, ponendosi in posizione intermedia tra
l’ambiente montano delle prealpi orobiche a Nord e la fascia delle
risorgive dell’alta pianura a Sud, correndo a settentrione dei laghi
brianzoli.
Condizionato
dalla morfologia del territorio (8),
il tracciato della Bergomum-Comum
proveniente dai pressi di Almenno
San Salvatore (dove il
Ponte
di Lemine
costruito sfruttando un isolotto al centro del fiume Brembo, permetteva il
passaggio delle truppe) raggiungeva la cosiddetta “riviera” dalla
valle San Martino (che separa il monte Canto Alto dalla valle San
Martino), dirigendosi verso il restringimento tra i laghi di Garlate e di Olginate, dove è attestata la presenza di piloni pertinenti ad un
ponte di età romana.
Da
Olginate, il tracciato della Bergomum-Comum
si dirigeva verso Garlate, e risaliva la sella
di Gabiate, dove un percorso agevole consentiva di raggiungere Civate
e il lago di Annone (9).
Da
qui, scavalcato attraverso un ponte (che in seguito si chiamerà ponte di S. Nazaro) il piccolo emissario lacustre - Rio
Torto -, risaliva faticosamente la collina ora di Civate sino Al
Pozzo, potus, dov’era
d’obbligo un po’ di meritato ristoro ai viaggiatori, prima
d’avviarsi ad ovest, continuando a mezzacosta evitando gli insidiosi
acquitrini, per Cariolo superiore, carubiolum,
verso la sua lontana meta di Como (10).
Fig.
7. Il
sentiero che, dalle vicinanze della frazione Al Pozzo, conduce al
monastero di S. Pietro al Monte
Dunque,
alla confluenza fra la via proveniente da Aquileia, con il punto esatto in
cui un piccolo ponte varcava il Rio Torto, i romani assegnarono
l'attribuzione di Clavis,
ossia chiave, per indicarne il
senso necessitato e determinato del transito.
E
ciò, allo stesso modo in cui, come in altri punti di controllo ai piedi
delle Alpi o nelle vallate, si trovano i cosiddetti punti
chiusi fortificati, come ricordano ad esempio Valchiusa, Le Chiuse di
Susa, Chiusa presso Bressanone o la più vicina Chiuso, nei pressi di
Lecco.
Toccherà
in seguito ai Longobardi variare
la voce latina in Clavate, da
cui Ciavate o Ciauate per arrivare all’odierna Civate, il borgo
strategicamente edificato sulla collina.
Sullo
stesso limes
romano, che per secoli fu
inteso come punto di partenza per ulteriori conquiste e successivamente
concepito come linea difensiva, si insediarono, con qualche lieve
cambiamento, gli invasori Goti,
Bizantini e Longobardi tra
il V e VI secolo d.C.
I
Goti (11) preferirono spostare
la loro maggiore postazione militare strategicamente sul Barro,
da dove avevano un eccellente punto d’osservazione complessiva su buona
parte del territorio dei laghi verso Como e sulla Brianza, e da dove
veninva mantenuto un controllo costante sulla Vallis
Mater agraria (Valmadrera), il fondo valle più favorevole alle
coltivazioni e in cui, allo sbocco dell’estuario del lago, era collocata
la zona più idonea alla costruzione ed al controllo dei mulini ad acqua
(che avevano soppiantato le tecniche relative alla macinatura del grano,
facendo perdere importanza ad Annone) essendo già preesistenti le antiche
strutture di controllo militare.
I
Longobardi, più tardi, costruirono proprio nelle vicinanze
l’agglomerato militare di Sala e
ampliarono l’attigua Scarena,
cioè il luogo di collocazione dei mulini, con l’aggiunta di un torchio
per le olive.
Fig.
8.
Il Monte
Barro e, in primo piano, Valmadrera, il
cui toponimo nasce dalla contrazione successiva di Vallis Mater agraria,
ossia inizialmente la dea Cerere (divinità
agricola romana), affiancata e confusa spesso, in queste regioni limitrofe
del dominio romano, con la dea Cibele,
protettrice dei campi e delle messi, oltre che degli animali. Alla
dea, cui era dedicata la valle, gli abitanti e le truppe costruirono un
tempietto rurale, dove un tempo i progenitori Celti avevano già a loro
volta dedicato un piccolo sacro edificio all’antenata più antica della
stessa Mater agraria, ossia alla
triplice divinità nordica delle Deae
Matres
Quanto
ai Bizantini, essi restarono sul territorio per 12 anni, mantenendo
alcuni punti militari strategici da cui procuravano guai ai Longobardi.
Come l’Isola Comacina, difesa per un ventennio e ceduta soltanto da
Francione, ex comandante dell’esercito bizantino, dopo ben sei mesi
d’assedio posto dagli ultimi invasori.
Segni
della loro permanenza compaiono presso la clavis,
dove sostituirono i simboli barbari e pagani dei loro predecessori,
con simboli di civiltà cristiana e di fede (12),
proprio là dove permanevano le radici del culto di antiche religioni
e superstizioni. Vennero quindi pacificamente sostituiti
i luoghi specifici di culto pagano con edifici, simboli e santi cristiani che
ne avessero le identiche caratteristiche e rispondenze.
Ma
se qui non fu possibile ai bizantini, nella loro opera di
cristianizzazione, cancellare di fatto nomi come Silva
Diana o Vallis Mater agraria,
ormai divenuti toponimi radicati, certamente essi si diedero da fare per
sostituire, nel luogo stesso della clavis,
il tempietto rurale della Dea Mater,
ormai comunemente chiamata solo con l’appellativo di sancta e che già doveva aver a suo tempo supplito le divinità
celtiche del luogo, con un edificio cristiano dedicato non ad uno solo, ma
addirittura a tre santi, che rispettassero nel contempo i caratteri di
protezione e propiziazione propri delle divinità pagane, legandoli alle
esigenze del territorio d’appartenenza: Mamete, Simone e Nazaro.
Solo
pochi anni dopo dunque, al giungere delle prime avanguardie dei Longobardi
nel 568, la realtà di questo territorio era caratterizzata dalla presenza
di una serie di fortificazioni, ma anche
insediamenti, località e luoghi di
culto cristiani.
I
Longobardi invece, negli oltre
duecento anni di permanenza, lasciarono più tracce visibili della
strategia militare a loro più consona. Pur forse distruggendovi la
fortificazione gota, considerarono ancora il Barro come caposaldo strategico per la difesa del territorio
circostante, dal momento che da lì si poteva controllare e bloccare
rapidamente sia la via per Como che eventuali attacchi dall’Adda. Vi
costruirono quindi una rocca di difesa (13)
Fig.
9. Monte
Barro
Nel
tragico perido delle invasioni
barbariche, le postazioni
militari poste sulla collina di
Civate si erano rafforzate ed ingrandite ulteriormente per fornire il
necessario aiuto e rifugio agli abitanti dei vicini insediamenti civili. E
così rimasero anche nel VI secolo,
sebbene perdettero d’importanza sia la guarnigione di controllo ad
Isella, sia la torre di
controllo sulla stessa.
I
Longobardi sembrarono più preoccupati di occupare
gli insediamenti militari preesistenti lungo la linea difesa di confine e
di stabilire come e dove far pagare i tributi. Comparvero così gli
insediamenti chiamati Sala, che
di fatto sostituivano i luoghi di raccolta e di difesa delle granaglie già
romani e in cui si stabilivano gli arimanni, cioè i cavalieri armati a
protezione delle riserve alimentari.
E
tutto si mantenne pressoché invariato se Burgundi e Franchi, che già
insediavano questi territori dal tempo della presenza bizantina, attesero
ben due secoli e un re come Carlo Magno per venirvi a fare una visita
definitiva. O quasi.
I
Longobardi, seppur tardi, ebbero un ruolo importante nella storia di
Civate, anche per fattori di carattere religioso e culturale, dovuti in
particolar modo all’influenza dell’edificazione
dei monasteri pedemontani, che in un periodo di due secoli subì una
espansione di non poca rilevanza.
I
monasteri,
infatti, fungevano da punto di
riferimento d’acculturazione comune per la popolazione italica -
insediata da secoli - e longobarda,
con la diffusione dell’ormai condiviso messaggio cristiano (14),
ed offrivano un contributo
organizzativo e diplomatico nei confronti dell’amministrazione
locale e degli eventuali confinanti.
Fig.
10.
L'ingresso del
monastero di S. Pietro al Monte
E
proprio il periodo del regno Longobardo in Italia, soprattutto la sua
ultima parte, è quello particolarmente significativo per la storia
civatese, dal momento che è in questo momento che sorge il monastero di San Pietro al Monte, nucleo benedettino ubicato sul
monte Pedale, le cui origini, in mancanza di dati documentari
inequivocabili, oscillano "fra leggende, mito e realtà, volgendo
ammiccanti lo sguardo a re Desiderio,
chiamato in causa quale fondatore leggendario di San Pietro e donatore
delle preziose reliquie custodite nel monastero per diversi secoli" (15).
NOTE:
(1)
I
Liguri non erano conquistatori, e vivevano di caccia, di pastorizia, ma
anche di un po’ d’agricoltura alle pendici degli Appennini e delle
Prealpi, dove coltivavano il lino e l’orzo, il melo, il nocciolo e il
castagno. Abili artigiani della pietra, cominciarono ad usare i metalli,
soprattutto il bronzo, solo verso il 600 a.C. Le tribù vivevano isolate
le una dalle altre in piccoli villaggi posti presso sorgenti e vie
frequentate.
Le
famiglie, riunite in clan autonomi,
facevano riferimento ad un capo villaggio che presiedeva anche i riti
religiosi in particolari luoghi di culto.
Oltre
ai ritrovamenti relativi al Buco della Sabbia, sul Cornizzolo, ed esattamente sul prato
della colma, sono stati ritrovati reperti litici, come punte di lance
e frecce e qualche piccolo utensile.
(2)
I
Celti, chiamati dai romani Galli e dai greci Galati, sostanzialmente
identificabili con le tribù galliche, appartengono ad una comune famiglia
linguistica indoeuropea ed estesero la loro influenza su quasi tutta
l’Europa occidentale. Apparvero per la prima volta durante il secondo
millennio tra l’attuale Baviera e la Boemia. Nel primo millennio si
diffusero dalla Spagna alle isole britanniche ed al nord d’Italia, ma
giunsero fino in Asia Minore. Abili lavoratori del ferro, cui si deve la
loro forte espansione, controllavano le principali vie di comunicazione
europee sul Danubio, il Reno ed il Rodano. Nel 380 a.C. si spinsero sino a
saccheggiare Roma. Si stanziarono in Italia verso il V sec. a.C.
I
Celti hanno dato la denominazione all’intera Brianza, dal termine brigantia,
forse
per
luogo elevato, ed anche, tra
tanti altri, pure Leuki, tribù
celtica che ai tempi di Cesare era insediata in Francia, oppure dal
termine indoeuropeo locas, lucus,
lucos per indicare campo/paese,
per Lecco,
Laus per
Lodi e soprattutto hanno
utilizzato la radice barros, cui
qualche studioso da il significato di cespuglieto,
mentre altri la interpretano nella sua riduzione tematica di
bar
o ber,
come altura o
recinto.
Di fatto, alla radice tematica più semplice sono legati sul territorio
civatese nomi ben noti, anche se senza dubbio trasformati e fatti propri
in epoca romana, come quelli di Bar, monte
Barro,
Barzegutta,
Baroncello…
(3)
Gradualmente i romani
estesero un rigido controllo su tutta la vasta regione, imponendo da
dominatori il pagamento dei tributi, che consistevano soprattutto in granaglie
i cui luoghi di raccolta e conservazione erano collocati normalmente
vicino alle zone agricole di produzione, difesi naturalmente da
guarnigioni o luoghi di controllo militare che ne provvedessero la
custodia.
(4)
La
Bergamum-Comum costituiva un tratto intermedio dalla strada militare che
dal III sec. d.C. collegava Aquileia - nel Veneto - a Como.
(5)
Durante
questo periodo (III-IV sec d.C.) si assiste ad una diffusione di reperti
connessi con la presenza di militari nel territorio e i diffondersi di
oratorio e di basiliche paleocristiane che si svilupperanno nelle 3 pievi
del territorio (Sant’Eufemia di Erba, Santo Stefano di Garlate, Santa
Maria e San Salvatore di Almenno) e in numerosi conventi e chiese
campestre poste in prossimità del tracciato di fondazione altomedioevale
(San Michele di Almè, San Giorgio di Almenno, San Tomè….).
(6)
Accanto
agli esigui posti di guardia dislocati a triangolo a mezza costa sui
monti, sorgevano anche piccole edicole per il culto
delle
divinità, riservate perlopiù ai soldati, che l’avvento del
cristianesimo, in periodo più tardo, trasformerà in edifici di culto
cristiano. Nello stesso luogo, sulla originaria clavis
romana, quasi dimenticato, sorge infatti ancoral’oratorio di S.
Nazaro e Celso, santi soldati, non unico ed ultimo indizio della presenza
dell’antica postazione militare romana. In verità, anche l’oratorio,
come la località, continua ad essere più comunemente chiamato dagli
abitanti la Santa. Ed il termine
deriva dall’appellativo latino sancta,
che già i soldati romani della guarnigione assegnavano per antonomasia
alla loro divinità agricola, Cerere,
che qui aveva sostituito la dea gallica protettrice dell’agricoltura,
venerata dai Celti.
(7)
Sulla
montagna, le monete romane rinvenute nel buco
della sabbia, nei pressi del dosso
della guardia, sono solo alcune tracce involontariamente lasciate nei
secoli dai soldati succedutisi nei turni di guardia, che forse supplivano
col gioco alla prolungata noia delle ore di riposo.
(8)
Si
possono evidenziare alcuni aspetti della morfologia del territorio che
hanno condizionato l’andamento della via antica: il corridoio naturale
della Valtesse che separa il sistema collinare dove sorge la città di
Bergamo e le valli orobiche, il passaggio nei pressi di Almenno San
Salvatore della via romana su di un ponte di epoca romana costruito
sfruttando un isolotto al centro del fiume Brembo, la cosiddetta
“riviera” dalla valle San Martino che separa il monte Canto Alto dalla
valle San Martino, la presenza nei pressi del restringimento tra i laghi
di Garlate e di Olginate, dove la corrente del fiume Adda è meno forte,
di piloni pertinenti ad un ponte di età romana. La sella di Gabiate che
con un percorso agevole mette in comunicazione Civate con Garlate, le
sponde del fiume Cosia che con andamento orizzontale congiunge la città
di Como con il piano d’Erba proteggendo la via da possibili
impaludamenti.
(9)
Ad
occidente di Lecco, al di là dell'Adda è la Valmadrera, attraverso cui
una via conduceva, lungo l'attuale Rio Torto, in prossimità del lago
d'Annone, contornato ancora, come testimonia già Plinio il Vecchio
nella sua Naturalis historia
,
da estese ed infide paludi.
(10)
Attraversando
la sella di Gabiate, un percorso agevole consentiva di raggiungere Civate,
per dirigersi lungo le sponde del fiume Cosia, che con andamento
orizzontale congiungeva la città di Como con il piano d’Erba
proteggendo la via da possibili impaludamenti.
(11)
Alla
caduta dell’impero romano, nel 456, i Goti assunsero il compito di
regnare sui territori della penisola italica. La fine della loro
dominazione ebbe fine al concludersi della guerra gotica, conflitto
combattuto fra gli stessi ed i bizantini. Questi ultimi, guidati dal
generale Belisario, occuparono la penisola e la capitale gota Ravenna,
catturandone il re Vitige nel 540. Il nuovo re dei Goti, Totila,
riconquistò presto i domini perduti, ma Narsete, succeduto a Belisario al
comando dell’esercito dell’impero orientale, ebbe la meglio su di lui
e sul suo successore Teia e determinò la fine del regno goto in Italia.
(12)
Sebbene
sia vero che il cristianesimo, durante l’ultimo rigurgito di vita
dell’impero romano, portasse la sua diffusione ben lontano da Roma, in
città anche vicine alle sponde orientali del Lario come Milano e la
stessa Como, è altrettanto improbabile che nei pagi,
i villaggi di campagna, il nuovo annuncio religioso giungesse con
convinzione e sollecitudine. E neppure ci si deve illudere troppo che i
Goti, pur con Teodorico ed i mausolei sfavillanti di Ravenna, fossero
stati più convinti e convincenti nella conversione di queste zone
prealpine.
(13)
Annota
Carlo Castagna: “Sulla montagna costruivano dunque una rocca di difesa
che, ripristinata più volte nei secoli, verrà distrutta definitivamente
soltanto nel 1507 dal governatore di Lecco per ordine del provvisorio
governatore francese di Milano. Curiosamente, testimone dell’atto
notarile che riguarda questo avvenimento sarà anche un certo Stefano di
Scarenna, figlio di Filippo. E proprio Scarenna, la scarena longobarda,
cioè il luogo dei mulini, è testimonianza degli ulteriori cambiamenti
portati al territorio dai compatrioti di Alboino. In realtà, già nel
corso del tardo impero, l’introduzione dei mulini ad acqua aveva indotto
a trasferire sul Toscio l’operazione di macinatura, che fino ad allora
era svolta col sistema della follatura ad Annone, dove peraltro non
v’erano corsi d’acqua adeguati all’utilizzo della nuova tecnica.
Probabilmente, questo comportò anche il trasferimento del luogo stesso di
conservazione dei cereali.
Tutto
ciò lo mantennero i Longobardi, dal momento che non solo rafforzarono la
zona di Scarenna, ma stabilirono nelle vicinanze stesse del ponte sul Rio
Torto, a Sala, un dislocamento
dei loro cavalieri armati; il termine sala, infatti, indica sia il luogo di permanenza degli arimanni,
sia quello della raccolta dei tributi in natura”. Nella
zona che interessa la vallata che dal lago d’Annone conduce al Lario
sono dunque ancora individuabili, con questa origine, San Tommaso sul
Corno Birone, la chiesetta di Santa Maria sul Barro, il dosso
della guardia sul Cornizzolo e il più conosciuto Campanone della Brianza sotto il monte Genesio…
(14)
La
conversione al cattolicesimo dei Longobardi, seppur scismatico, aveva
segnato una tappa fondamentale nei rapporti con le popolazioni italiche,
insediate da secoli, e la stessa Chiesa, come sottolinea con benevolenza
lo stesso Gregorio Magno, con il passaggio dall’arianesimo ad una
dimensione di accettazione di fede cristiana. Da essa nasceva
l’intreccio tra il monachesimo di Non, con l’abate Secondo che assunse
un posto privilegiato alla corte longobarda e, in loco, la creazione di
abbazie sparse nella zona del centro ed alto Lario ad opera di Agrippino,
monaco di Aquileia e legato alla abbazia di Piona, roccaforte longobarda
al confine con le terre dei Franchi, di S. Eufemia sull’Isola Comacina,
di Castelseprio e Castelmarte, capisaldi strategici contrapposti ai
Burgundi.
L’elezione
di Agrippino a vescovo di Como risale al 606. Tale monachesimo, tuttavia,
ha in seguito visto consolidarsi maggiormente, anche dopo il successivo
intervento dei Franchi, più il carattere e gli elementi della cultura
transalpina che non il prolungarsi di un legame lontano con l’humus
costitutivo del cristianesimo romano o della ortodossia orientale.
(15)
Chiara Pirovano, "San Pietro al Monte" - Tra arte romanica e
cultura benedettina a Civate, in provincia di Lecco.
Per
il contesto territoriale e storico
-
Appunti per il 2° Corso di Formazione su San Pietro al Monte - 1°
incontro: l’ambiente e la storia (Relatore Carlo Castagna).
-
Carlo Castagna, "Un monastero sulla montagna - Visita a S. Pietro al
Monte".
-
Carlo Castagna,
Età
del rame: l’unicità della “cultura di Civate”
Contributo
inedito per la Via Bergomum-Comum
-
La via Bergomum-Comum. Una strada lungo il pedemonte orobico
- Il quadro morfologico. Abstract tesi di laurea in topografia
dell’Italia antica Università degli Studi di Padova. Di Giuseppe Ge.
(Autrice:
Alessandra
Facchinetti)
Sezioni correlate in questo sito:
www.duepassinelmistero.com
Avvertenze/Disclaimer
Giugno 2012
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