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(di Alberto Arecchi)
Molti castelli della nostra collina (pavese, n.d.r.)sono stati distrutti
dall’abbandono secolare (citiamo ad esempio la “Corte Verde”, i castelli di
Cecima, di Canneto, di Pizzocorno, di Butrio, ma quanti altri?). Altri, come
quelli di Oramala, di Montù Berchielli e di Zavattarello, rimasti a lungo
abbandonati o caduti in rovina, sono risuscitati grazie a nuovi restauri. Nelle
alte vallate si favoleggia persino di intere città scomparse, risalenti ai
Romani o alle invasioni saracene, prima dell’anno Mille. Su queste montagne, non
meno che nella Scozia, in Irlanda, nella valle del Reno o nella Transilvania, la
vita feudale e i rapporti di vassallaggio e di servitù erano duri. Anche queste
colline videro passare cavalieri, splendidi nelle loro armature, che partivano
per le Crociate o alla ricerca del Santo Graal, recando con sé la sciarpa donata
da una donna che si chiamava Beatrice o Selvaggia. Anche le vallate del nostro
Oltrepò celano gelosamente alcuni misteri. Nelle alte vallate si favoleggia di
corti d’amore scomparse, ma anche di luoghi truci dai quali i castellani
dominavano incontrastati, terrorizzavano i valligiani e ne rapivano le figlie,
di fantasmi che popolavano le notti senza luna. Di Ubertino, temuto signore di
Zavattarello, si narravano truci leggende e le ragazze sognavano d’incontrarlo,
nelle notti di luna piena, quando sul suo cavallo nero si lanciava giù per i
pendii delle colline, come un guerriero delle antiche saghe. Menestrelli e
trovatori si arrampicavano verso i castelli della montagna, veri e propri “nidi
d’aquile” arroccati in siti quasi inaccessibili.
Riusciremo ad immaginare il primitivo splendore dell’apparire in lontananza di
castelli come Oramala o Zavattarello, dopo un lungo cammino attraverso monti e
valli boscose? Riusciamo a ricomporre la meraviglia dell’eremo di Sant’Alberto,
aggrappato al versante di una stretta forra torrentizia? Qui forse si
rifugiarono gli ultimi poeti, trovatori occitani e provenzali, perseguitati
nelle loro terre, perché la loro cultura, la loro stessa lingua erano “in odore
di eresia”. Queste valli celano una storia e una magia che nulla avrebbe da
invidiare alle antiche saghe cavalleresche. Vogliamo provare a percorrerle con
il gusto di questa scoperta, a cercare anche noi il “Graal” nascosto nei luoghi
più reconditi del nostro Appennino?
Il Castello di Butrio apparteneva ai Malaspina di Oramala e sorgeva sulla cima
allungata dello spartiacque tra la valle del Torrente Nizza (a nord) e quella
profondamente scavata nei calcari dal Torrente Begna (a sud), proprio di fronte
all'Eremo di Sant'Alberto, nella località oggi indicata nelle carte topografiche
come “Monte di Valle Grande”.
Il conte Cavagna Sangiuliani, alla pag. 40 del vol. III dell’Agro Vogherese, nel
parlare dell’Abbazia di Sant’Alberto, afferma: “...resta situata al sud-est, in
faccia all’antico e diruto castello di Butrio, posto sopra un altissimo scoglio
calcareo, separata dal piccolo ma vertiginoso torrente Bigna (Begna)”. A pag.
108, lo stesso autore menziona l’atto di vendita della “villa” e del castello di
Pizzocorno, fatto il 4 ottobre 1158 dal Marchese Obizzone Malaspina a favore
dell’Abate di Sant’Alberto. Col possesso dei due castelli (e di quello di
Casarasco, posto sotto Butrio, sul versante del torrente Nizza), la valle del
Begna e di Butrio costituiva un’enclave fortemente protetta. Non sappiamo quando
il Castello di Butrio sia stato distrutto, ma si può supporre che esso e la sua
vallata, con le grotte scavate nella falesia calcarea, possano essere stati uno
degli ultimi rifugi di Càtari provenienti dalla Provenza.
Il percorso per raggiungere il sito del Castello di Butrio è bene indicato sulle
carte regionali ed è ancora possibile vedere le tracce dei suoi muri sulla cima
del monte. Si parte da Nizza superiore, dove si attraversa il torrente Nizza
alla quota di m 364. Dopo avere attraversato un campo (circa 200 m), inizia la
salita tra i boschi, su un sentiero argilloso, ben segnato, ampio ma ripido (2
km, per un dislivello di 350 m: pendenza media 17,5%). Occorre all’incirca
un’ora e trenta minuti, a piedi, per raggiungere la cresta del monte; sulla
destra, si percorrono ancora 400 m sotto il bosco, in lievissima pendenza, e si
raggiunge la località in cui sorgeva il Castello (quota 743). Il 15 giugno 2002,
con partenza alle ore 14,40, ci siamo recati sui luoghi appena descritti.
Abbiamo potuto osservare lunghi tratti di blocchi squadrati che emergono dal
terreno, sulla pendice meridionale della cresta del monte, a formare i tracciati
lineari degli antichi muri di cinta; verso est, sembra di poter identificare
l’angolo retto di un torrione di guardia.
Il 3 agosto 2002 (ore 9,45 – 12,20) siamo ritornati in quei luoghi, per
addentrarci nella valletta del torrente Begna. Si tratta di una stretta gola,
incisa profondamente nelle rocce calcaree, lunga poco più di due chilometri.
Essa sbocca nella val di Nizza in prossimità dell’abitato di Moglie, il cui
toponimo – anticamente Mollie – potrebbe significare “terreno melmoso” (cfr. fr.
“mouillé”, v.: MONTI, Dizionario della Gallia Cisalpina…). In effetti, sul fondo
ed allo sbocco della stretta valletta, le acque del torrente Begna trasportano
grandi quantità di terriccio e di detriti vegetali.
La valletta è una vera e propria forra, larga mediamente non più d’una
cinquantina di metri, che si snoda in direzione approssimativamente est-ovest
(nel senso della discesa delle acque), tra due pareti calcaree dell’altezza d’un
centinaio di metri, dall’assetto quasi verticale, con notevoli tratti di
strapiombi, fortemente erose e fiancheggiate qua e là da erosioni laterali.
Parecchi dei canaloni laterali di scorrimento delle acque hanno una sezione
ampia ed arrotondata, a causa dei moti di fluitazione di frammenti lapidei, che
hanno contribuito ad ampliarne e levigarne la sezione. Il fondo è in lieve
declivio: dalla quota di 420 m, al ponticello in cui s’imbocca la valle, si sale
alla quota 500 nei primi 650 m di risalita (12,3% di pendenza), per giungere ai
600 m al capo della stretta valle, dopo altri 1300 m di percorso (pendenza media
di questo tratto: 7,7%). Sul fondo, l’erosione ha scavato un tracciato con
meandri, che si snodano tra setti rocciosi (in un caso il setto è stato forato
da una finestra naturale, in un altro caso esso è largo poco più di 50 cm). Uno
degli scopi dei nostri rilievi era l’accertamento della possibile presenza di
grotte, nelle pareti, che potessero avere costituito un supporto all’habitat
umano, in epoca antica o medievale. La forra del torrente Begna costituisce un
ecosistema molto interessante dal punto di vista naturalistico, ma le condizioni
piuttosto instabili, a causa delle attività erosive, e le frequenti inondazioni
del fondo, non permettono di pensare ad una presenza umana d’insediamenti
permanenti. Inoltre, la rapidità dell’erosione è tale, che lo strato
superficiale delle pareti esposte non appare mostrare tracce ascrivibili ad
un’epoca più antica d’un centinaio d’anni.
L’altura di Sant’Alberto di Butrio domina il fondo della valletta da circa 200 m
di dislivello, mentre la posizione dell’antico castello di Butrio è quasi 300 m
al di sopra del fondo. Pertanto, i cento metri del canyon roccioso occupano
soltanto la metà più profonda della valletta. Al di sopra, il profilo della
valle si apre a “V”, e non è escluso che tra la copertura boschiva si trovino
nascoste grotte naturali (simili a quella – oggi scomparsa – in cui
tradizionalmente trovò rifugio l’eremita Sant’Alberto).
Pertanto, appare opportuno proseguire la ricerca nel versante che scende intorno
all’Abbazia di Sant’Alberto, nella zona compresa tra questa e il gradino del
canyon erosivo. In particolare, sembra interessante proprio la zona del gradino,
ove il pendio inclinato si muta in parete: si tratta della zona più idonea per
la ricerca di eventuali insediamenti del passato.
(Autore: prof. Alberto Arecchi; tratto dall'articolo originale:
http://www.liutprand.it/articoliPavia.asp?id=58)
Sezioni correlate in questo
sito:
www.duepassinelmistero.com
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maggio 2008
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