|
Una tragedia, la morte del toro, che è recitata, più o meno bene, dal
toro e dall'uomo insieme, ed in cui c'è pericolo per l'uomo, ma morte
sicura per l'animale. Impossibile non ricordare Ernest Hemingway, e le
pagine amare del suo Morte nel
pomeriggio, quando si ha la ventura di assistere all’usanza forse più
antica del villaggio. A metà strada tra una corrida
in senso stretto ed un più ancestrale ed auspicabile concurso de recortadores – che a differenza della prima
manifestazione non prevede affatto la morte del bovino per eccellenza –
è proprio in quel costume antichissimo, la sfida dell’uomo al toro, che
si concreta uno spirito combattivo popolare che è retaggio senza tempo. E
senza luogo, visto che tra il villaggio in questione e l’Europa la
distanza ammonta a più di 7mila chilometri. Ovviamente, non siamo in
terra di Spagna. E nemmeno in Sudamerica. E’ un luogo, questo, che non
ha proprio nulla a che vedere con il Vecchio Continente. Zhelaizhai, si
chiama il villaggio. Contea di Yongchang, prefettura di Jinchang,
provincia di Gansu.
La provincia cinese del Gansu (fonte: wikipedia.org)
Fissare
un punto preciso su di uno spazio sconfinato presuppone l’utilizzo di un
numero altrettanto esteso di coordinate. Non potrebbe essere altrimenti,
per trovare un paesino sperduto nel territorio sconfinato del gigante
cinese. Siamo ad un passo appena dalla Mongolia, sul confine meridionale
che separa le terre – scarsamente – abitate a ridosso delle alture
della Cina del nord-ovest dalla rigidità perfetta del Deserto di Gobi.
Per trovare una città come si deve, Lanzhou, da qui bisogna percorrere
300 chilometri
esatti, partendo dalle rovine dell’antica città di Li Quian sulle quali
oggi riposa l’abitato di Zheilazhai. Ad oggi, sono ancora molti gli
abitanti di questo villaggio che conoscono la lotta coi tori. La
considerano un retaggio dello spirito combattivo degli antenati, e per
questo la custodiscono – nelle mani o soltanto nella memoria - con
l’affetto smisurato che si riserva a qualcosa di disperatamente proprio.
Perché nei dintorni non c’è nessun altro che si dedichi a questo
particolare tipo di pratica. Non sono viaggiatori, gli abitanti del Gansu.
Molti non hanno neanche mai messo piede fuori dal piccolo distretto di
Yongchang. Allora, essere detentori di una pratica di questo tipo,l che
non possono aver importato e che ha radici tanto europee da confondere,
deve significare per forza dell’altro. Il sospetto acquista ancor più
peso se si comincia a riflettere sul fatto che qui – e solo qui - uomini
e donne parlano con pronuncia sensibilmente diversa da quella degli altri
abitanti del distretto. Usano suoni più retroflessi, più nasali.
Seppelliscono i loro morti rivolgendone con cura la testa verso ovest, da
sempre. Strano, molto strano. E poi, a guardarli bene non somigliano ai
cinesi. E non sembrano nemmeno mongoli. Prendiamo Song Guorong. Song non
ha più di una quarantina d’anni. E’ alto un metro e ottantadue. Ha il
naso aquilino. E soprattutto ha una gran massa di capelli biondissimi che
gli incornicia i lineamenti. “Da piccolo mio padre mi raccontava che i
nostri antenati venivano da un paese lontano, laggiù” dice indicando
confusamente l’ovest. Il suo interlocutore, un archeologo capitato a
Zheilazhai che stava facendo due chiacchiere con lui, ha iniziato a
trasalire. E non si è certo sentito meglio quando Song ha ripreso a
narrare di come suo padre fosse in grado di provocare la stessa agitazione
a causa non solo dei capelli dorati ma anche di un profondo paio di occhi
azzurri che lo facevano assomigliare parecchio “agli europei visti sui
giornali”. Song è ora un caso di studio internazionale. Esattamente
come un centinaio di suoi compaesani che, secondo gli studiosi, celano nel
loro DNA la chiave di un enigma sepolto da ben duemila anni. Un mistero
che, forse, potrebbe gettare una nuova luce sui nessi più reconditi della
storia, contribuendo a rimettere al suo posto un tassello importante e
dimenticato dei contatti tra Europa ed Asia. Lo stesso tassello che,
forse, potrebbe avere a che vedere con Gu Jianming. Anche Gu è nato e
vive in Gansu, nel distretto di Yongchang, prefettura di Jinchang. Qualche
anno fa, è diventato padre di una bellissima bambina. Sollevandola per la
prima volta, tremante d’orgoglio, non è riuscito a trattenere un
sussulto constatando che la piccola aveva qualcosa di strano, di inusuale.
Una chioma foltissima, bionda come il grano. Anomalia neonatale?
Probabile, ed infatti Gu appena qualche tempo dopo ha fatto tagliare i
capelli alla figlia in attesa di vederli
rispuntare
nerissimi e lucidi come si conviene ad una capigliatura da quelle parti.
Niente da fare. Oggi, Gu ha terminato le spiegazioni da dare alla figlia
circa il colore dei suoi capelli, e mentre i compagni di scuola della
bambina seguitano a chiamarla “capelli gialli”, Gu scopre di aver
terminato le ragioni da fornire anche a sé stesso. Anche perché né
l’uomo né alcuno dei suoi compaesani hanno ancora la minima idea di chi
sia Homer Dubs, Professore di Storia Sinica. La stragrande maggioranza
degli abitanti del Gansu, cresciuti e modellati in osservanza ai dettami
autarchici tanto radicati nell’area sin dall’éra maoista non può
nemmeno indovinare dove si trovi l’Università di Oxford. La prestigiosa
accademia tra le mura della quale, sin dal 1942, si sono svolte
dettagliate ricerche focalizzate proprio sul Gansu in generale, e su Li
Quian – o meglio Zheilazhai - in particolare. Il Professor Dubs
sosteneva a spada tratta una teoria che per i più era quantomeno
bizzarra. Se nella popolazione della zona si rilevavano tratti – ed usi
– caucasici, poteva non essere tanto astruso supporre che si trattasse
di realmente di epigoni di individui caucasici.
Alcuni
scatti dei singolari abitanti di Zheilazhai (fonte: english.sina.com)
Come
è possibile che degli europei si siano stanziati in Cina? Come tante
altre storie, anche questa inizia nel passato remoto. Più precisamente
all’epoca degli Unni. Nomadi e signori delle steppe, stanziatisi tra la
Mongolia ed il nord della Cina, avevano costruito un regno possente che
abbracciava anche il Gansu, la regione in cui sorgeva l’antica città di
Li Quian. Proprio a Li Quian, dopo una scaramuccia, accerchiano e
costringono alla resa un manipolo di strani soldati di passaggio. Uomini
mai visti prima, che nonostante l’inferiorità numerica – sono appena
145 - danno parecchio filo da torcere agli infallibili arcieri nomadi a
cavallo. Anzitutto, si barricano dietro palizzate di tronchi appuntiti che
somigliano paurosamente ai rudimenti dei castra
latini. Ancora, ricorrono ad un inquadramento tattico che la forma di
una "scaglia di pesce". Un metodo che ricorda da vicino un altro
modus operandi. La testuggine
romana. Stupito dal valore indomito della schiera, ed ancor più
dall’attitudine alla lotta per la quale un Unno non può che provare
ammirazione, il condottiero dei nomadi, Jzh Jzh, decide di restituire la
libertà ai suoi prigionieri. Anzi, li assolda come mercenari, includendo
nel suo esercito le loro possenti braccia ed ancor più la loro tecnica
ferrea. Ne fa un utilizzo continuato quanto spietato nella lotta contro i
suoi nemici giurati della dinastia Han. La Biografia di Chen Yang (o Chen
Tang) scritta da Ban Gu e contenuta nel testo degli Annali della dinastia
imperiale, riporta una cronaca risalente al
36 a
.C., che narra di uno scontro aspro tra le truppe cinesi di stanza nelle
provincie occidentali e le schiere di Jzh Jzh, attestate nella roccaforte
unna di Zhi Zhi. Dopo una epica battaglia sul vicino fiume Talas, i
secondi vengono piegati e soverchiati. Ma il valore delle milizie
schierate al fianco degli Unni è tale che perfino gli Han riconoscono
loro l’affrancamento dalla prigionia, ed anzi concedono loro di
stanziarsi in una fetta di territorio limitrofo. Il Corridoio Hexi, che è
ricco di acque e strategicamente importante, ed è appena divenuto
governatorato cinese. E’ qui che appena quindici anni dopo sorgerà Li
Quian. Oggi l’antica città figlia della vittoria Han sugli Unni non
esiste più. Divelta dal tempo, in parte, ed in parte sostituita dalle
fondamenta di Zheilazhai e dal centinaio di abitanti della Repubblica
Popolare Cinese che, a differenza dei loro connazionali, sembrano tutto
tranne che cinesi. Alti. Biondi. A volte addirittura ricci. In molti casi,
con occhi chiarissimi, verdi o azzurri. Sembrerebbero europei,
mediterranei addirittura. Ma le cronache occidentali non riportano alcuna
notizia di popolazioni stabilitesi in quell’angolo sperduto di mondo. O
forse no? Nel
53 a
.C. Marco Licinio Crasso è uno degli uomini più opulenti di Roma.
Castigatore di Spartaco. Triumviro, e dunque sodale di invincibili della
schiatta di Gaio Giulio Cesare e Gneo Pompeo Magno. Ma Crasso ha scarso
fiuto guerresco. Nel triumvirato pesa poco. Al cospetto di Cesare e Pompeo
sembra praticamente figlio di un dio minore. Per questo vorrebbe un
riscatto, la gloria per riequilibrare le sue sorti. La gloria sul
campo di battaglia. Vuole il caso che all’epoca in Asia abbiano preso a
fare baccano i Parti, che hanno inghiottito Iran ed Iraq, Armenia,
Caucaso, Asia Centrale. Un castigo divino, che Roma teme neanche fosse
la peste. Roma
, ma non Crasso. Che è sufficientemente cieco da giudicarli codardi perché
preferiscono affidare le sorti delle loro battaglie agli arcieri a
cavallo, colpendo dalla distanza i nemici e facendone scempio. Crasso
riceve in udienza tre nobili persiani. Sono orrendamente mutilati per
colpa di un signore della guerra, un parto di nome Eran Spahbodh
Rustaham Suren-Pahlav che si è preso i loro nasi, le labbra, le mani.
Surena, lo chiamano i suoi sudditi.
Il sovrano dei Parti Surena (fonte: talentonellastoria.com)
E’
il nemico perfetto. Perfetto per Crasso, che vuole vendetta e gloria.
Tanto da abbandonare l’Eufrate, la protezione naturale garantita dalle
acque su di un fianco, ed ordinare alle sue schiere di marciare nel mezzo
del deserto di Siria. Prenderanno di sorpresa i Parti accampati nel nulla.
Ma Crasso è uno stolto. Non sa che i nobili lo hanno tradito, blandito,
attirato in trappola. La guerra arriva in fretta, ma alle condizioni dei
Parti. A Carre, in Turchia Orientale. Una disfatta orribile in cui 36mila
tra legionari ed ausiliari romani pagheranno col sangue l’avventatezza
del triumviro minore. Mentre l’armata di Roma arranca penosamente tra le
sabbie, i Parti si fanno vivi. Crasso disperde le forze, spedendo in
caccia suo figlio Publio Licinio al comando della cavalleria dei coscritti
gallici. Tutti falciati in un lampo dai catafratti, la cavalleria pesante
d’élite del re barbaro. Miracolosamente scampato alla morte, Licinio
stesso non trova di meglio da fare che uccidersi per il disonore. Nessuno
canta più, nell’accampamento romano. Poi arrivano i barbari, e con loro
la fine. Sopravvivono
in 5mila, agli ordini dell’indomito Cassio, l’ultimo e migliore degli
ufficiali di Crasso. Il triumviro stesso è catturato come una fiera.
Trascinato a forza di braccia al cospetto di Surena e della sua corte.
Verrà giustiziato in maniera esemplare, colando oro fuso nella sua bocca
spalancata. Marcantonio, anni dopo, attaccò a sua volta i Parti per
vendicare l’onore di Roma, mentre un trentennio più tardi fu la volta
di Augusto occuparsi dei barbari, giungendo ad un accordo per riavere
indietro aquile, labari e perfino i prigionieri rimasti. I Parti
riconsegnarono praticamente tutto. Tranne gli uomini, affermando di non
aver mai preso prigionieri. Eccola, la stupida, vana gloria di Crasso.
Eccola, la fine della storia delle sue legioni. Ma ecco l’inizio della
leggenda. Quella riportata da Plutarco, che racconta come durante la
carneficina non tutti i legionari abbiano incontrato
la morte. Pochissimi
sarebbero riusciti a mettersi rocambolescamente in salvo, intraprendendo
un viaggio della speranza in terre sconosciute, incalzati dalla morte che
li aveva sfiorati a Carre. Una legione perduta. Proprio come quelle
celebrate nel pittoresco romanzo partorito dalla penna del nostro Valerio
Massimo Manfredi. Un manipolo di superstiti che avrebbe ripiegato
disperatamente verso il cuore d’Asia. Attraversando l’Uzbekistan e
puntando poi a nord. Verso il Deserto di Gobi ed il confine mongolo. Fino
al Gansu. Fino a Li Quian. Diciassette lunghi anni dopo la disfatta, nel
36 prima di Cristo, le orme della legione scomparsa nel nulla si perdono
misteriosamente. Forse, per riemergere non molto tempo fa, a migliaia di
chilometri da casa e dall’Europa. Nel 1992, le Nazioni Unite hanno
patrocinato
la "Spedizione
Internazionale
della Via della Seta", con lo scopo di restituire smalto al
leggendario itinerario commerciale cui il nome del nostro Marco Polo
appare inscindibilmente legato.
La Via della Seta (fonte: wikipedia.org)
In
occasione di uno scavo presso l'antica città di Luanniao,
100 chilometri
a ovest del capoluogo del distretto Yongchang, hanno riscontrato assonanze
architettoniche incredibilmente al di fuori del contesto cinese.
L'ubicazione degli edifici rifletteva infatti, ed in maniera piuttosto
evidente, lo stile in voga dell'antica Roma. Alcuni etichettarono
frettolosamente il luogo la Pompei
d'Oriente. E’ possibile che abbiano ragione? Quanto c’è
dell’antica Roma in questo angolo remoto di Cina? Frattanto,
l’università di Lanzhou ha condotto alcuni test sul DNA dei locali. Il
46 per cento di loro ha un patrimonio genetico differente da quello
cinese. Sembrerebbe anzi più vicino a quello europeo. Eppure, per
validare il riscontro – e di qui le teorie del Professor Dubs –
mancano ancora test maggiormente sofisticati sul cromosoma Y. Così, il
dubbio sui misteriosi antenati degli abitanti di Zheilazhai intanto
permane. Verrebbe da chiedere lumi a quel centinaio di strani cinesi, se
non si trattasse di probabili, immemori discendenti.
(Autore: Simone
Petrelli) |
|