Excidium. Exterminium. Saevitia.
Ripiegata sui suoi morti per fame, per peste, per ferro nemico, Roma non
assomiglia che allo spettro di sé stessa. Brucia inerte, gemendo le sue
oscure maledizioni tra le fiamme appiccate dalle schiere di colui che
l’ha presa dopo ottocento anni di inviolata pace armata. Il colpevole è
un uomo nel pieno vigore dei suoi quarant’anni. Nato in un villaggio
dell’area danubiana che oggi appartiene al territorio rumeno. Nelle sue
vene scorre il sangue dei Balti, una tribù di girovaghi e conquistatori
di stirpe celtica che hanno consumato le strade d’Europa colonizzando
contrade dai fiordi scandinavi fino all’immenso granaio d’Ucraina.
Alarico, si
chiama. Il violatore del sacro suolo.
Alarico, il
distruttore dell’ultima memoria imperiale.
Alarico, il re
di tutti i Goti.
Alarico (fonte: wikipedia.org)
La notte del 25
agosto 410 porta con sé per i romani ben altro che la consueta malarica
calura. Con le tenebre si abbatte sull’Urbe il peggiore degli incubi.
Quello destinato a soppiantare definitivamente un’èra ed un sogno di
civilizzazione universale, soverchiati entrambi dalla pressione inaudita
che le cento e più razze di barbari migranti esercitano sui confini di
Roma. Il prestigio di capitale dell’Impero, quello sì è riuscito ad
allontanarsi indenne dall’Urbe per prendere più consona dimora in quel
di Ravenna, mentre Bisanzio la sofisticata invoca a gran voce la primazia
tra le città del mondo conosciuto. Solo la voce di Roma in questo clamore
non si ode più. E’ caduta, l’Urbe dei padri, tradita dagli ultimi del
suo stesso popolo, che nottetempo sono riusciti nell’impresa folle di
sabotare gli accessi concedendo il fianco della città ai Goti. Così, le
avanguardie armate di Alarico hanno potuto fare irruzione a Roma a notte
fonda, e passando per giunta proprio dalla porta principale.
La Porta
Salaria deputata a raccordare la parte nuova dell’omonima arteria nata
per il trasporto del sale con quella di più antica memoria, che esce
dalla città e, attraverso la Sabina volge all’Adriatico. Facendosi
largo tra le strade addormentate, i Westgoten hanno ridotto al silenzio perpetuo gli esigui manipoli a
difesa delle mura. Hanno atteso l’arrivo dell’orda, ed è cominciato
l’inferno in terra. Un sacco da settantadue ore filate di morte e
scompiglio. Anche se il re si è violentemente raccomandato, le schiere
ansiose dei suoi sgherri danno il peggio di sé un po’ ovunque. Nel
marasma, Papa Innocenzo I si è assicurato requie ponendosi repentinamente
sotto la protezione ufficiale del primo vero monarca che i Goti hanno
deciso di darsi nel corso della loro turbolenta storia. Così facendo, ha
esteso la protezione di Alarico e della sua spada implacabile sulle chiese
maggiori e perfino sul tesoro degli Apostoli. Quest’ultimo è stato
portato in tutta fretta in Vaticano, al sicuro, con una processione
frettolosa accompagnata da un flebile canto dei Salmi del tutto incapace
di zittire l’eco del macello scatenatosi per le vie dell’Urbe. Alarico
ed i suoi guadagneranno la via d’uscita non prima del 28 agosto. Ma
quella che si lasceranno dietro sarà una Roma assolutamente diversa, e
certamente trasfigurata in peggio. Una Roma, soprattutto, immensamente più
povera, considerato che l’orda intenta a muovere sulle campagne tra le
grida acute del volgo sconvolto ha avuto tutto il tempo ed il modo di
metter mano alle ricchezze di cui la città trabocca.
Sacco di Roma ad opera dei Visigoti, J. N. Sylvestre, 1890 (fonte:
wikipedia.org).
I Visigoti che
riprendono la via portano con sé gli ori ed i preziosi sottratti più di
tre secoli prima in quel di Gerusalemme da Vespasiano in persona,
soggiogatore dell’Oriente. Venticinque tonnellate d'oro e centocinquanta
di argento, ammassate sui carri che arrancano in una carovana
interminabile. Tanto bottino, dunque, ed altrettanti prigionieri,
prelevati a sfregio dalla divelta aristocrazia romana rimasta a languire
tra le macerie dei palazzi di un potere che si è volatilizzato
all’istante. Alarico prende la via del sud, spinto da una smodata
urgenza di raggiungere il sole d’Africa e, magari, dal profondo disagio
di mettere più strada possibile tra sé e la città profanata. Ma ai
barbari armati manca qualcosa di assai più prezioso dell’oro dei
forzieri. Tanto seguito significa altrettante bocche da sfamare, e sulle
schiere gote vincitrici già grava una preoccupante penuria di viveri.
Ma l’agro
romano è un granaio immenso, che si presta ai più sfrenati sogni di
razzia. Saziata la fame, si procede verso sud. Sempre
più in fondo alla penisola, fin dove la terra cede il passo al mare.
I Goti
espugnano la Campania Felix, marciando sulle rovine di Capua prima e Nola
poi. Col sole si combatte, col buio si festeggia. E sono orge senza
memoria e senza futuro. Con pietanze infinite servite da sguatteri
cenciosi che solo qualche giorno prima erano i figli partoriti dalla
migliore nobiltà dell’Urbe, e fiumi di Falerno consumati in gozzoviglie
pantagrueliche. Barbarico pròdromo della parentesi lucana ed
introduzione, soprattutto, alla fase finale del piano del re. Raggiungere
Brindisi. Razziare navi. Fare rotta sulla Libia. I Goti si tuffano sull’Apulia,
forzano le difese di Brindisi e salgono sulle imbarcazioni. Ma Roma ha
lanciato il suo ultimo incantesimo, e le barche stracolme di armati
vengono scosse con foga da un fortunale che colpisce duramente gli
equipaggi improvvisati e li costringe a fare nuovamente vela sulla
terraferma. Per quella via non si passa. Ma Alarico non si arrende.
L’inverno si
approssima, ma riprende il comando dell’orda ed ordina la marcia forzata
verso il Bruzio. Tenteranno la via della Trinacria, e di lì guadagneranno
la mèta. La barbara calata è inesorabile, e presto lambisce la rocca
che, a Reggio, delimita l’accesso al canale di Sicilia. La lotta con la
guarnigione locale è feroce e senza requie. La città viene data alle
fiamme. L’incendio è tanto esteso e selvaggio che le lingue di fuoco si
scorgono perfino da Messina. Si diffonde il panico, ed è un terrore cieco
quello dei dardi nemici, dei palazzi e dei campi devastati che si
intravedono ad appena un braccio di mare di distanza. Giunti di fronte al
mare ed alle masse di disperati che cercano riparo in terra di Sicilia,
Alarico si arresta.
Non si è
ancora placato, ma un’ombra inquina la vampa che gli si leggeva negli
occhi. Non raggiungerà mai la costa africana, nodo strategico del
Mediterraneo e terra più produttiva dell'Impero. Ha da poco passato i
quarant’anni, ma sembra svuotato del suo vigore indomito. Appare pallido
e gonfio. Colpa, forse, della lunga marcia, della calata infinita lungo lo
stivale. Della malaria endemica che attanaglia il Bruzio, certamente. Ed
ancor di più dei protratti stravizi. La sua orda non può mantenere la
posizione in eterno. Così ripiega su Cosenza.
Alarico cade,
stroncato da un male oscuro o, più verosimilmente, da un colpo di lancia
fatale, ricevuto durante l’assedio reggino. I Visigoti, rimasti senza
guida, piangono la dipartita del loro primo, vero re. Homo indomitus capace di piegare il corso della storia estraendo da
un popolo di girovaghi dozzinali e militarmente disorganizzati l’essenza
di un esercito di conquistatori. Ai suoi fedelissimi non resta che
approntare la regale sepoltura, consegnando la cronaca del sovrano nato in
terra rumena nelle mani della leggenda diafana del flagellatore delle
terre romane.
Scompare così
l’Alarico storico, per far posto al mito di un condottiero caduto non si
capisce esattamente come e, soprattutto, misteriosamente sepolto non si sa
dove.
E’ un
racconto antico, questo, che si lega per di più a doppio filo con quello
dell’imperscrutabile destino di un favoloso tesoro, strappato
all’abbraccio dei forzieri di Roma per essere ammassato sui carri dei
barbari nella rocambolesca e furiosa marcia a metà tra l’avanzata e la
fuga che drammaticamente è giunta al termine tra le nere selve della
Sila. Un racconto antico, dicevamo, in merito al quale Auguste De Rivarol
aveva torto.
Come ogni
antico avventuriero, come ogni gentiluomo di fortuna che si rispetti,
forse nello stilare le sue memorie si era abbandonato un po’ troppo
all’improvvisazione. Così, aveva finito per inquinare la ricostruzione
di quel romanzo rocambolesco che era stato la sua vita con l’amara ma
potente malia dell’inverosimiglianza, della diceria, della leggenda
surreale perfino. Il primo decennio dell’Ottocento vede un’altra
marcia insinuarsi lungo lo stivale. E’ quella dei napoleonici alle
dipendenze del generale Manhès, con il De Rivarol ufficiale di brigata e,
soprattutto, autore del primo reportage ante
litteram sulla Calabria del primo Ottocento.
Forse, tra il
1809 ed il 1812 il nostro napoleonico cronista aveva sostato davvero lungo
il fiume Crati, riportandone poi minuziose descrizioni tra le pagine del
suo manoscritto. Di sicuro, tuttavia, non si era mai imbattuto nei due
scudi di foggia antichissima saldati insieme. E nemmeno nel loro
spaventoso contenuto. I resti mortali di un re di tutti i Goti e storico
saccheggiatore di Roma seppellito in tempi remotissimi in quelle contrade.
Alarico. De Rivarol si sbaglia, ma forse il suo è un abbaglio
inevitabile, perché nel 1810 Das
Grab im Busento è poco più di un pensiero nella mente del conte
August von Platen.
August
von Platen-Hallermünde ritratto da Johann Moritz Rugendas , 1830 (fonte:
wikipedia.org)
Dovranno
passare altri dieci anni perché il drammaturgo tedesco condensi le
infinite leggende cosentine in una ballata, La tomba nel Busento, destinata a riscuotere un successo maiuscolo
in tutta Europa. Una fama repentina che farà presto in modo che perfino
Giosuè Carducci ne curi una traduzione italiana. Il testo suona così:
Cupi a notte canti suonano
Da Cosenza su ’l Busento,
Cupo il fiume gli rimormora
Dal suo gorgo sonnolento.
Su e giù pe ’l fiume passano
E ripassano ombre lente:
Alarico i Goti piangono,
Il gran morto di lor gente.
Ahi sì presto e da la patria
Così lungi avrà il riposo,
Mentre ancor bionda per gli omeri
Va la chioma al poderoso!
Del Busento ecco si schierano
Su le sponde i Goti a pruova,
E dal corso usato il piegano
Dischiudendo una via nuova.
Dove l’onde pria muggivano,
Cavan, cavano la terra;
E profondo il corpo calano,
A cavallo, armato in guerra.
Lui di terra anche ricoprono
E gli arnesi d’òr lucenti:
De l’eroe crescan su l’umida
Fossa l’erbe de i torrenti!
Poi, ridotto a i noti tramiti,
Il Busento lasciò l’onde
Per l’antico letto valide
Spumeggiar tra le due sponde.
Cantò allora un coro d’uomini:
"Dormi, o re, ne la tua
gloria!
Man romana mai non víoli
La tua tomba e la memoria!"
Cantò, e lungo il canto udivasi
Per le schiere gote errare:
Recal tu, Busento rapido,
Recal tu da mare a mare.
Stando ai versi della ballata
la solenne inumazione del re, sepolto come all’uso barbaro insieme al
suo destriero, alle armi che usava recare seco in battaglia e,
soprattutto, agli arnesi d’òr
lucenti che ne costituivano il rinomato tesoro, sarebbe avvenuta nel
letto di un altro fiume cosentino, il Busento.
Il corso del Busento presso Cosenza in una stampa ottocentesca (fonte:
indire.it)
Quest’ultimo
provvidenzialmente deviato nel suo corso, onde consentire alle schiere
gote di approntare con relativa facilità un’inviolabile sepoltura al più
grande dei loro condottieri. Per questo, terminato lo scavo, la sorte di
Alarico sarebbe stata seguita anche dalla totalità degli schiavi
impiegati allo scopo, eliminati repentinamente per evitare di lasciare in
vita scomodi testimoni. L’immagine che emerge dai versi di von Platen,
per quanto singolare e pittoresca possa apparire, trova conferma anche in
quanto riportato nelle cronache più antiche, vale a dire quanto a
proposito riportato sia dallo storiografo bizantino di origine alana
Giordane che dal romano Flavius Magnus Aurelius, consigliere di Teodorico
e più noto come Cassiodoro di Squillace. Eppure, riflettendo sul destino
delle spoglie de re goto e dei suoi tesori, nel corso dei secoli
l’immaginario non solo locale ha saputo partorire e consolidare un
coacervo sorprendente di versioni ed ipotesi. Un coacervo nel novero del
quale, anche spuntando la voce relativa al fantasioso episodio riportato
dal De Rivarol, la lista dei papabili luoghi di riposo eterno
dell’antico e temuto sovrano barbaro non accenna comunque a ridursi di
molto.
Allo
stesso tempo, non sembra destinata a restringersi la schiera dei tanti
volenterosi che, nel corso dei secoli, si sono cimentati nella favolosa
impresa di scovare le ultime tracce mortali di quel barbaro condottiero
che, secoli addietro, aveva reclamato di fronte ad un potere al tracollo
il suo diritto di essere Magister
Militum. Nella prima metà del Settecento, un preside della Calabria
Citeriore e patrizio napoletano che nel suo carnet
poteva vantare i titoli di dottore in legge, avvocato concistoriale,
cappellano del tesoro di San Gennaro e, soprattutto, monsignore - il tutto
racchiuso nella persona di Giuseppe Capecelatro - finanziò una serie di
ricerche nelle campagne del cosentino. I mille scavatori radunati dal
patrizio setacciarono con particolare insistenza la confluenza di due
fiumi, il già menzionato Crati ed il Busento, che orlano di esigui flutti
buona parte dei confini dell’abitato di Cosenza.
Nonostante
le premesse incoraggianti e la considerevole energia profusa, l’ardita
impresa del religioso e dei suoi mille scavatori non incontrò tuttavia il
successo sperato. Identico, scoraggiante risultato registrato, poco dopo
l’unità d’Italia, dall’analoga iniziativa patrocinata da un
deputato della sinistra locale, Davide Andreotti.
E’
il 1937 quando la ricerca, esauriti i toni più canonici, inizia ad
ammantarsi di paranormale. Fausto Terzani è un volenteroso – sebbene
non ufficialmente titolato - archeologo nativo di Ascoli Piceno quando
decide di cimentarsi nell’impresa di scovare la favolosa tomba di
Alarico. Porta con sé una collaboratrice francese di nome Amelie Crevelìn.
La
donna, oltre che nota sensitiva, è particolarmente versata nella liminale
arte della rabdomanzia. Così, i due iniziano a rastrellare, bacchette
alla mano, i suburbi di Cosenza. Paradossalmente, malgrado gli scarsi
risultati prodotti, la loro ricerca è tanto singolare da presentare
l’indiscusso merito di far parlare prepotentemente di sé. Così, la
notizia della strana coppia intenta a setacciare le viscere del suolo
calabrese finisce per valicare i confini dell’Italia fascistissima,
facendosi largo fino a Berlino. Dove viene captata da un uomo che ha un
udito finissimo in tema di suggestioni occulte.
Quell’uomo
è un occhialuto bavarese che ostenta per i corridoi del Reichstag la sua
impeccabile divisa nera di Reichsführer
delle Schutzstaffel. E’ comandante della polizia e delle RSHA, le
Reichssicherheitshauptamt forze di sicurezza, ma soprattutto fondatore
della Ahnenerbe Forschungs und
Lehrgermeinschaft.
L’Associazione
per la ricerca e la diffusione dell'eredità ancestrale votata alle
ricerche riguardanti la storia antropologica e culturale della razza
germanica, i cui membri, per metà soldati e per metà scienziati,
presentano sulla divisa una runa Odal incrociata ad una spada. Le
SS-Ahnenerbe dimostrano particolare interesse in relazione al mito della
morte e della sepoltura del condottiero visigoto, e Himmler stesso
approfitta di una visita ufficiale del Fuhrer a Roma per accompagnarlo in
Italia e ritagliare qualche settimana per sé ed i suoi a Cosenza.
Cercano
di rintracciare la tomba nascosta del re barbaro alla confluenza del
Busento e del Crati non solo per ridare ufficiale lustro ai destini un
sovrano germanico che la storia volle più grande di Roma, ma anche e
soprattutto per mettere le mani sul tesoro che le leggende vorrebbero
sepolto insieme ad Alarico nel ventre della terra cosentina. E soprattutto
perché, se i preziosi trafugati a Roma sono gli stessi dirottati
sull’Urbe dopo la conquista di Gerusalemme, un certo intuito suggerisce
al gerarca che sotto metri di terra scura potrebbe celarsi addirittura
l’Arca dell’Allenza di biblica memoria.
Ma
i neri accoliti di Himmler non trovano nulla, e dopo aver rovinato la
festa al piceno archeologo dilettante ed alla medium francese sua sodale
volgono la loro attenzione altrove. Alcune cronache sostengono che il
capannello di SS non si sia allontanato poi troppo.
Pochi
giorni dopo vengono infatti visti scavare intorno ai sepolcri delle
famiglie Masci e Baffa Trasci nella Chiesa medievale di Santa Sofia
d’Epiro, altro villaggio in terra consentina che ha tuttavia la
caratteristica peculiare di essere popolato da una maggioranza arbëreshë,
albanese, conservando costumi tradizionali slavi e riti bizantino-greci.
Negli
anni Cinquanta, il mito di Alarico viene rispolverato dal dimenticatoio in
cui le bombe e l’oblio della guerra lo avevano precipitato.
C’è
chi investe nuovamente sulla pista paranormale, convinto che per ritrovare
un dato perduto nella storia ancestrale dell’Europa si necessiti di un
supporto che va ben oltre le più professionali abilità scientifiche.
E’ il 1951 quando due pugliesi autodefinitisi sensitivi sottopongono il
cosentino al misterioso vaglio del loro potente pendolino. I due si
chiamano Adolfo Greco e
Giuseppe Belfiore.
Il
secondo è il più motivato ad intraprendere la ricerca, perché sostiene
di essere stato visitato in sogno da Alarico stesso, il quale oltre ad
esortarlo all’impresa gli avrebbe suggerito di scavare in prossimità di
una frazione del comune di Carolei, a Vadue, località che presenta i
ruderi di un Ninfeo Romano.
Proprio
durante un sopralluogo, il pendolino di Greco e Belfiore segnala qualcosa
ad una profondità di circa 50metri… Ma sobbarcarsi degli scavi veri e
propri rappresenta per i due sensitivi un’ipotesi assolutamente
impraticabile, massimamente per i costi esorbitanti ben al di là della
loro portata. I due decidono allora di giocarsi l’asso nella manica. Ed
inviano un accorato appello a qualcuno che sta molto in alto. Che ha molti
fondi. E che nutre una passione non indifferente per l’archeologia. Il
re Gustavo Adolfo di Svezia. Che tuttavia, presagendo anche l’esborso
notevole di asportare tonnellate di terra per raggiungere il misterioso
bersaglio posto a decine di metri di profondità, evita di dare riscontro
alla coppia di volenterosi.
Più
passa il tempo, più gli elementi di questa antica equazione finiscono per
essere messi in dubbio uno dopo l’altro. Così, si iniziano a vagliare
ipotesi collaterali. C’è chi, fedele ad un’ipotesi meno ortodossa e
ben più creativa di quella cosentina, sposta ricerca, squadre e scavi
presso un corso d’acqua che con il Busento ha in comune la quasi totalità
del nome e la confluenza nello Ionio, il rio lucano Basento.
C’è
Erik Furugard, che di mestiere fa il ricercatore, che si prende la briga
di riesaminare la gli scritti di Giordane finendo per appigliarsi ad
un’indicazione che situerebbe il sepolcro pedes
montis, cioè nelle vicinanze delle pendici di un rilievo. Così, al
tedesco viene in mente che nella valle del Crati esiste, nei pressi del
paese di Domanico, una cittadina chiamata Bisentio. In questo abitato che
un tempo era indicato col toponimo di Bisignano sorge una località
chiamata Grifone in cui svetta il Cozzo Rotondo. Probabilmente un tumulo funerario di forma circolare
ellittica che ricorda in modo impressionante le tombe concepite dalle
popolazioni del’est europeo – Daci e Goti compresi.
Oggi
questa strana collinetta risulta visibile perfino dall'Autostrada del Sud,
transitando nei pressi di Tarsia. Dal 1989 Natale e Francesco Bosco, che
oltre alle comuni origini condividono una sana passione per la ricerca
archeologica, hanno intrapreso la loro personalissima lotta alla damnatio memoriae di Alarico.
Partendo
dalla convinzione che deviare un fiume come il Busento rappresenti
un’operazione che non poteva passare inosservata neanche nel 410 dopo
Cristo. Indagando e perlustrando, i due hanno finito per scoprire un sito
quantomeno interessante nei pressi della confluenza del fiume Caronte con
il torrente Canalicchio.
Risalendo
il fiume, più a monte ci si imbatte nel ponte di Carolei, laddove un
vecchio viadotto romano sul Caronte nasconde una vallata che negli anni è
stata protagonista dei misteriosi racconti degli anziani del luogo. Alla limba di Alimena c'è un tesoro brigantesco, dicono i vecchi
ammassati nelle piazze dei paesini limitrofi. E’ una vallata desertica,
quella sotto l’Alimena, che in antichità ospitava una strada che,
partendo da Cosenza, portava al mare, ad Amantea sul Tirreno, laddove i
Goti diretti alla Trinacria sostarono prima di risalire la montagna per
raggiungere Cosenza.
Veduta da una delle grotte
dell’Alimena (fonte: alimena.com)
Questo
luogo denso di memorie è ricolmo di rocce costellate di incisioni
iniziatiche che starebbero ad attestare la sacralità del luogo. La
conferma giunge da un’enorme croce, venti metri di altezza per dodici di
larghezza, scolpita sulla roccia presso un fianco della valle in una
località denominata Rigardi. Toponimo che in lingua gotica indica
“osservanza rispettosa”. Sull’altro lato, risalendo il ponte di
Carolei per un chilometro e mezzo, una rupe a strapiombo del massiccio
vede aprirsi alcune fenditure naturali.
All’interno
della più grande delle due grotte naturali a strapiombo sulla valle, è
celato quello che assomiglia paurosamente ad un rozzo altare di fattura
germanica. Altare, questo, che nonostante si trovi in una cavità calcarea
di origine vulcanica poggia su di uno strato di sabbia di origine
fluviale… Forse, i fratelli Bosco sono pericolosamente vicini alla
soluzione dell’enigma.
Ma
dall’alto nessuno ha sinora rilasciato permessi per scavare nell’area.
Non i funzionari della Soprintendenza archeologica di Reggio Calabria, che
hanno negato qualsiasi validità alle ipotesi dei Bosco. Paventando un
pericolo ulteriore e ben più inviso dell’oblio della memoria. Il
rischio che scavi non ufficiali vengano condotti in loco da tombaroli di
fortuna, alla ricerca di venticinque tonnellate d’oro e centocinquanta
d’argento forse sepolte assieme a misterioso Alarico.
Una mappa
della misteriosa località (fonte: alimena.com)
Il
fiume Busento alla luce dell’alba appare poco più di un modesto
rigagnolo, il cui colore sembra ricalcare quello degli ulivi piantati un
po’ ovunque nelle vicinanze. Scorre veloce tra sabbia gialla e pietre,
sprofondato nel suo letto largo ma non quanto il Crati, che è un sussurro
flebile di acqua in movimento lanciato sul fondo di un alveo spropositato
a causa delle frequenti inondazioni.
Oltre
il Crati si apre la Sila. Nobile montagna ammantata di foschie nel primo
sole del mattino, che va a fugare il nero delle selve rampicanti
restituendo respiro e luce alle gradinate ricavate dal lavoro dei
contadini sulle colline ed ai pascoli che brulicano di greggi. Con un
po’ di fortuna si riesce ad intravedere lo Ionio, un angolo di spiaggia
che nel passato più remoto di questa terra ospitava gli artigiani navali
della Magna Grecia. Sparite le torme di briganti, sfoltite drasticamente
le fila di contadini e pastori, questo angolo di Calabria resta immerso in
un silenzio crescente. Lo stesso deputato a mantenere intatto fino a chissà
quando il segreto del sepolcro reale d’Alarico, primo ed ultimo re dei
Visigoti che qui incontrò la morte, forse carico di un trofeo d’ori
romani.
(Autore:
Simone
Petrelli)
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